Mi ero accollato io la bega di passare dal forno, ed era anche logico visto che risultavo l’unico a possedere uno scooter nella cerchia dei parenti stretti e c’era da attraversare mezza città.
L’unico forno crematorio della provincia lavora 24 ore su 24 ma, nonostante il ciclo continuo d’attività, accumula sempre maggior ritardo nello smaltire i clienti.
Farsi cremare è l’ultima moda a quanto pare. Viene quasi voglia di morire, giusto per farsi mandare in fumo e non dare soddisfazione ai vermi.
Mio nonno va in scena questo pomeriggio alle tre, dodici giorni dopo la sua dipartita. Abbiamo scelto la cremazione, d’accordo con mio padre, non perché il vecchio l’avesse lasciato scritto o detto, ma solo per spendere meno.
Ce l’avrebbero polverizzato e raccolto in un’urna dalle dimensioni di una scatola di scarpe da donna e poi, noi, così confezionato, l’avremmo introdotto nello stesso loculo di nonna. Sarebbe stato sufficiente aggiornare la scritta sulla lapide.
Marina, un’amica di mamma abita sulla via per andare al cimitero dove sta il forno, e mi stavano venendo dei pensieri. Niente di che, mi faccio un film in cui mi fermo a trovarla con lei che mi offre da bere e magari pure qualche cos’altro. D’altra parte era stata proprio Marina, cinque anni prima, quand’ero ancora un pischello in erba, a farmi toccare le sue tette e a gettare le basi per il monopolio delle mie fantasie erotiche dei successivi mille e mille anni.
«Ho notato che le stai guardando» mi fece ammiccando al decolleté «beh, puoi dare anche una palpatina, se ti va».
In effetti, mi andò parecchio abbrancare le due mammelle e massaggiarle, fino a che sentimmo rientrare mia madre.
Il lavoro era rimasto incompiuto e la mia inesperienza non aveva facilitato altri rendez vous con Marina.
Avevo pensato di partire con un certo anticipo e presentarmi da lei sbarbato e docciato ma, tra un foglio da compilare e un paio di telefonate da fare, passai sotto casa di Marina che erano già quasi le tre e decisi di non fermarmi. Correvo il rischio, dopo tutta l’attesa, che alle cremazioni mi dessero via il nonno. Che lì aspetti e aspetti, alla fine se ti danno una scatola, pure se non è la tua te la pigli, non ti conviene fare il difficile.
Ai forni manco una tettoia c’era, e la pioggerella, a furia d’insistere, era riuscita nell’impresa bastarda di bagnarmi.
Mentre aspetto le ceneri di nonno non c’è molto da fare, sto in zona, leggo le epigrafi e respiro. I morti cremati hanno un odore dolciastro, non so se è il legno della bara o il materiale organico proprio, fatto sta che pare di stare fuori a una rosticceria cinese, con quello che ne consegue. Dopo cinque minuti sei intriso d’odore di morto bruciato e senti in bocca il gusto dolciastro. L’essenza ti penetra e ti opprime e, quando pensi di allontanarti, ti chiamano.
«Centurioni Otello?»
«Eccomi, è mio nonno».
Consegno le carte, spargo una decina di firme e mi sistemo l’urna acciaiata sotto a un braccio. Lascio finalmente il ricettacolo del tanfo, che tanfo poi non è, ma stucca, che è quasi peggio.
Al nostro cimitero, dove dobbiamo tumulare il nonno, mi aspettano per le 16, ci sono i miei familiari, qualche zio e un paio di cugini, insomma, una decina di parenti in croce.
Sono in perfetto orario e so che dovrei filare dritto dai miei, ma mi torna la voglia di Marina, del suo caffè e della sua morbidezza. D’altra parte il nonno ormai l’ho agguantato.
Mi fermo, che sarà mai, tutt’al più tardo dieci minuti, sempre che sia in casa. Mi butto giù per i tornanti piegando e accelerando per guadagnare qualche minuto e spero che l’urna con il nonno, nel bauletto, non ne risenta. Non vorrei sbagliarmi, ma mi pare che soffrisse pure di mal d’auto, il nonno.
Suono, e una parte di me spera che non ci sia nessuno, l’altra parte di me, invece, quella che corrisponde al 99%, trema di desiderio e prega che Marina apra.
«Chi è?»
«Sono Giacomo, il figlio della Piera…»
Attimi infiniti e muti. Ecco, adesso mi manda a cagare e poi chiama la mamma per dirle che mi sono perso. Penso al nonno nel bauletto che sorride sornione e mi fa:
«Ehi, che cazzo, non vorrai lasciarmi qui!»
Salgo. Una volta su, gli abbracci e i saluti si sprecano, con tanto di baci sulle guance. È un po’ arruffata ma è sempre una bella donna, ed è sola. Mi fa sedere.
«Prendi qualcosa? Un caffè?»
Faccio di sì con il capo ma non esce un fiato dalla mia bocca impastata. Un enorme e pacchiano orologio da parete segna le 16, saranno già tutti in fibrillazione giù al cimitero. Li posso quasi vedere che scalpitano e sbuffano, impazienti di murare il nonno e ripartire, chi per l’ufficio, chi per casa e chi per un qualsiasi posto del mondo meno merdoso di un cimitero.
Marina è appoggiata al mobile di cucina, mi guarda con una smorfia che è la vita:
«Non è che sei venuto per me, per caso?»
Cristo sì, vorrei dire, invece scappo.
«Scusa» le faccio.
Scendo e filo al motorino, apro il bauletto e prendo le ceneri del nonno.
E torno su, da Marina, di corsa. Mi assale di nuovo l’aria dolciastra che pare sprigionarsi dall’urna. Eppure dovrebbe essere sigillata, forse l’odore mi si è piantato nel naso, forse ne ho impregnati i vestiti.
La trovo sulla porta, sorride di quel sorriso che dice tutto. Le indico un mobile basso appena all’interno:
«Ti spiace se la metto qui, non mi arrischio a lasciarla al motorino».
«Certo, appoggia pure. Poi mi dici cos’hai lì di così prezioso…»
È allora che mi ritrovo un metro di lingua in bocca e il corpo di Marina spiaccicato sul mio, mentre sento che passa il caffè. L’aroma si spande per casa e sormonta implacabile ogni altro olezzo.
Qualcuno aspetterà.
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Il testo partecipa all'EDS Il nome della cosa come anche :
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