27 marzo 2013

Ics Inps Zeta

C'è la NASA e subito dopo c'è l'INPS.
Provare a ottenere il Codice Individuale del contribuente era (è?) una procedura a prova di Mossad e la riuscita del tentativo un'incognita.
Registrarsi online per ottenere i primi 6 caratteri del codice, gli altri 6 ti vengono spediti a casa in busta chiusa, protetta e assicurata. Questi ultimi sono stati scritti su un foglio con lo stuzzicadenti intinto nel succo di limone e li puoi leggere solo al buio e con la candela che illumina da dietro. Fatto? Bene, hai i tuoi 12 caratteri per il login al sito dell'INPS e la prima cosa che ti chiede appena effettui l'accesso qual è? Di segnarti il nuovo codice INPS perché te lo cambiano subito. Fate le virgolette colle dita e pronunciate tutti insieme "questioni di sicurezza".
Poi non basta, però, ti telefonano a casa e vogliono parlare con l'intestatario del codice, pure se questo ha un'invalidità del 100% e alla domanda "Sei tu davvero Tizio Caio" può rispondere, quando va bene, "Papparapà".
E così, mancando l'autenticazione vocale finale, ti bruci anche il codice già acquisito e devi ripetere la procedura dall'inizio assoldando un'anziana vicina in salute che si finga la tua mamma al momento della telefonata di verifica.
Se t'impegni, comunque, sempre che tu sia possessore e skillato fruitore di dotazioni informatiche, alla fine della fiera te lo ritrovi un buon codice individuale INPS. E qui puoi pensare che in fondo il Codice Individuale INPS è per sempre, tipo un diamante. Magari! Non appena ti ripresenti sul sito famigerato, se sei stato inattivo per più di trenta trentacinque minuti te lo fa cambiare il tuo amato codice e parte un nuovo e macchinoso iter.
Poi, se proprio ti dimentichi dell'INPS perché magari per qualche mese non hai bisogno, capace che ti chiamino loro nel mezzo della nottata e t'informino che il tuo codice è nuovamente scaduto e che tu debba rinnovarlo presentando magari l'iride del contribuente intestatario. E lì ti devi attrezzare per l'espianto, perché non t'aiuta certo nessuno.
Ma poi, mi chiedo, perché tutta 'sta sicurezza all'INPS che con una password dispositiva in banca, da 10 anni sempre la stessa, posso gestire il mio c/c o, sempre con una password, disporre pagamenti sicuri online con carta di Credito.
Chi è, mi chiedo ancora, il cazzone che vuole fregare il Codice Individuale INPS di mia mamma per poter versare in sua vece i contributi della badante? Chi è? Che mi telefonasse, glielo detto al volo il codice.

22 marzo 2013

Anche le formiche nel loro piccolo sono Mennea

Non ce le avevamo le carte Pokémon, per fortuna, tantomeno le Yu-Gi-Oh e di consolle manco a parlarne. In estate poi non giravano più nemmeno le figurine Panini. Però c’erano le formiche, quelle sì.
Avevamo degli scatolotti trasparenti da pasticche che trafugava da casa il mio amico, il figlio dei farmacisti, tutti belli etichettati coi nomi dei velocisti più noti in quel momento e dentro, assieme a cibarie da formiche tipo semini pane insalata, ci cacciavamo una formica. Era una colonia, sì quasi un carcere, ma le accudivamo al meglio (*).
Poi, su un compensato, con dei chiodi ritorti, avevamo fissato una forassite da elettricisti di quelle grigie, ché quelle colorate son venute dopo. La forassite faceva una curva e poi dritta a riprodurre il tratto di pista percorso dai velocisti sui 200 metri.
L'idea era quella di cronometrare il tempo di percorrenza del canale da parte delle formiche e poi moltiplicarlo per un coefficiente che lo rendesse confrontabile con il 19,83 di Tommie Smith, allora ancora record del mondo.
Al momento della gara il bussolotto veniva accostato all'entrata della forassite/pista che la formica avrebbe dovuto percorrere più velocemente possibile. Pure se nessuno gliel'aveva detto, restavamo fiduciosi.
Avevamo Don Quarrie, Valery Borzov, Hasely Crawford, Steve Williams e Pietro Mennea, tanto per capirsi.
I formiconi che potevamo catturare, lasciando stare le specie troppo piccole, erano di due tipi. C'era il tipo flemmatico, quelle belle cicciotte, che se la pigliavano comoda nella vita come nella nostra pista, facevano qualche passetto e poi capace che stavano mezza giornata dentro alla curva a contemplare non si sapeva bene cosa. E poi c'era il tipo più snello, l'addome più ovale che tondo, che quelle non stavano ferme mai, anche di più difficile cattura. Queste ultime non facevi a tempo ad introdurle nel tubo che erano già uscite dall'altra parte e te rimanevi lì, col casio nero in mano, incapace pure di farlo partire il tuo adorato cronometro al centesimo di secondo, figuriamoci fermarlo a dovere.
Andò così che Don Quarrie rimase in pista finché non lo soffiammo via colla forza, mentre Mennea riconquistò la sua libertà in un lampo e il coefficiente di ricalcolo non fu mai nemmeno ipotizzato.
Il gioco durò perciò poco e, come saggezza popolare vuole, risultò assai bello.

(*) Nessun animale è stato maltrattato nella produzione dei 200 metri piani in forassite.

19 marzo 2013

Laß Dir raten, trinke Spaten


C’eravamo aggregati a due amici, o loro s’erano aggregati a noi, poco importa, ma non ce n’era di pappa da spartire con loro. Non se l’erano sentita al mattino di farsi due ore di coda per trovare posto all’ostello e a fine serata se ne andarono via su una metro per la stazione a pigliar calci notturni dalla Polizei. Mentre noi, che la coda per l’ostello ce l’eravamo sciroppata tutta imparando, tra l’altro, che se non parli tedesco e vuoi un guanciale almeno pillow è meglio che lo sai, noi prendemmo un’altra linea diretti all’ostello, incanalati in una fiumana capace di trascinare a destinazione anche i meno lucidi.
E Monaco è il miglior posto del mondo se ti ritrovi ubriaco.
Per cena avevamo squartato a mano un pollo arrosto seduti alla bene meglio su un cordolo, al limitare di un prato buio, dietro allo stand della Spaten. Laß Dir raten, trinke Spaten, sparava la luminosa scritta rossa e noi c’eravamo fatti consigliare almeno due pinte. Tornare all’ostello e buttarsi a russare era tutto quello che restava da fare che all’indomani c’era la visita all’Olympiastadion, possibilmente da sobri.
Eravamo addossati alla parete esterna del vagone, avevo la faccia rivolta fuori, il braccio destro sulle spalle di Valeria che mi chiacchierava e la mano sinistra stretta attorno a un sostegno tubolare orizzontale.
Lei arrivò, sospinta dalla corrente umana e nel ritagliarsi un posticino appoggiò la sua tetta destra sulla mia mano. L'impulso fu quello di tirarla via subito, la mano, ma fu il pensiero di un attimo. Restai invece lì, fintamente attento alle tre o quattro figure solitarie sull’altra banchina in attesa di una carrozza e di una direzione sbagliata. Poi la metro partì, lei non si scostò di un centimetro anzi si assestò, se questo era possibile, con ancora più grazia. Fisso con lo sguardo sul muro che sfilava via fingevo calma, con la coda dell’occhio controllavo Valeria a cui la pinta di Spaten aveva sciolto irrimediabilmente la lingua e con l’altra coda dell’occhio, che nemmeno sapevo di avere, sbirciavo la ragazza, quella della tetta per intendersi. Che sì c’era una ragazza attorno alla tetta, ma tutto ciò che riuscivo a focalizzare in quel momento, con anche le nebbie alcoliche a gravare sulla brillantezza, era l’ammasso mammellare vagamente rotondo e soffice sul dorso della mia mano.
Tetta-su-mano Tetta-su-mano. Era tutto.
Lei era bionda, capelli sul corto, vagamente acciocchettati, forse sudati, e occhi fortemente matitati in nero. Muoveva la testa questo sì, come se un invisibile walkman le stesse suonando in testa Straight to Hell o magari Should I Stay or Should I Go, ma non ce l’aveva il cazzo di walkman. Solo la faccia da Clash, quella sì, ce l’aveva.
Valeria discorreva di un tizio americano di Los Angeles a cui era capitata accanto nello stand e che aveva invitato lei, me e pareva almeno mezza Firenze a casa sua al di là del mondo. Pare che dovessimo andarlo a trovare in estate, che ci avrebbe spalancato le porte di casa sua per tascinarci poi su e giù per Beverly Hills e non so dove altro.
Intanto io ero paralizzato, sangue pensieri e nervi versati come in un imbuto, su quei pochi centimetri quadrati di pelle sul dorso della mia mano. Non muoverti, non muoverla, mi ripetevo e nel frattempo assaporavo tutta la delicata morbidezza di quella misteriosa tetta straniera di misteriosa ragazza straniera dai misteriosissimi occhi stranieri matitati di nero.
Avevo temuto che lei si potesse accorgere e magari anche incazzare con me perché non avevo tolto la mano, ma in cuor mio cullavo l’illusione che l’appoggio non fosse così casuale.
Tetta-su-mano Tetta-su-mano.
Valeria seguitava a blabblare di questo Tommie californiano che ci avrebbe accolto tutti da lui, Tommie che a me faceva venire in mente solo il mito Tommie Smith, sul podio a Città del Messico, viso a terra e pugno guantato in nero rivolto al cielo.
- Ma è negro? – le chiedo.
- No, macché negro – mi fa lei, ma mica l’ascolto.
La California è l’ultimo dei miei pensieri.
Ce l’hanno insegnato sì che il tatto è concentrato sui polpastrelli o comunque sul palmo della mano, sul lato interno, beh, niente di più eretico. Come il cieco che sviluppa una sensitività mille volte superiore alla nostra perché non può vedere io accelero e modifico il mio senso tattile e durante il tempo di una fermata sono in grado di percepire con il dorso della mano, fino a un’ora prima sensibile come un tronchetto di pino, la bellezza divina stessa del creato.
La sento la tetta sulla mano, sono assolutamente fermo e la sento sulla mano e di più nel sangue. Non la altero l’alchimia, non io. Resto in equilibrio con l’essenza del mio desiderio, mi manca il fiato e nel mio immobilismo sento la maglietta di cotone che timida osa frapporsi tra la mia pelle e quel bendiddìo di carne che mi accarezza, mi seduce e mi avvolge con la consistenza delle chiare montate a neve.
Valeria è alle prese coi vestiti da portare non portare in California nel giugno che verrà, farà caldo farà freddo non lo sa, e non lo saprebbe manco se non fosse bevuta.
Ma per me non c’è un giugno, non c’è neppure un domani, c’è solo lei che qualche fermata prima della mia si volta, interrompe il circuito tetta-mano mano-tetta, e s’appresta a scendere.
È lei allora che mi sfiora con la coda dell’occhio. Mi scaglia un lampo matitato nero, mio effimero premio e mia eterna condanna, che mi trafigge cuore e ventre mollandomi per sempre in balia di una pazza logorroica e di un Tommie fottuto qualcosa a quanto pare nemmeno negro.
Mi volto, la guardo scendere e volare via con quello che sembra un mezzo sorriso abbozzato in faccia.
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Il testo partecipa al Toccami - EDS sensuale del tatto lontano da La Donna Camèl
Come anche:
Dario
Bianca
Lillina
Cielo
MaiMaturo
Melusina
Pendolante

17 marzo 2013

Habemus pampa

Eddai, un po' è anche merito mio se il buon Bergoglio è stato eletto papa. Avevo questa battuta pronta da giorni, quella del titolo, e mi ero informato, sì era una scalzata la scelta del cardinale argentino, ma nemmeno tanto, qualcuno il suo nome l'aveva fatto. Insomma una speranza c'era che mi permettesse di twittare la mia cazzata a commento dell'evento.
In enigmistica da papam a pampa ci s'arriva con un anagramma o, più propriamente, con uno spostamento di consonante.
Al di là del gioco di parole quando un papa s'impone il nome che tu hai scelto per un tuo figlio - l'altro sarebbe stato obiettivamente difficile - e che dolcemetà aveva incredibilmente predetto beh, fa piacere. Da credente sull'orlo dell'ateismo e da ateo sull'orlo della fede (cit.)
Il tempo ci aiuterà a capire meglio quest'uomo ma proprio il fatto che si ponga come uomo tra gli uomini mi sembra un bel viatico.
Una bacchettata invece mi va di darla a la Repubblica perché le parole sono importanti, sempre, ma di più se si scrive su un giornale e se lo si fa a proposito di un evento di tale portata.
Nel numero del 14 marzo, il giorno sucessivo alla fumata bianca, a pagina 3 scritto in piccolo si trova il testo sbobinato del primo discorso di Papa Francesco che dice testualmente, nel passo più citato e ripreso: Sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo (il Vescovo di Roma, ndh). Bene, anche se con un lieve accenno di congiuntivite pure per lui.
Peccato che in prima pagina si faccia dire al neopapa: vengo dalla fine del mondo. Che ha un altro senso, cosa si vuole evocare, un'apocalisse? Mah.
E a pagina 2, virgolettato e a caratteri cubitali, cosa fanno dichiarare al buon Bergoglio? Un'altra cosa ancora: Sarò papa Francesco vengo da un altro mondo.
Vengo da un altro mondo? Cioè? È un alieno? O uno zombie?
Son pignolo? Sì, probabilmente sì, ma sintetizzare una dichiarazione per farne un titolo che acchiappa di più e stravolgerne il significato o, come in questo caso, attribuirgliene proprio uno diverso, mi pare sintomo, quantomeno, di sciatteria.
E quanto alle somiglianze come siamo messi? Un Kevin Spacey o più probabilmente un Enzo Garinei? Alla fine, però, si rivelerà un ennesimo ruolo facile per Toni Servillo.

12 marzo 2013

Prima e doping

La coda che si snodava davanti all'unica toilette era disordinata e trasudava impazienza.
Con l'inasprirsi delle leggi sul controllo antidoping il numero dei sorteggiati da sottoporre all'esame era raddoppiato. Nella saletta attigua i non estratti attendevano, chi leggendo, chi chiacchierando e chi pomiciando. Renzo e Lucia, infatti, sempre costretti ad atteggiamenti più che pudichi dal loro copione, si sfogavano nelle pause tra una rappresentazione e l'altra.
Il Comitato di Sicurezza Centrale aveva deciso di intensificare ed estendere i controlli anche ai personaggi letterari in seguito all'increscioso accadimento verificatosi nell'Odissea. Un procio, così dopato che Lance Armstrong al confronto pareva una suora, aveva sconfitto Ulisse nella gara del tiro con l'arco, si era spupazzato Penolope per tre giorni e tre notti, con il telaio di lei aveva tessuto l'intera collezione autunno-inverno di maglioni per Missoni ed era diventato primatista mondiale di salto in lungo e in largo.
Donna Prassede davanti all'usciolino del bagno zompettava nervosa da un piede all'altro, dietro a lei un monatto, il Conte Attilio, un cappone di Azzeccagarbugli, Carneade (che, peraltro, era indagato per reato connesso e quindi poteva avvalersi della facoltà di non pisciare), la Perpetua e, a chiudere la fila, un irriconoscibile Don Rodrigo. Era teso il signorotto, e anche pensieroso: per la prima volta il suo nome veniva sorteggiato per il controllo. Quando don Abbondio uscì dal luogo di raccolta i più vicini si fecero attenti nella necessità di scansare le inevitabili gocce dorate che le mani tremanti dell'anziano parroco finivano per catapultare fuori dal bicchierino.
La notizia bomba fu annunciata dal Tiggì della notte: non v'era dubbio, anche le controanalisi lo confermavano, era stato riscontrato un caso di doping.
I personaggi del Manzoni erano, in quel momento, al bar, gustavano gli ultimi caffè prima di ripartire per il romanzo. Per la verità c'erano Renzo e Lucia in un angolo che limonavano indomiti. Le parole dello speaker furono chiare e tutti cominciarono a guardarsi in cagnesco. Chi poteva avere tradito? Chi? Chi era il meschino che metteva a repentaglio il lavoro di tutti con la sua incoscienza.
L'Innominato fiammeggiò i suoi occhi nella stanza alla ricerca di coloro che avevano gentilmente distribuito la loro pipì in quel pomeriggio. Donna Prassede resse lo sguardo, il monatto si disinteressava della vicenda, Carneade era in preda ad una pazzesca crisi di identità, al cappone s'accappponò la pelle, il Conte Attilio sembrava tranquillo, Don Rodrigo sudava e don Abbondio si stava cagando addosso. Renzo e Lucia avevano intrapreso del petting leggero.
Don Abbondio da tempo aveva chiesto il prepensionamento perché davvero troppo stanco ma, non essendogli ancora arrivato, continuava a svolgere coscienziosamente la sua parte. Ultimamente, però, si faceva aiutare da alcune "bombe" preparate dalla Perpetua, delle quali, però, ignorava i misteriosi ingredienti. Per questo temeva di fare la fine di Eddie Merckx a La Spezia.
La Perpetua era serena; mai avrebbe pensato che una miscela di lievito di birra e zucchero, anche se poi era zucchero di canna, potesse far scattare l'allarme doping per il suo amato reverendo. Il più agitato era Don Rodrigo e ne aveva ben donde. Da qualche tempo assumeva delle polpettine di carnitina e testosterone.
La sua disperazione era profonda e sarebbe ricorso a tutto nella speranza di riuscire finalmente a portarsi a letto Lucia.
L'ufficializzazione del colpevole arrivò pochi minuti dopo e la condanna che seguì fu di una crudeltà esemplare: Don Rodrigo fu squalificato a vita!
Gli astanti ammutolirono, tutti! Quasi tutti, Renzo e Lucia, che nel frattempo erano passati al pesante, non si accorsero poi di granché.
Per quanto riguarda "I Promessi Sposi" le conseguenze furono gravissime e il romanzo, dovendo rinunciare al signorotto e alle sue angherie subì una trasformazione radicale.
A pagina nove i due bravi affrontano comunque don Abbondio, ma non sanno più con esattezza che cazzo dirgli.

"Signor curato", fece un di que' due, piantandogli gli occhi in faccia.
"Cosa comanda" rispose subito don Abbondio.
"Lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!"
"Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende."
"Or bene," gli disse il bravo, all'orecchio, con tono solenne di comando "ci dica un po' dove hanno messo
la lista di nozze!"

Così, senza altri ostacoli, i due promessi sono presto uniti in matrimonio e, per quanto li riguarda, cominciano a toccarsi molto prima del solito e il romanzo si chiude con largo anticipo.
Oggi anche il titolo si è evoluto da "I Promessi Sposi" a "Gli Sposi", consta di ben venticinque pagine ("una per ognuno dei miei lettori" direbbe il Manzoni) e si vende nella collezione Harmony con la prefazione di Fabio Volo.

8 marzo 2013

Cooper ma mica Gary

Il lato positivo è che in questo film ci sono sprazzi di Rocky, di Buffalo '66, di Qualcuno Volò sul nido del cuculo, sprazzi di Flashdance e di Ti presento i miei.
Un'accozzaglia sì, ma di roba tendenzialmente buona, che quindi alla fine traghetta verso una soddisfacente resa.
Certo levatevi dalla testa la sfilata di fuorvianti statuette a memoria delle candidature agli Oscar 2013 e le critiche esaltanti leggibili sulla locandina della pellicola o sui giornali alla pagina dei film. Di Oscar ne ha vinto uno e sul merito, mah, posso dissentire? Dissento. Lei è brava, per carità, ma la prova non è di quelle che possono lasciare il segno. E se Meryl Streep fosse morta si rivolterebbe nella tomba. ¡Qué viva Meryl!
Liberatevi dall'aura entusiasta che avvolge la pellicola, andate a vederla come se non ne sapeste niente di niente, ma di niente!, e vi piacerà. Non rimpiangerete un centesimo bucato degli 8 eurini spesi (uno per ogni candidatura agli Academy Awards).
L'elevata aspettativa, invece, fatalmente porterà una sorta di delusione.
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Da qui si spoilera, ma non troppo, fate voi.
Certo è che se ci andate a vederlo succederà che vorrete somigliare a Bradley Cooper o, peggio, vorrete che il vostro lui somigli a Bradley Cooper, vorrete incontrare la giovane troia vedova di Tommy o, peggio, vorrete essere la giovane troia vedova di Tommy, vorrete un vitino di vespa per la vostra lei o, peggio, un taglio sul naso per il vostro lui, vorrete ordinare cereali per cena o, peggio, installare una sbarra nel vostro salotto e, probabilmente, vorrete che Ernest cazzone Hemingway venga a porgervi personalmente le sue scuse.
Vorrete essere bipolari o tripolari, vorrete fare a pugni con De Niro. Vorrete in soldoni essere Bradley Cooper o, in alternativa, Jennifer Lawrence.
E se avete l'età giusta per aver vissuto anche Rocky ripenserete a dov'è finita quella strafica di felpa grigia.
Non è un capolavoro, ce ne corre, ma il film può tranquillamente trovare una collocazione tra le pellicole antidepressive, lì nella videoteca, di fianco a Pretty Woman, Notting Hill e Love Actually.
Succederà così che dolcemetà vorrà vederlo con cadenza minima semestrale.
E questo è il lato negativo.

P.s. Il post si sarebbe dovuto intitolare "Se sarei gay 2" e la foto potrebbe spiegare il perché.

7 marzo 2013

Manco a farlo a Posta

L’impiegata della posta non si può guardare, tant’è brutta. E già per questo si meriterebbe di morire. Secca come un uscio, infilata in un maglione nero a collo alto, sfoggia capelli spioventi di un rosso innaturale, tagliati a casaccio. Ha un migliaio di piercing per orecchio e un’orrenda campanella d’acciaio proprio al centro del labbro inferiore. Infine si ritrova un naso adunco, di per sé neppure orribile ma, nel contesto della sua faccia da topo, decisamente fuori luogo.
Se la prende comoda. Io devo inviare una raccomandata in ditta, sono in malattia da tre mesi appena, che non mi rompessero i coglioni. Sono il terzo della fila e dopo non ho da fare un cazzo, vero, però fuori tira un vento siberiano e non vedo l’ora di tornare a casa e piantare le tende sul divano per dedicarmi a un dvd scaricato due sere fa: un pornazzo di rispetto con una dozzina di casalinghe disperate ma non troppo. Oltretutto minaccia neve, e io sono in bici.
Sta a una tipa straniera, accento dell’est, chissà mai rumena. Ha consegnato un pacco giallo da mandare chissà dove a chissà chi, ma la fottuta impiegata della posta non gliela rende agevole.
-      Signora, mi deve descrivere il contenuto. Diceva, vestiti?
-      Sì, quello lì ho messo a interno. Pantalone e maglietta e gonne – sgrammaticava così, ma si capiva, diosanto!
Dietro di me, non arriva più nessuno. Ogni tanto l'impiegata dal piercing facile occhieggia di là dal bancone per controllare la fila. Di certo il tre non è un numero che la manda nei pazzi, altrimenti chiamerebbe uno straccio di collega per aiutarla con quelli dietro alla rumena spedisco-abiti-a-tutti-i-miei-parenti-creati. E non intende darsi una mossa.
-      E il valore? Serve anche il valore del pacco.
-      Tutto ho pagato come 180 euro – fa la rumena.
-      Sì, 180, bene, il valore totale. Però mi serve diviso per articolo… abbia pazienza.
Cazzo! Diviso per articolo. Non la vedo la faccia della ragazza dell’est povera bella donna innamorata d'amore e della vita, non la vedo, ma posso immaginarmela.
Cala il silenzio, il vecchio tra me e lei nella fila è tranquillo, aspetta il suo turno, o magari una nevicata coi fiocchi. Anch’io, a vedermi da fuori, son tranquillo.
L’impiegata, buttando ancora una volta l’occhio sulla fila, incrocia il mio sguardo. Qui le do un'ultima chance, nel senso che la guardo duro come a dire “sbrigati, non vedi che siamo qui da un'eternità?”, per tutta risposta lei alza il mento, sdegnosa, come a dire “tanto io devo farci l’una qui”. Resto cristallizzato nella coda, e la cosa diventa una questione di principio.
La rumena è ancora impegnata con un’improbabile spartizione dei suoi bei 180 euro, quando l'impiegata, strano a dirsi, le lancia una ciambella di salvataggio.
-                    Mettiamo 60, 60 e 60? - le fa con un finto sorriso, strizzando in su gli zigomi.
-                    Sì, ecco, penso io va bene.
Ingenuamente ritengo che ci siamo, ma la manfrina è tutt'altro che agli sgoccioli.
-                    Dia qua, ci son da fare le fotocopie.
Se ne va sul retro con i moduli e sparisce in un buco spazio-tempo dal quale riaffiora una vita dopo.
Tornando mi guarda come a dire “la fotocopiatrice si è fatta la fase di riscaldamento e poi si è pure inceppata”, io la guardo come a dire “troia!”
La rumena, che il diavolo se la inculi, ha spedito il rinnovo guardaroba in capo al mondo. Sospiro di sollievo.
Tocca al vecchio prima di me, ha una busta rigonfia, siamo sotto Natale, sarà un regalo per una figlia sperduta nel mondo, magari una sciarpina di cashmere, tenero.
Il lavoro è semplice, l'impiegata prende la busta e controlla l'indirizzo al computer. Ma c'è qualcosa che non le sfagiola. Pigliare la busta e mandarla dov’è destinata sembra contro la legge. Controlla ancora. Patetica.
-         Guardi, è via del Carretto, forse, non via del Cerreto. Non risulta nessuna via del Cerreto.
-         Ah, bene, può darsi, allora correggo, grazie.
Il vecchio riprende la bustona, cancella, poi si fa dare un pennarello, cancella ancora e poi, con i suoi comodi, mentre l'impiegata lo guarda ammirata, si degna di vergare “Carretto”.
Ha finito, ma non si schioda da lì. Mette a posto il resto, poi rinfila in tasca il portafoglio. Indossa pure i guanti, sempre impalato davanti allo sportello impedendo, di fatto, che io mi possa avvicinare per dire alla stronza cosa mi serve. Sbircia di là dal bancone la sua bella busta gialla, sta lì, cazzo, nessuno te la piglia.
Aspetto, non fiato, studio la logistica dell'ufficio, l'entrata e la via di fuga. Tra breve saremo soli, io e la mia impiegata del cuore con tutti i suoi piercing e con il suo bel nasone a pinna di squalo.
Non ricordo bene come ma, alla fine, il vecchio riesce a traslocare le sue chiappe in un altro universo. Non ci ho fatto nemmeno caso, sono ormai proiettato sul dopo, ne sento già l’odore.
-      Avanti! Tocca a lei.
Faccio i due passi da “aspettate qui il vostro turno” fino al bancone e le passo la raccomandata con il modulo già compilato. Lei la prende e la pesa. Poi la solleva e la pesa di nuovo.
-      Due euro e venti.
Appoggio i soldi là dove si deve, lei appiccica la targhetta adesiva sulla raccomandata e poi, senza nemmeno guardare, allunga la mano per prendere le monete e io gliela afferro. Allora alza di scatto la testa e strabuzza gli occhi, proprio non capisce, eppure dovrebbe. La sua incredulità le impedisce di fare l’unica cosa che potrebbe cavarla fuori dai guai: gridare.
Afferrata la sua mano, la tiro verso di me, salto sul bancone e le abbranco i capelli dietro la nuca.
-      Cosa… cosa… – solo questo dice.
Le sbatto la testa sulla taglierina azzurra, più volte, finché mi va. Poi, finalmente, dall’altra parte dell’ufficio qualcuno si accorge dell’inconveniente che sta capitando alla collega. La lascio lì, mentre il sangue comincia a colare da sotto il suo viso, faccio appena in tempo a tirare via la mia lettera prima che si sporchi, la butto nella cestina “raccomandate” ed esco all’esterno. Respiro.
Mi lascio alle spalle, adesso sì, urla di vario ordine e grado e pedalo via, veloce, verso casa.

5 marzo 2013

Il battesimo del Franchi (*)


Che l'irrazionale deriva cavano-partenopea di France andasse arginata non c'erano dubbi e, visto che le figu non erano sufficienti a recuperarlo al culto della viola, siamo andati allo stadio, per la sua prima volta. Il Chievo era la squadra giusta, tranquilla, da battere facile, una simpatica compagine equipaggiata con una straordinaria maglia gialla e venuta nella culla del Rinascimento, probabilmente in gita, in una splendida e calda giornata invernale di sole.
La terza maglietta posseduta dal ragazzo, dopo la storica 30 di Toni e la 11 del Gila, è la 8 di Jovetic, e quella si metterà sopra un sei sette altre maglie/golf/pile che la premurosa dolcemetà aveva imposto come condicio sine qua non.
'zzo JoJo, non dico che avresti potuto segnare una tripletta, come sarebbe stato giusto per mandare alla storia il battesimo del Franchi, ma almeno un golletto su rigore, un mezzo assist, una rabona, una partita dignitosa... e invece nulla, una prestazione da dimenticare impreziosita da una sostituzione per scarso rendimento.
Vabbè.
E il simpatico Chievo ce l'ha messa tutta per rovinarci la festa, intanto presentandosi con un'insulsa maglia bianca a righine nere, se ho visto bene, e poi impegnandosi alla morte, non finendo mai di correre ed affettando con facilità la difesa viola in più occasioni.
Alla fine l'abbiamo dovuta rubacchiare con un gol viziato da fuorigioco e segnato da Larrondo, mezzo centravanti e mezzo gerundio ma, soprattutto, uno sconosciuto per France e ancora colpevolmente al Siena nell'album calciatori.
Vabbè.
Però è andata dài, la pratica è archiviata e nell'attesa che il Napoli venda Cavani al Colo-Colo allontanandolo dalla vista, dalle cronache e dal cuore di France, vedremo di mettere in cantiere un dignitoso bis.

E per la serie vecchi tempi, lo ricordo il mio battesimo al Comunale (ché Franchi ancora era vivo): fu un Fiorentina Inter 0 a 0, abbastanza insulso se si esclude una parata di Bordon su un tiro al sette a salvare il risultato. Devo ringraziare anch'io qualcuno per avermici portato allo stadio, è Marcello, cugino di mio babbo, che se aspettavo i miei... era il 26 dicembre 1971 (dice san Gugol).

(*) Che questa storia che lo stadio Franchi è pure a Siena mica va bene. O i senesi ce lo lasciano e intitolano il loro stadio magari al Panforte, ai Ricciarelli o ad Aceto, oppure, se proprio lo vogliono tenere a Siena il nome di Franchi, cambiamo noi, dedichiamolo a Julinho, a Montuori, a Bruno Beatrice, a Gratton, a Galdiolo o magari, chessò, può andare bene pure il Conte Mascetti.
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