29 gennaio 2016

Se telefonando...

Lo sapete che non è obbligatorio rispondere al telefono, vero? Altrimenti ve lo dico io.
No perché sembra che uno, in qualsiasi buco di mondo si trovi, a qualunque ora e in ogni disparata attività sia impegnato, al trillo/vibro del suo apparecchio portabile debba in ogni caso rispondere.
Non è così, credetemi!
Potete rifiutare la chiamata e potete anche decidere di ascoltare per intero quella meravigliosa canzone che avete scelto come suoneria dopo ore e ore di prove.
Ma non ne faccio un discorso di educazione, cioè non solo e non qui, quella ce la siamo giocata da mo'.
È evidente però che chi dialogando con qualcuno a telefono non è in grado di fare altro non dovrebbe dar vita a umilianti tentativi di multioperatività.
C'è quello al bancomat che capace lascia lì i soldi alla fine o, più probabile, debba reinfilare la carta un centinaio di volte perché sbaglia a pigiare i tasti. C'è quello a mensa i cui neuroni impegnati nella smartoconversazione non gli consentono di scegliere tra il budino finto cacao e quello finto crema. C'è quello che a far benzina gira sei sette pompe, sempre col telefono all'orecchio, perché non gliene funziona una e chissà dove sta infilando i suoi soldi o che pin stia digitando.
C'è quello alla cassa del supermercato che s'incaglia tra mettere sul nastro, pagare e imbustare solo perché con il cellulare all'orecchio si muove alla velocità di un bradipo in coma.
Cioè, mettete giù, richiamate dopo... non credo che tutti stiate parlando e allungando la vita al povero Massimo Lopez davanti al plotone d'esecuzione (lo dico per i più attempati).
Non vi scappa nulla se ci parlate dopo cinque minuti, chiunque sia il vostro interlocutore.
Non ve lo sto manco a dire, ma tutti gli esempi sono tratti dalla vita vera e hanno come protagonisti individui di sesso maschile.
Una donna, MENTRE TELEFONA, è in grado di stirare una camicia da pittore, tenere d'occhio il sugo per non farlo attaccare, risentire i sette re di Roma al figlioletto che ripete storia e seguire in tivù le evoluzioni di Mitch e Cam in Modern Family.

27 gennaio 2016

Se questo è un cretino


Io per la giornata della memoria devo chiedere scusa.
Chiedo scusa perché 25 anni fa, durante una vacanza itinerante in Germania, passando da Buchenwald a visitare i luoghi della memoria, cosa ho pensato di fare nella mia troglodita ignoranza?
Ho pensato di staccare un pezzetto di filo spinato da quello che restava della recinzione.
Mi son pentito subito, quasi subito, ma comunque tardi: avevo già imboscato la reliquia nello zaino.
Qualche anno dopo, a casa, me ne sono liberato nella speranza di sentirmi un po' meno colpevole, ma non è servito.
Adesso e qui faccio un altro passo alla ricerca di una comprensione, anche da me stesso, che probabilmente non merito. La sensazione è quella di aver profanato un luogo sacro.
Vogliamo portare via tutto? Far sparire ogni traccia e ogni prova degli orrori? Certo che no, è proprio il contrario: vogliamo ricordare.
E il mio gesto non aiuta, è il gesto di un cretino, è irrispettoso.
Ed è per questo che chiedo scusa.


Intorno, tutto ci è nemico. Sopra di noi, si rincorrono le nuvole maligne, per separarci dal sole; da ogni parte ci stringe lo squallore del ferro in travaglio. I suoi confini non li abbiamo mai visti, ma sentiamo, tutto intorno, la presenza cattiva del filo spinato che ci segrega dal mondo.
(Primo Levi - Se questo è un uomo)

26 gennaio 2016

Non ci vuole un genio

Non ci vuole un genio per regolare un semaforo a senso unico alternato.
Eppure ultimamente, quelli in cui m'imbatto, sembrano impostati dall'imbecille degli imbecilli.
Non è che mi voglio mettere io a pontificare di cose matematiche che poco ne so, però due conti due si possono fare.
Dato x il tempo del verde di una direzione di marcia e y il tempo del verde della direzione opposta, e ammesso che siano uguali, per chiudere il ciclo temporale serve l'elemento z e cioè il tempo in cui entrambi i semafori sono rossi ed è necessario affinché le vetture che transitano per ultime al verde arrivino dall'altra parte.
Per fare un conto semplice, ipotizzando
x = 25"
y = 25"
z = 10"
Si ha, ogni minuto, un tempo morto in cui tutti stanno fermi di 10 secondi. Che in un'ora sono 600, cioè 10 minuti, cioè 1/6 del tempo totale.
Ora z è un tempo tecnico, che varia a seconda della situazione e della lunghezza del tratto stradale a senso unico alternato quindi, una volta stabilito, non può variare. Ma x e y ovviamente sì.
Basta allungare il tempo di x e y per vedere dissolversi al vento ogni tipo di coda sulla strada.
Portiamo x e y, per esempio, a 55" e con lo stesso tempo morto di 10 secondi - ma questa volta in un ciclo di 2 minuti - sarà solo 1/12 del tempo totale quello in cui tutte le vetture stanno ferme.
Fatevelo da soli il calcolo di quante auto in più al giorno potrebbero transitare da quell'imbuto.
E non sto nemmeno a introdurre un ragionamento su tempi differenziati tra x e y a seconda dell'orario della giornata.
Ah, comunque io passo in motorino.

19 gennaio 2016

Dal mito all'Astoria

Le frasi che non albergano in nessun libro.




I have a trim
Il sogno di avere sempre le unghie curate

Acne, tu uccidi un uomo morto
Accenni di dislessia nell'adolescente Francesco Ferrucci

Datemi un'allieva e vi solleverò il mondo
Archimede dice basta alle classi di soli maschi

Siate affamati, siate frolli
Steve Jobs cerca di capire di che pasta siete fatti

Cogito ergo Sim
Cartesio s’interroga se basti pensare per aver diritto a un cellulare

Festina lenta
L'imperatore Augusto si lamenta perché il baccanale proprio non decolla

La religione è l'oppio dei propoli
Marx istiga all'ateismo un intero alveare

Signore rendimi Castro, ma non ora
Sant'Agostino prega per essere Fidel a Dio

Il mio regno per un avallo
Riccardo III alla disperata ricerca di approvazione

Hey fu
Nel finale alternativo di Happy Days Fonzie muore

11 gennaio 2016

Del diario vissuto di Giovanna (13)



Trascorre il maggio, non è più bello come una volta, quest'anno non fa che piovere.
E così non si è potuto godere una giornata di sole, in mezzo ad un campo o ad una viottola, che sarebbe stato tanto bello farmi abbracciare da te e baciare senza smettere mai.
Neno amore mio, quante volte ti ho chiamato così! E quanto ti chiamerò quando mi stringi forte con le tue braccia e mi baci e mi dici " Gianna come abbiamo fatto a incontrarci per volerci tanto bene, così ogni volta impazzo per te, Gianna anima mia tu mi ai ridato la vita e lo debbo a te".
Io ti ascolto e poi ti dico, è stato proprio Lui a farci incontrare (Lui chi?) il destino che infino a oggi ci a voluto bene.

19 giugno 1954
Una sera un po' malinconica ci si mise a parlare così, di cose, ed entrammo a parlare di questo e mi disse:
"Gianna guardami bene negl'occhi e dimmi la verità come in fino a oggi spero che tu mi abbia detto. Tu non sei stata con nessuno uomo prima di incontrare me?"
Quante volte mi aveva detto questa frase ma dicendogli la verità gli risposi così:
"Neno tu sei stato il primo uomo e sarai anche l'ultimo. Perché l'uomo che amo, che ò amato e che amerò sei solo te, e te sempre sarai."
E così è svanito oggi il più bel sogno d'Amore, il dono che avrei dovuto portare alla notte del nostro matrimonio, svanito oggi 19 giugno.
Neno ti amo e tu mi devi comprendere e credere alle mie parole sempre, perché sono state sempre sincere.
Ora, mentre sto scrivendo questa riga piango, e le mie lacrime si confondono con le mie parole e non posso seguitare ma quando tu rileggerai queste pagine mi comprenderai, e vedrai in me la verità perché ti amo tanto tanto e che non ti potrò mai mentire mai.
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- Quaderno del diario vissuto di Giovanna
- Anema e Core
- Dove si va signorine?
- Qui vedi dove dormo e ti sogno
- Se un giorno mi avverasse
- Mi bacia sulla bocca e baci e baci 
- Quando non c'è la partita di calcio manca tutto 
- Perché l'amore sarà al centro di tutto
- Qui intrecciammo la lilla 
- Montaccino si chiamava il posto dove tu stavi
- E allora forse ci parrà di sognare ancora
- Il nome non te lo scrivo intanto tu lo sai di già
- È stato un giorno di sposa, di moglie e di massaia

5 gennaio 2016

Bacino passa tutto


Non ricordo di avere mai giocato con le bambole, io. Mi sono sempre trovata meglio con i ragazzi, per i boschi, a caccia di lucertole, a pescare al lago dei pioppi o in giro in bici. Lei è un maschiaccio, diceva mia madre alle sue amiche, ai nostri parenti, al prete. Ancora non fermava gli sconosciuti per strada ma c’eravamo vicini.
D’altra parte, abitavamo in un gruppetto di case a un paio di chilometri dal paese più prossimo ed era fortemente consigliato adattarsi a giocare con chi c’era. Mentre difettavano le bambine della mia età, di maschietti tre o quattro ce n’erano e con loro stavo.
Ci sono andata a scuola, ci ho giocato, con loro ho intrecciato le prime storie di baci e d’amore e ci sono pure finita in galera con un paio. Alla fine ne ho sposato uno, pure se rimango un maschiaccio.
Stavo spesso con Walterone e il Pazzo, gli opposti di una calamita. Alto e grosso Walterone, basso e segaligno il Pazzo. Buono come una pizza margherita doppia mozzarella Walterone e perfido e incontrollabile come un cane sciolto il Pazzo. Walterone è stato il mio primo fidanzato, il Pazzo si è preso la mia verginità. Walterone pendeva dalle mie labbra e mi seguiva in ogni azione che fosse una genialata o una stronzata superlativa. Il Pazzo andava dove lo portava la sua testa bacata. Suo padre l’aveva messo sotto con il trattore che aveva cinque o sei anni arandogli letteralmente la testa e questa era la causa ufficiale della sua follia, anche se controprove non ce n’erano. Paolo era il nome dimenticato da tutti, troppo più comodo il Pazzo.

Rientro oggi dalle ferie, tre settimane in Sardegna. Fatemi ancorare un ombrellone in una giornata di libeccio, adesso, ma non mettetemi un bisturi in mano, questo vorrei. Non chiedo tanto, ma non è possibile.
- Dottoressa, ce ne sono solo tre oggi.
- (Solo?)
- Bardini Adelina, letto 15, tumore all’intestino. Lastrucci Camilla, la bimba del 19 con l’appendicite. E Maggi Luigi, quell’anziano del 22, quello col barbone, tumore allo stomaco.
- Bene, almeno la mattinata è variegata. Maggi Luigi… Maggi Luigi…

 Il Pazzo girava con un coltello in manico d’osso, la lama gli sbucava di tre centimetri buoni dal palmo della mano.
- Guarda che roba, mi arriva dritto al cuore, Walterone fammi vedere.
E Walterone stendeva la mano per la settecentomilionesima volta.
- Anche a te Walterone, t’ammazza anche a te.
Era un coltellaccio richiudibile, il manico mezzo rovinato da un lato e tendente al verde, una lama scura e inquietante, pure per un maschiaccio come me.
- Ma perché hai quel coltello? – gli avevo chiesto la prima volta che lo sfoggiò.
- E’ di mio nonno.
- Appunto.
- Appunto cosa?
- Appunto dico, se è di tuo nonno, perché ce l’hai te?
- Ce lo volevi avere te?
- No, che c’entra, ma perché non ce l’ha tuo nonno?
- Mio nonno è rimbambito, non sa più nemmeno come si chiama, è meglio se lo tengo io.

Il Pazzo venne fuori una sera con questa storia che avremmo dovuto rapinare il Maggi e il suo negozio di ferramenta. Mi sembrò subito un’idea strampalata anche se ci avrebbero fatto comodo qualche centomila lire, dato che avevamo iniziato tutti e tre a fumare senza pausa e lo spicciolame che ci pioveva in tasca dal lato famiglia non copriva il vizio. Tutt’al più le mentine dalla Licia in piazza, giusto quelle ci potevamo permettere.
- Ma se ci servono le sigarette, rapiniamo il tabacchino.
- No.
- Perché? E’ più semplice, prendiamo direttamente le cicche, risparmiamo un passaggio.
In realtà la signora che stava al tabacchi, una vecchia baldracca ossigenata, smalto rosso e scortecciato alle unghie con ombretto celeste di serie, mi sembrava più abbordabile del Maggi.
Mi ricordo che un giorno eravamo appostati al ponticino sopra il fiume, con una carabina ad aria compressa sparavamo alle anatre nell’acqua. Quando passò il Maggi con una busta della Coop in una mano. Il Pazzo ci informò che voleva sparargli a una mano, ma da trenta centimetri. - Pronti a telare ragazzi, quando passa di qui gli sparo alla mano. Gliel’avrebbe spappolata pensai, forse l’avrebbe ucciso chissà. Gli sparò e lo colpì in pieno. Quello non fece mezza piega, continuò per la sua via con la sportina e la soddisfazione d’incazzarsi non ce la diede. Un duro, mi era sembrato, una specie di Terence Hill lo chiamavano Trinità, ma più cattivo.
Ora, andare a rapinare proprio lui somigliava a un suicidio.
- No, è meglio il Maggi, ha sempre il negozio pieno, si va di sera ci si trova un sacco di soldi.
- Ci sto – dissi, che non credesse che avessi paura.
Walterone mi guarda e si convince anche lui.
- Va bene – fa, annuendo da par suo.

Passo dal 22. Il vecchio col barbone è proprio il Maggi Luigi. Alla ferramenta non ci sta più, forse ci sono i figli, forse l’ha venduta, non so.
- Come va Maggi? – chiedo.
- Come la vuole che vada? Bene no davvero. Quando si viene in questi posti…
- Ma vedrà che la si rimette a nuovo! Lasci fare a noi…
La barba è lunga, quasi incolta, la cicatrice non si vede. Forse proprio un centimetro o due, confusa in una ruga delle tante.

Dopo abbiamo attraversato la notte in una corsa forsennata nel tentativo di sfuggire ai carabinieri. Sirene, torce e pattuglie che nemmeno in Barbagia per Grazianeddu. Il piano che avevamo stabilito era saltato subito, quando al Pazzo gli s’erano velati gli occhi, appena fuori dal negozio di ferramenta. Io avevo ritagliato una terna di maschere col cartone rigato, mi ero messa d’impegno, mi ero ispirata ai totem dei pellerossa, le avevo persino colorate a tempera, ma il Pazzo partì per una strada diversa. - Niente maschere, forza, si va così.
Il Maggi lo presero lui e Walterone che stava tirando giù il bandone, lo riportarono dentro e io dietro. Poi gli eventi precipitarono prima che potessimo dire ba. Walterone reggeva il Maggi tenendogli le braccia dietro la schiena e il Pazzo lo minacciava puntandogli al viso il coltellaccio del nonno. D’improvviso mi ritrovai a cercare con lo sguardo la mano del Maggi, quella che non l’aveva scalfita nemmeno un proiettile della carabina. Volevo capire se la lama scura del coltello di nonno poteva raggiungere il cuore del Maggi, in tutta sincerità pregavo Gesù di no, ma non mi riuscì a sbirciarla in quel tramestio. Il Pazzo salì con un balzo sul bancone, acchiappò il Maggi per i capelli con una mano e con l’altra gli piantò la lama nella guancia, tirando poi verso la bocca e aprendogli uno squarcio enorme e rosso vivo. Il sangue gli sgorgò intenso giù lungo il collo e s’inzuppò nella camicia celeste sudata da tranviere, solo questo vidi, non certo i soldi, prima di darmela a gambe.
Corsi via veloce finché avevo fiato. Sentii dietro una bocca slabbrata urlare qualcosa di molto simile ad aiuto, poi corsi ancora e quando mi fermai, piegata sulle ginocchia, mi accorsi che i miei due compari erano lì a poche decine di metri da me. Dieci minuti più tardi sentimmo le prime sirene, oramai eravamo ai margini del bosco e ci lasciammo inghiottire come in un incubo.
Nel mezzo della notte e del bosco, e alla fine del nostro fiato, arrivammo alla Casa del Monte, una bicocca in mattoni rossi disabitata, ma nella quale sapevamo per certo esserci dei letti. Entrammo e ci fiondammo a volo libero sui materassi spogli.

Alla fine la mattinata è scivolata via rapida che nemmeno a Stintino con un giornale e le zampette a mollo. C’è da ricucire il Maggi che non era nemmeno messo male come si pensava. Un’altra striscia di annetti dovrebbe sbobinarsela.

Mi svegliai con gli occhi del Pazzo, quelli appannati e acquosi, piantati in faccia e il suo sibilo sul collo.
- Adesso è meglio che me la fai vedere. Però stai zitta, non svegliamo Walterone.
Piuttosto che dargliela mi sarei fatta volentieri aprire da orecchio a orecchio, ma non avevo scelta ed ero troppo stanca anche per oppormi. Chiusi soltanto gli occhi. Forse piansi, ma forse no. Là sotto ormai mi sentivo la bocca squarciata del Maggi che gridava aiuto.
Ci trovarono lì i carabinieri, qualche ora dopo, perduti nel sonno e tutti un po’ più grandi. Era l’alba che ci avrebbe cambiato per sempre. Cercàtela, ce n’è una nella vita di ognuno di noi.

- Dottoressa, se vuole andare, finiamo noi.
- No, grazie, no, tanto mio marito non è a casa. Sto qua io.
Intanto mando un messaggio a Walter, faccio tardi, scrivo.
Piano, si sta risvegliando il paziente del 22, sento il suo respiro che acquista l’irregolarità tipica della coscienza. L’infermiera mi chiede se lo conosco, annuisco, però non ho più voglia di parlare. Poi restiamo soli, io e il Maggi, mi avvicino al suo viso, da qui la vedo la cicatrice, un segno un filo più vivo salire su dalla guancia.
Non so cosa mi piglia, ho solo voglia di farlo e lo faccio: appoggio le mie labbra sulla sua guancia. Bacino passa tutto, penso.
Colgo un appena percettibile movimento della sua mano, gliela prendo e la stringo.
Magari resto ancora un po’.
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