Siamo impazziti e dopo un'infausta esperienza di una settimana con un micino malato (Tony, povero Tony) ci siamo buttati in quest'avventura dissennata accogliendo in casa non uno ma due mici.
In realtà due micie, due adorabili sorelline pelose e coccolose. Sono Penny la nera e Lizzy la tigrata grigia. Penny viene da Penelope, perché ci piaceva Ulisse come gatto maschio ed era l'alternativa femminile più caldeggiata, inoltre ci ricorda la simpatica biondina di The Big Bang Theory, alla cui porta bussa, spesso con insistenza, il buon Sheldon:
Penny (toc toc toc) Penny (toc toc toc) Penny (toc toc toc).
Un grazie a Pesa che mi ha fatto conoscere la serie, nei commenti qui.
Quanto a Lizzy, il nome è il risultato di una fase in cui cercavamo spunti tra le scrittrici a noi care ed avevamo in ponte Zadie (la Smith) e tutti i derivati di Elizabeth (la Strout), l'ha spuntata quest'ultima perché in questo momento ci troviamo per le mani I ragazzi Burgess.
Le abbiamo adottate tramite un gattile che si prende cura dei mici abbandonati nel nostro comune e, udite udite, sono state trovate in una scatola all'autogrill, praticamente a due passi da casa nostra. Era destino.
Abbiamo indugiato in questi anni anche perché il problema pareva essere l'allarme, il volumetrico nella stanza dove hanno le loro cose. Però sembra che fino a 30 kg il sistema non si attivi quindi, fino a che le micie non copriranno un volume assimilabile ai 30 kg, magari muovendosi all'unisono tipo un corpo e un'anima o mangiando all'inverosimile, non si dovrebbero manifestare controindicazioni.
In ogni caso, appena comincia a suonare l'allarme la notte riportarle all'autogrill è un attimo.
L'imprevisto stava comunque dietro l'angolo: senza manifestazioni in passato sembra che dolcemetà possa patire un'allergia ai felini, i sintomi ci sono tutti e sono in corso accertamenti medici e paramedici.
Certo che riscontrare l'incompatibilità tra le micie e dolcemetà porterebbe un bel casino, perché doverci rinunciare adesso che mi ci sono affezionato sarebbe di una crudeltà assoluta.
Dopo quasi 10 anni di matrimonio, intendo.
30 ottobre 2013
23 ottobre 2013
Il lonfo
Il lonfo è come la minestra di pane(*): ritorna sempre(**).
Nel mondo s'alternano i corsi e i ricorsi storici di Vico e nella vita mia i corsi e ricorsi lessicali del lonfo.
Vuoi una parola, o il refolo ribelle d'un ricordo antico, la voglia di giocare o chissà cosa, capita che ti torna a mente. E quando succede puoi pensare solo a quanto sia affascinante il fluire inarrestabile di quei suoni apparentemente casuali e invece precisi e cotti a puntino nella rigida griglia dei versi, che stanno lì dove devono stare, come soldatini allineati sul plastico di una battaglia.
E sempre mi vien voglia di provare.
(*) ribollita
(**) per quanta ne mangi, nel coccio in frigo, pare che non si consumi mai, che ritorni, appunto.
Il Lonfo
Il Lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce
sdilenca un poco e gnagio s'archipatta.
E' frusco il Lonfo! E' pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.
Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa lègica busìa, fa gisbuto;
e quasi quasi in segno di sberdazzi
gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto
t' alloppa, ti sbernecchia; e tu l'accazzi.
(Fosco Maraini - Gnòsi delle Fànfole)
_________________________________________________
Il blogghe'
Il blogghe' non s'affuria né rampugna
e se gli alliga il cucchio par s'affranny
pendola roba mischia arrisa o grugna
com'abbadasse sbruffi e barbagianni.
Scammella, s'ammatura oppur s'ammuta
lillando non t'alluca o si sbullona
s'appastanudo l'elmo in capa orsuta
men occhio e più recchia s'introna.
Eppure il vecchio blogghe' ora staffrutta
sgratta lo coio s'abbastiana un ponfo
prima c'arrivi un rospo che lo sputta
prìa che s'attesta solidario in tonfo
ora che s'addisagia e infin s'abbutta
zillafrasando (sempre meno) il lonfo.
Nel mondo s'alternano i corsi e i ricorsi storici di Vico e nella vita mia i corsi e ricorsi lessicali del lonfo.
Vuoi una parola, o il refolo ribelle d'un ricordo antico, la voglia di giocare o chissà cosa, capita che ti torna a mente. E quando succede puoi pensare solo a quanto sia affascinante il fluire inarrestabile di quei suoni apparentemente casuali e invece precisi e cotti a puntino nella rigida griglia dei versi, che stanno lì dove devono stare, come soldatini allineati sul plastico di una battaglia.
E sempre mi vien voglia di provare.
(*) ribollita
(**) per quanta ne mangi, nel coccio in frigo, pare che non si consumi mai, che ritorni, appunto.
Il Lonfo
Il Lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce
sdilenca un poco e gnagio s'archipatta.
E' frusco il Lonfo! E' pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.
Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa lègica busìa, fa gisbuto;
e quasi quasi in segno di sberdazzi
gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto
t' alloppa, ti sbernecchia; e tu l'accazzi.
(Fosco Maraini - Gnòsi delle Fànfole)
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Il blogghe'
Il blogghe' non s'affuria né rampugna
e se gli alliga il cucchio par s'affranny
pendola roba mischia arrisa o grugna
com'abbadasse sbruffi e barbagianni.
Scammella, s'ammatura oppur s'ammuta
lillando non t'alluca o si sbullona
s'appastanudo l'elmo in capa orsuta
men occhio e più recchia s'introna.
Eppure il vecchio blogghe' ora staffrutta
sgratta lo coio s'abbastiana un ponfo
prima c'arrivi un rospo che lo sputta
prìa che s'attesta solidario in tonfo
ora che s'addisagia e infin s'abbutta
zillafrasando (sempre meno) il lonfo.
20 ottobre 2013
Fiorentina Juventus 4 a 2
Non è un post sportivo, nonnò, non ce l'ho le capacità per scrivere con competenza di calcio io che mi rifiuto ancora di capire la differenza tra un 4-3-3 e un 3-5-2 io che sono rimasto al libero e allo stopper, alla mezzala e al centrattacco e, nel mio massimo stadio evolutivo, al centromediano metodista e al terzino fluidificante.
Ma un post tifoso, quello sì, lo posso anche buttare giù, prima che cominci ad ammorbarvi con dei post sui gatti (perché lo farò!).
Perché per noi di Firenze, questa è LA partita, purtroppo, non potendo trovare spesso palcoscenici ed occasioni più nobili.
Perché noi viola ci ricordiamo esattamente dove eravamo quando segnò Luca Cecconi a Torino: io calavo il Muraglione in moto con gli amici.
Ci ricordiamo quando Platini sigillò un memorabile 3 a 3 a Firenze: ero in maratona con il mio più grande amico, lo juventino Leo.
Ci ricordiamo dove eravamo quando la chiuse Fuser: sempre allo stadio, il giorno della memorabile coreografia in foto, il giorno in cui Baggio si rifiutò di calciare un rigore e raccolse una sciarpa viola uscendo dal campo.
E ci ricordiamo di quando Batistuta al Comunale firmò l'1 a 0: a casa Frilli, che a quei tempi era l'unico che pagava per il calcio e generosamente condivideva il salotto.
E ci ricordiamo dove eravamo quando Gobbi, Papa Waigo e Osvaldo ci regalarono l'ultima vittoria in trasferta a Torino: io in chiesa, alla Cresima di mio nipote, magari avrò pregato, chissà.
Oggi abbiamo vinto con la Juve, rimontando ben 2 gol e addirittura distanziandoli di 2, segnandone 4 in 15 minuti, con il nostro giocatore più pagato in tribuna. Insomma, tutto quello che avremmo potuto sognare s'è avverato, perfezionando una domenica da incorniciare.
P.s. per gli juventini: il nostro rigore era generoso, se c'era, e nessun arbitro ce l'avrebbe concesso sullo 0 a 0, ma è andata così, non vogliamo mica metterci a fare della dietrologia (anche recente) sugli episodi da moviola? Non credo.
17 ottobre 2013
Dell’alimento PCD (*)
Ci son robe che ne mangerei una bigoncia.
Avete presente una bigoncia, sì? Quella specie di tronco di cono dogato in cui si cacciano i grappoli d’uva sforbiciati alla vendemmia, questa in foto, per intendersi.
Ecco, ci sono dei cibi che non mi danno mai l’impressione di sazietà e mi lasciano sempre con la voglia. Non si tratta di cibi particolarmente buoni, beh sì, forse un po' sì, ma ce ne sono altri di cui sono più goloso. È che questi, i cibi da bigoncia, ogni volta che mi ci trovo alle prese, sento che potrei mangiarne fino a scoppiare.
Tipo i brigidini, non riesco a fermarmi coi brigidini, mi devo violentare per chiudere il sacchetto e metterli via.
O i double whopper con formaggio.
Le noccioline salate.
O i panini de I Fratellini.
Il parmigiano, il parmigiano son convinto di poterne ingurgitare una forma.
I Lindor.
Ovviamente le patate fritte, ma più di tutti i fiori di zucca fritti in pastella.
(*) PCD ® - Può Causare Dipendenza.
Avete presente una bigoncia, sì? Quella specie di tronco di cono dogato in cui si cacciano i grappoli d’uva sforbiciati alla vendemmia, questa in foto, per intendersi.
Ecco, ci sono dei cibi che non mi danno mai l’impressione di sazietà e mi lasciano sempre con la voglia. Non si tratta di cibi particolarmente buoni, beh sì, forse un po' sì, ma ce ne sono altri di cui sono più goloso. È che questi, i cibi da bigoncia, ogni volta che mi ci trovo alle prese, sento che potrei mangiarne fino a scoppiare.
Tipo i brigidini, non riesco a fermarmi coi brigidini, mi devo violentare per chiudere il sacchetto e metterli via.
Le noccioline salate.
O i panini de I Fratellini.
Il parmigiano, il parmigiano son convinto di poterne ingurgitare una forma.
I Lindor.
Ovviamente le patate fritte, ma più di tutti i fiori di zucca fritti in pastella.
(*) PCD ® - Può Causare Dipendenza.
13 ottobre 2013
Davvero non lo so
Me ne sto qui, in piedi sulla porta del garage.
Ho tirato giù mezzo armadio di vestiti a bracciate, li ho scaraventati dentro la valigia e poi l'ho chiusa sedendomici sopra, come ai vecchi tempi, quando ancora viaggiavamo insieme nel mondo, oltreché nella vita.
Davvero non lo so se c'è rimasto qualcosa di quell'esistenza, della nostra storia e del nostro amore, che io mi possa portare dietro pigiato nel bagaglio. Non lo so se questa casa o l'universo si aspettano ancora dei fiati respirati da noi due. Non lo so se dovrei andare o restare, davvero non lo so.
Di certo tutti i miei non lo so sono maturati nel travaglio emozionale, nella passione, nel forte divenire di una crescita sperata e nei passi decisi di un cammino e sono zuppi di sangue e di umori, non certo dell'acqua di rose in cui si pasce lui.
Lui che sta lì, quasi disattento, come se non stessimo affrontando una questione anche sua. Sta lì, come sta al cine, spettatore vacuo di una trama altrui e desideroso solo di distendere un po' le gambe.
«Se mi vuoi, se mi vuoi ancora, fermami adesso. Fermaci adesso» gli dico con la mano sul pancino, ma senza ricercare il tragico, giusto per fargli capire, perché mi sa che ancora non ha capito bene.
Perdo roba? Sei tu la roba che perdo, vorrei dirgli, mentre m'imbatto incerta in una notte cupa.
Il lampione stasera è spento, e neanche lui riesce a darmi un sollievo, magari spolverando di un chiarore amico il blu denso come melassa che è murato fuori da casa.
I passi conficcati in quel blu hanno un sapore sgradevole: è come leccare del ferro e non riesco a farmelo piacere.
Quando mi chiama è una posa, è solo la consegna del soldatino della sua coscienza: assolve un compito e della faccenda se ne lava le mani, ma in una pozzanghera, secondo me.
Forse non dovrei, non lo so, ma va a finire che gli do una chance.
Mi fermo e lo aspetto, e scopro che riesco a versare altre forse inutili, ma forse anche ultime, lacrime.
Non ho vergogna di mostrarmi debole e indecisa con lui, io che da sempre sono la donna senza dubbi, per tutti, quella forte che si porta un po' di roba sulle spalle e l'altra, in segreto, nel cuore chiusa a chiave.
Non ci credo che voglia che io resti e glielo dico, ma aspetto ancora un po'.
Socchiudo gli occhi nella quanto mai insensata ricerca di una luce. Aspetto un abbraccio, da dietro, aspetto il suo alito sul collo, aspetto il suo corpo che s'incolla al mio. Aspetto il suo odore, aspetto un passo verso di me e verso di noi. E aspetto le sue mani, che afferrino le mie, che mi trascinino in un vortice fatale, come quando da bambini ci teniamo stretti, agganciati con le braccia a ics, e giriamo, giriamo veloce, sempre di più, coi piedi a pesticciare in un centro solo nostro e i corpi piegati all'indietro e imploranti un volo.
Prendimi, stringimi le mani, fammi girare più forte che puoi e fammi volare via, solo di questo ho bisogno in fondo: di volare via. Con te o senza di te.
E aspetto una parola, anche solo una, ma sussurrata in un orecchio, una parola che fruscia tra i capelli e mi possa trafiggere ancora.
Sussurrami, non urlare, ti prego.
____________________________________________________________
Questo racconto partecipa all'EDS Il blues dei blu come pure:
Dario con Diavoli blu
Singlemama con NY Blues.
MaiMaturo con Colori
Singlemama con La linea blu
Lillina con Il blu dell'universo che non c'è
Lillina con Morte nel blu
Pendolante con Il trattore
Call me Leuconoe con Crossroad
Marco C. con Le ore scure (grigio, rosso e blu)
I won't let you down
Calikanto con Onde
Cielosopramilano, altrimenti detto Fevarin e carnazza, con Fever
Melusina con Neon
Bianca con Diritto e rovescio
Melusina con Sostiene Teresa
Brux con So long
Ho tirato giù mezzo armadio di vestiti a bracciate, li ho scaraventati dentro la valigia e poi l'ho chiusa sedendomici sopra, come ai vecchi tempi, quando ancora viaggiavamo insieme nel mondo, oltreché nella vita.
Davvero non lo so se c'è rimasto qualcosa di quell'esistenza, della nostra storia e del nostro amore, che io mi possa portare dietro pigiato nel bagaglio. Non lo so se questa casa o l'universo si aspettano ancora dei fiati respirati da noi due. Non lo so se dovrei andare o restare, davvero non lo so.
Di certo tutti i miei non lo so sono maturati nel travaglio emozionale, nella passione, nel forte divenire di una crescita sperata e nei passi decisi di un cammino e sono zuppi di sangue e di umori, non certo dell'acqua di rose in cui si pasce lui.
Lui che sta lì, quasi disattento, come se non stessimo affrontando una questione anche sua. Sta lì, come sta al cine, spettatore vacuo di una trama altrui e desideroso solo di distendere un po' le gambe.
«Se mi vuoi, se mi vuoi ancora, fermami adesso. Fermaci adesso» gli dico con la mano sul pancino, ma senza ricercare il tragico, giusto per fargli capire, perché mi sa che ancora non ha capito bene.
Perdo roba? Sei tu la roba che perdo, vorrei dirgli, mentre m'imbatto incerta in una notte cupa.
Il lampione stasera è spento, e neanche lui riesce a darmi un sollievo, magari spolverando di un chiarore amico il blu denso come melassa che è murato fuori da casa.
I passi conficcati in quel blu hanno un sapore sgradevole: è come leccare del ferro e non riesco a farmelo piacere.
Quando mi chiama è una posa, è solo la consegna del soldatino della sua coscienza: assolve un compito e della faccenda se ne lava le mani, ma in una pozzanghera, secondo me.
Forse non dovrei, non lo so, ma va a finire che gli do una chance.
Mi fermo e lo aspetto, e scopro che riesco a versare altre forse inutili, ma forse anche ultime, lacrime.
Non ho vergogna di mostrarmi debole e indecisa con lui, io che da sempre sono la donna senza dubbi, per tutti, quella forte che si porta un po' di roba sulle spalle e l'altra, in segreto, nel cuore chiusa a chiave.
Non ci credo che voglia che io resti e glielo dico, ma aspetto ancora un po'.
Socchiudo gli occhi nella quanto mai insensata ricerca di una luce. Aspetto un abbraccio, da dietro, aspetto il suo alito sul collo, aspetto il suo corpo che s'incolla al mio. Aspetto il suo odore, aspetto un passo verso di me e verso di noi. E aspetto le sue mani, che afferrino le mie, che mi trascinino in un vortice fatale, come quando da bambini ci teniamo stretti, agganciati con le braccia a ics, e giriamo, giriamo veloce, sempre di più, coi piedi a pesticciare in un centro solo nostro e i corpi piegati all'indietro e imploranti un volo.
Prendimi, stringimi le mani, fammi girare più forte che puoi e fammi volare via, solo di questo ho bisogno in fondo: di volare via. Con te o senza di te.
E aspetto una parola, anche solo una, ma sussurrata in un orecchio, una parola che fruscia tra i capelli e mi possa trafiggere ancora.
Sussurrami, non urlare, ti prego.
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Questo racconto partecipa all'EDS Il blues dei blu come pure:
Dario con Diavoli blu
Singlemama con NY Blues.
MaiMaturo con Colori
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Lillina con Il blu dell'universo che non c'è
Lillina con Morte nel blu
Pendolante con Il trattore
Call me Leuconoe con Crossroad
Marco C. con Le ore scure (grigio, rosso e blu)
I won't let you down
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Cielosopramilano, altrimenti detto Fevarin e carnazza, con Fever
Melusina con Neon
Bianca con Diritto e rovescio
Melusina con Sostiene Teresa
Brux con So long
7 ottobre 2013
I won't let you down
Lei se ne sta lì, in piedi sulla porta del garage, accanto alla valigia delle vacanze e dei momenti belli, quella con le nostre iniziali rosse adesive, quella coi nostri numeri di telefono; è incurvata verso la valigia stessa, entrambe le mani sulla maniglia. Pronta a partire.
La valigia ha le ruotine, ma lei non ha intenzione di usarle. Deve condire la sofferenza psicologica con quella fisica di sollevamento e trasporto valigia. Farei lo stesso anch’io.
La valigia è una bella valigia rigida, di quelle toste che tornando dall’America te la possono sbatacchiare di qua e di là per tutta la nastratura dell’aeroporto senza riuscire a ferirla. A guardarla, la valigia, si vede che è preparata in fretta: da dietro ciondola un lembo di stoffa blu.
Lei mi dice qualcosa che sta a significare che o la fermo, lì e subito, oppure toglie il disturbo e non rivedo più né lei e né – dio l’accecasse - quel figlio che si porta in pancia da quattro mesi. Pure mio, fino a prova contraria.
La guardo tacendo, con una faccia che appaia seria e pensosa perché a me nelle situazioni tragiche capita che mi scappi da ridere, e davvero non è il caso.
Rischio di non decidere. O di decidere tardi, che poi è la stessa cosa.
«Perdi roba» le dico, indicando lo svolazzo di stoffa blu chiuso mezzo fuori dalla valigia. Non che voglia fare dello spirito, cerco solo di prendere tempo.
Lei fa una smorfia, come se le capitasse in bocca lo spicchio stopposo e dal sapore vagamente rancido di un mandarino. Solleva la valigia e muove qualche faticoso passo in direzione infinito. Il lembo blu sventola lieve, quasi salutandomi, mentre mi chiedo che cavolo sia, se un pezzo di camicia o cosa. E non mi ricordo niente indosso a lei con quella tonalità di blu.
E poi la chiamo.
«Ma dove vai? Vieni qua, fermati!».
Ma non va mica bene.
«Tanto lo dici per dire, lo so…» adesso piange, e si è fermata tre passi fuori dal garage. Io non riesco a muovermi verso di lei, né verso il richiamo del tessuto che m’incuriosisce.
«Lo dici per dire…»
E forse è vero che lo dico per dire. Forse vorrei soltanto poterla accompagnare in qualunque buco di mondo voglia andare portandole la valigia senza che il gesto venga interpretato come liberatorio, forse vorrei soltanto poterla salutare con due bacini sulle guance. Forse vorrei soltanto aprire la cavolo di valigia e sparpagliarne il contenuto a terra fino a smascherare il resto di quella benedetta stoffa blu. Un blu acceso, magari di raso, forse il vestito da festa di un tristo Capodanno.
D’accordo l’ho detto proprio per dire, che si fermi, però l’ho detto, ma lei riprende a camminare, sghemba e dolente, con le due mani serrate su quel bagaglio che è la vita.
«Non lo dico per dire» le fo, quando, all’improvviso, mi ritorna in mente. Stava in cucina, ed era come se danzasse, in una sottoveste di raso blu, tra un caffelatte e un pane tostato, con una canzone in sottofondo alla radio ed io che arrivavo da lei, scalzo e sorridente, vomitato dalla notte.
«Non lo dico per dire» urlo.
__________________________________________________
Questo racconto partecipa all'EDS "Il blues dei blu" come pure
Dario con Diavoli blu
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Marco C. con Le ore scure (grigio, rosso e blu)
La valigia ha le ruotine, ma lei non ha intenzione di usarle. Deve condire la sofferenza psicologica con quella fisica di sollevamento e trasporto valigia. Farei lo stesso anch’io.
La valigia è una bella valigia rigida, di quelle toste che tornando dall’America te la possono sbatacchiare di qua e di là per tutta la nastratura dell’aeroporto senza riuscire a ferirla. A guardarla, la valigia, si vede che è preparata in fretta: da dietro ciondola un lembo di stoffa blu.
Lei mi dice qualcosa che sta a significare che o la fermo, lì e subito, oppure toglie il disturbo e non rivedo più né lei e né – dio l’accecasse - quel figlio che si porta in pancia da quattro mesi. Pure mio, fino a prova contraria.
La guardo tacendo, con una faccia che appaia seria e pensosa perché a me nelle situazioni tragiche capita che mi scappi da ridere, e davvero non è il caso.
Rischio di non decidere. O di decidere tardi, che poi è la stessa cosa.
«Perdi roba» le dico, indicando lo svolazzo di stoffa blu chiuso mezzo fuori dalla valigia. Non che voglia fare dello spirito, cerco solo di prendere tempo.
Lei fa una smorfia, come se le capitasse in bocca lo spicchio stopposo e dal sapore vagamente rancido di un mandarino. Solleva la valigia e muove qualche faticoso passo in direzione infinito. Il lembo blu sventola lieve, quasi salutandomi, mentre mi chiedo che cavolo sia, se un pezzo di camicia o cosa. E non mi ricordo niente indosso a lei con quella tonalità di blu.
E poi la chiamo.
«Ma dove vai? Vieni qua, fermati!».
Ma non va mica bene.
«Tanto lo dici per dire, lo so…» adesso piange, e si è fermata tre passi fuori dal garage. Io non riesco a muovermi verso di lei, né verso il richiamo del tessuto che m’incuriosisce.
«Lo dici per dire…»
E forse è vero che lo dico per dire. Forse vorrei soltanto poterla accompagnare in qualunque buco di mondo voglia andare portandole la valigia senza che il gesto venga interpretato come liberatorio, forse vorrei soltanto poterla salutare con due bacini sulle guance. Forse vorrei soltanto aprire la cavolo di valigia e sparpagliarne il contenuto a terra fino a smascherare il resto di quella benedetta stoffa blu. Un blu acceso, magari di raso, forse il vestito da festa di un tristo Capodanno.
D’accordo l’ho detto proprio per dire, che si fermi, però l’ho detto, ma lei riprende a camminare, sghemba e dolente, con le due mani serrate su quel bagaglio che è la vita.
«Non lo dico per dire» le fo, quando, all’improvviso, mi ritorna in mente. Stava in cucina, ed era come se danzasse, in una sottoveste di raso blu, tra un caffelatte e un pane tostato, con una canzone in sottofondo alla radio ed io che arrivavo da lei, scalzo e sorridente, vomitato dalla notte.
«Non lo dico per dire» urlo.
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MaiMaturo con Colori
Singlemama con La linea blu
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Pendolante con Il trattore
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4 ottobre 2013
Boccuccia mia statti zitta
Non so se parafrasare Provolino aggreghi d'ufficio questo testo alla monnezza anni '70 poi revisionata e assurta a classico o sia più semplicemente il segno dell'inarrestabile declino della vena.
Mi rivolgo a voi, pedoni senza scacchiera, che quotidianamente affrontate indomiti passaggi pedonali a decine: c'è modo e modo di approcciarsi alle zebre.
Evitate di buttarvi dentro a capofitto in preda al raptus e senza nessun tipo di precauzione: penetrare nel traffico non è la fottuta simulazione di un atto sessuale, nessuno penserà che siete impotenti se aspettate di cogliere un minimo segnale di rallentamento da parte dei veicoli in arrivo prima di impegnare la carreggiata.
E se giunge un motociclista... attenzione doppia, perché il centauro ha più di una freccia al suo arco decisionale.
Cominciamo col dire che la frenata su un mezzo a due ruote è più pericolosa da tirare rispetto a quella su un quattro ruote e se il pedone si butta a pesce - magari è un aitante giovane che spera così d'impressionare la compagna di passeggiata del momento - l'automobilista frena, ma il motociclista valuta.
E sceglie non solo per sé, ma anche per l'incolumità del pedone. Quindi può frenare se la distanza dalle strisce e la velocità gli permetteranno di farlo in sicurezza o, in alternativa, si allargherà passando sull'altro lato della strada rispetto a chi attraversa, non rischiando comunque d'investire nessuno né di lanciargli addosso un mezzo sdraiato e senza controllo.
E quando il motociclista sceglie di passare ugualmente, senza dare la precedenza al pedone, deve far capire che sa di commettere una sorta d'infrazione al codice, lo sa, ma deve farlo, a fin di bene: per la sicurezza di tutti è meglio se non frena e sfila via dalla parte di corsia libera.
E, pedone caro, il motociclista educato te lo fa capire con una boccuccia che lo sa, e si scusa.
Guardalo, o pedone, puntalo in faccia quando ti passa accanto il motociclista educato, e noterai quel leggero stirar di labbra ed increspar di gote che dice tutto sulla sua specifica conoscenza delle norme stradali e su quanto gli dispiaccia agire in contrasto ad esse, seppur costretto dalla valutazione del rischio.
E così fa boccuccia, chiede scusa e va.
Mi rivolgo a voi, pedoni senza scacchiera, che quotidianamente affrontate indomiti passaggi pedonali a decine: c'è modo e modo di approcciarsi alle zebre.
Evitate di buttarvi dentro a capofitto in preda al raptus e senza nessun tipo di precauzione: penetrare nel traffico non è la fottuta simulazione di un atto sessuale, nessuno penserà che siete impotenti se aspettate di cogliere un minimo segnale di rallentamento da parte dei veicoli in arrivo prima di impegnare la carreggiata.
E se giunge un motociclista... attenzione doppia, perché il centauro ha più di una freccia al suo arco decisionale.
Cominciamo col dire che la frenata su un mezzo a due ruote è più pericolosa da tirare rispetto a quella su un quattro ruote e se il pedone si butta a pesce - magari è un aitante giovane che spera così d'impressionare la compagna di passeggiata del momento - l'automobilista frena, ma il motociclista valuta.
E sceglie non solo per sé, ma anche per l'incolumità del pedone. Quindi può frenare se la distanza dalle strisce e la velocità gli permetteranno di farlo in sicurezza o, in alternativa, si allargherà passando sull'altro lato della strada rispetto a chi attraversa, non rischiando comunque d'investire nessuno né di lanciargli addosso un mezzo sdraiato e senza controllo.
E quando il motociclista sceglie di passare ugualmente, senza dare la precedenza al pedone, deve far capire che sa di commettere una sorta d'infrazione al codice, lo sa, ma deve farlo, a fin di bene: per la sicurezza di tutti è meglio se non frena e sfila via dalla parte di corsia libera.
E, pedone caro, il motociclista educato te lo fa capire con una boccuccia che lo sa, e si scusa.
Guardalo, o pedone, puntalo in faccia quando ti passa accanto il motociclista educato, e noterai quel leggero stirar di labbra ed increspar di gote che dice tutto sulla sua specifica conoscenza delle norme stradali e su quanto gli dispiaccia agire in contrasto ad esse, seppur costretto dalla valutazione del rischio.
E così fa boccuccia, chiede scusa e va.
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