27 novembre 2017

Una cosa in cui sono bravo ma che non mi serve a nulla

Sarà capitato anche a voi di pensare quanto siete bravi a fare questo, a capire quello o a disimpegnarvi in quell'altro.
Nel mio caso c'è un'abilità che ho sviluppato quando da ragazzo saltavo in lungo, o forse l'avevo innata, non lo so. Si tratta della capacità di capire esattamente con che piede arrivo in un determinato punto.
Fate conto, cammino per strada e venti metri avanti a me c'è una pozzanghera, io so immediatamente e con estrema precisione quale sarà il mio piede che ci batterà davanti, se il destro o il sinistro.
Lo sento dentro - capite? -, c'è un momento preciso, camminando, che mi scatta questa cosa e realizzo (appunto intorno ai 20 metri, se è più lontano non funziona). E tutto senza accorciare o allungare in modo fraudolento la falcata.
Questo vale con una riga sul marciapiede, un oggetto, una crepa o qualsiasi riconoscibile segno posso andare a incrociare sul mio cammino: io riesco a capire quale mio piede si stamperà proprio lì davanti, come fosse la fettuccia ideale del salto in lungo.
Vedo tutti i grandi saltatori in atletica punteggiare i loro percorsi di rincorsa con dei segnalini da dove partire o da dove passare, a me non servirebbero.
Però come dicevo non è un'abilità che ci campi, nemmeno ti danno due spicci se ti metti a farlo in Piazza Signoria, ecco.
Ma nel mio intimo sono campione mondiale di sai dove ti batte il piede.

16 novembre 2017

Amici di pin

Una volta c'erano gli amici di pen, poi ci siamo involuti come nostro solito.
La mamma di Paola, la prima volta che vide la figlia ritirare soldi da un bancomat commentò così:
- Mah... vai a dirglielo a quelli del mondo di prima che da un muro esce i' sordi!
Perché quello fa un bancomat, ti dà i soldi. Fine.
Ma poi le cose son migliorate, nella nota ottica che il meglio è nemico del bene, e il bancomat ti offre - immagino e presumo - tutta una serie di succosi servizi accessori.
Fatto sta, c'era 'sto tizio ad armeggiare e io mi metto in coda, un po' di lato per non invadere la sua privacy, ma in una posizione visibile.
Mi ha visto arrivare, ma continua tranquillo, e ci mancherebbe, il bancomat è suo, c'è arrivato prima di me.
Pigia sui tasti che nemmeno Benedetti Michelangeli, fino a che gli esce una strisciata di carta lunga un paio di cento metri, probabilmente fedele diario di tutti i movimenti della vita dell'uomo, non lui in particolare, proprio l'uomo in generale.
Poi l'infernale prodigio gli sputa la tessera ma esso, l'uomo in particolare, non pago, la rinfila immantinente.
È li che comincia pure a parlarci con il macchinario, gli borbotta qualcosa che non capisco bene se sia una preghiera, un insulto o semplicemente un "Metti Insigne".
Poi pigia e guarda, quindi si leva gli occhiali si spiaccica sul monitor e osserva con un'espressione vagamente meravigliata il chissà cosa gli vien mostrato.
Smanetta per altri tre minuti buoni e parla e si confida e probabilmente piange sulla spalla del suo fidato amico di pin.
Poi se ne va - l'era l'ora! - ma tutto questo senza prelevare un dannato euro.
Ma si può passare la vita davanti a un bancomat? Pure la mamma di Paola, che non ne aveva mai visto uno, aveva capito da subito a cosa servisse rivolgersi a quella zona miracolosa di muro.
La solitudine è una brutta bestia - immagino e presumo - ma cristiodiddio pigliati magari un cane, fatti un amico immaginario, sarà sempre meglio di star lì a parlare con il bancomat.

30 ottobre 2017

E ridevo tutte le risa del mondo

- Tutùn - faceva la ruota del triciclo tutte le volte che prendevo la buchetta. E potete scommetterci che la prendevo a ogni giro attorno alla tavola, tanto ero diventato chirurgico.
Un ovale in perfetto stile Indy: davanti alla tivù, davanti all'acquaio, davanti alla cucina economica e - Tutùn  - davanti al focolare a completare il giro.
Non correre tu ti fai male, la mamma. E io acceleravo.
Non pigliare la buca con le ruote, il nonno. E io - Tutùn  - a ogni passaggio.
E ridevo tutte le risa del mondo, della mia genuina e infinita felicità. Non sarebbe più stato così, ma non lo sapevo di certo.
Tutùn  -, e il nonno dal canto del fuoco, con le sue lunghe braccia, si sporgeva cercando di acchiapparmi.
Allora sì che pedalavo via veloce: testa incurvata dentro alle spalle, sfrecciavo lontano, cullato dalle mie stesse risa e sospinto da quelle mani che non potevano prendermi mai.
Era un nonno di quelli di una volta, il nonno Gigi: tanti biscotti (*) sulle orecchie, poche parole e nessun moto esplicito d'affetto.

Era il tempo degli esami di terza media quando, un pomeriggio di giugno, mio padre mi prelevò da casa per portarmi a Careggi a vedere il nonno che ci stava lasciando, così disse.
Ma quello non era più il mio nonno: era un essere rinseccolito che succhiava l'aria da una grata e fissava il soffitto con uno sguardo acquoso e perduto.
E non lo salutai, niente, nemmeno mezza parola, solamente una carezza abbozzata, con la mia mano rinchiusa e guidata da quella di mio padre. E mi dispiace soprattutto per lui, per mio padre, che magari due parole in croce si aspettava che le inchiodassi, ecco.
- Tanto lo so, nonno, poi l'ho capito che facevi apposta a non pigliarmi, che ti credi?

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(*) tosc. Colpetto che si dà sul viso a qualcuno (o sulle orecchie, n.d.h.), per atto di scherzo o in segno di affettuosa confidenza, facendo scattare sul pollice l’indice o il medio (Treccani)

23 agosto 2017

Giulietta senza Romeo


Lei aveva gli occhi di una cerbiatta, ma davvero mica per dire.
Noi avevamo quindici anni ed eravamo tutti innamorati di lei, della Giulia, che se ti capitava di toccarle il culo dai jeans per le scale si arrabbiava sì ma anche un po' per finta, quasi per ruolo.
Aveva quella fruit a V rosa fucsia e noi che le tiravamo le matite dicendo me la prendi mi è caduta. E lei che si sporgeva dal banco senza farsi pregare e si piegava generosamente verso di noi regalandoci una sbirciata su un reggiseno di pizzo nero. E non l'avevamo mai visto un reggiseno indossato, di pizzo poi.
A fine anno suo padre - un impiegato di non so che banca che dio, o chi per lui, l'abbia in gloria - fu trasferito a Verona. Non a Campi Bisenzio, cristo, a Verona!
E lei, la Giulia, l'ultimo giorno di scuola ci portò delle sue foto, quasi fossero le cartoline già autografate con cui andavano in giro i vip nell'era del preselfie.
Io mi misi timidamente in coda e riuscii ad accaparrarmene una che Giulia accompagnò con un sorrisone, no che non sembrava così dispiaciuta di partire.
Erano foto dai formati più strani, forse ritagliate da altre più grandi, forse stampate artigianalmente. La mia era pure un po' sfocata, a dirla tutta.
Caro il babbo della mia Giulia, comunque grazie, che ti sei trasferito a Verona, magari per due palanche di più, e non c'è stato più verso di ritrovarla la tua benedetta figliola dagli occhi da cerbiatta, manco sul faccialibro manco.

31 luglio 2017

Stoner (4.0 carver)


Ovvero, il tutto con niente.
Segue spoiler, ma nemmeno troppo.
William Stoner nasce povero e contadino, poi studia e diventa professore universitario di lettere. Si sposa. Si raccontano i suoi problemi a lavoro e la sua infelicità familiare. Poi una parentesi d'amore e infine la morte.
Tutto questo è esposto bello chiaro nelle prime due pagine del romanzo. Niente di più semplice come canovaccio. Niente alieni, niente morti ammazzati, niente trucchetti da quattro soldi, niente inestricabili misteri.
La storia pare già finita, eppure John E. Williams (trad. Stefano Tummolini) la sviluppa ugualmente e, con una maestria mai ostentata, raggiunge la purezza dell'essenzialità.
Tra le vette narrative del libro segnalo una descrizione della (propria) morte fuori dall'ordinario.
Ed ecco un consiglio per tutti gli imbrattacarte del pianeta, aggettivatori incalliti e prosaici prosatori:
Mentre il mondo cade a pezzi
Mi allontano dagli eccessi e dalle cattive abitudini
Tornerò all'origine
Torno a te, che sei per me l’essenziale.
Marco Mengoni dixit, e si riferiva alla scrittura, secondo me.

p.s. Citare Mengoni, l'avresti mai detto?

27 luglio 2017

Francesi siete addietro


Addietro come la martinicca, direbbe i' mi' nonno.
Ho lasciato le vostre autostrade - la A8 Mentone / Aix en Provence, nello specifico - 30 anni fa, ma le ritrovo nello stesso identico stato: pietoso. Ma mica l'asfalto.
Possibile che in tutto questo tempo, nei 30 anni che hanno più inciso sul progresso tecnologico del mondo, siate rimasti ad un sistema di riscossione tributi che ricorda gli antichi dazi?
Possibile che se faccio 100 km di autostrada devo trovare 4 o 5 barriere da superare, quando pagando, quando pigliando il ticket, quando pagando senza ticket, quando non si sa bene cosa.
Cos'è, dobbiamo pagare il pedaggio autostradale direttamente ad ogni contea che attraversiamo?
Non siete in grado di fare un borsone unico e di spartirvi il malloppo la sera?
Ve la faccio io la proporzione, se serve.
Ma un ministro dei trasporti francese, o chi per lui, non sarà mai andato in vacanza a Gallipoli? Entri a Ventimiglia (ticket) esci a Taranto (fine autostrada, pedaggio): un casello ti devi sciroppare. Non ci vuole uno scienziato.
E gli abitanti della zona, cosa sono, votati al sacrificio?
Oltretutto quei caselli, agglomerati di cemento e metallaccio, fanno pure un po' schifo a vedersi.
Francesi, sveglia! Siamo nel terzo millennio ma voi siete rimasti in modalità Moyen-Age.

25 luglio 2017

Thanatos? Ma vattene affanculo!

(Morte e Vita - Gustav Klimt - 1915)
A me questa cosa che alla lunga bisogna morire un po' m'infastidisce, son sincero.
Ho un sacco di cose in sospeso, che non me ne fo una ragione.

Ho ancora strade da correre
e bocche da baciare
ho parole da dire
e schiaffi da dare
ho cani da pisciare
e donne da dimagrare
ho negozi da aprire
e robe da comprare
foto da scattare
e semi da piantare
ho caffè da pagare
e regali da scartare
ho libri da divorare
e partite da registrare
ho colline da pedalare
e pile da cambiare
ho mari da tuffare
e figli da scompigliare
ho sassi da tirare
e frasi da ricordare
ho tasti da pigiare
e siepi da potare
e poi c'ho anche
da mettere in ordine il ripostiglio.

21 giugno 2017

Piccolo spazio pubblicità



L'agenda di Comix è arrivata, anche quest'anno, puntuale come un treno di Mussolini, ricca come J.R. e bellissima come la Venere del Botticelli.
La Linea è presente e, come da tradizione, risponderà agli interrogativi più interrogativosi.
Facciamo che io ve l'ho detto.

7 giugno 2017

Scordatevi il sesso in questa storia


Lui ha una moglie, dei figli e amici che se ne vanno via dopo una cena. Porta fuori il cane. Tutte le sere fa lo stesso giro e passa davanti alla casa con giardino di lei.
Lei è lì che si fuma una sigaretta o che rinvasa la terra di un geranio rovesciato dal vento. In casa mariti e figli forse dormienti o chissà mai sepolti in un divano.
E si vedono, lui e lei, e si salutano perché sono gli unici due coglioni fuori a quell'ora.
È freddo, è caldo, c'è la partita in tivù, o Sanremo, ci son state le elezioni o un attentato al Papa, loro sono lì.
Si salutano. Non si parlano quasi mai.
Lui va di fretta e lei in cuor suo prega perché non si fermi.
Lei non si cura, dopotutto sono dieci anni di sigarette prima di andare a letto, dieci anni in cui non ha visto un'anima costeggiare la recinzione. Prima che comparisse lui, il signore col cane da pisciare.
Lei indossa una tuta sformata sopra a un reggiseno che non c'è, capelli tirati indietro in una coda fatta di fretta prima di cucinare.
Forse è già tutto scritto.
Il momento in cui lei si lascerà indosso i vestiti dell'ufficio, il momento in cui si passerà un filo di matita nera e quello in cui si scioglierà i capelli.
Poi sarà lui a chiederle una di quelle sigarette fuori moda o magari lei ad uscire fuori, nella stradella, solo per accarezzare il cane.

26 maggio 2017

Nel nome il presagio


Una volta ci si faceva fichi impastandosi la bocca con la versione latina della frase, ma adesso che la sa anche il cane...
- Bau, Bau!
- Zitta Juno.
...conviene quasi quasi proferirla in volgare. Che poi certi genitori ti appioppano dei nomi che hai voglia a impegnarti una vita, non ce la puoi fare a garantire una coerenza tra l'appellativo e il tuo modo di essere.
Tipo ti battezzano Salvatore, tanto per dirne uno, sai che palle!
Ma che ti devi salvare in un mondo così. Il Salvatore Salvatore intanto c'è già stato, te che ti puoi mettere a fare?
Se poi cominci a sentir gravare sulle tue spalle il peso del nome può diventare un casino anche solo tirare avanti.
Poi però scopri che c'è davvero un Salvatore che ti salva il culo la capra ed insino i cavoli, una, dieci, cento e mille volte. E allora devi solo toglierti il cappello e ringraziare.
Chiaramente sto parlando de Il Salvatore: Aranzulla, per la precisione.
Cioè questo cristo qui (per rimanere in tema) dovrebbe essere una ONLUS, dovremmo tutti noi potergli donare almeno almeno il cinque per mille.
Che ve lo dico a fare, aprendo il suo sito dovrebbe campeggiare un bel banner con su scritto:

Il 29 aprile le autorità turche hanno bloccato l'accesso a tutte le versioni linguistiche di Aranzulla, ledendo il diritto di milioni di persone di accedere a informazioni di tipo informatico che ti salvano il culo anche e più delle fascette da elettricista. La comunità salvata una, dieci, cento e mille volte da Salvatore esprime la sua solidarietà alla popolazione turca e chiede il ripristino del libero accesso all'Aranzulla.it.
Firma l'appello degli Aranzulliani e diffondi la notizia in Rete.

15 maggio 2017

La mia deriva bio

A parte che quando andavo a scuola io non c'erano manco i Sumeri, secondo me, di sicuro però non c'era l'impronta ecologica.
Infatti come ci dice wiki, è un concetto che nasce nel 1996 (Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on the Earth - Mathis Wackernagel;  William Rees) e quindi faccio una gran fatica a memorizzarlo, quando mi capita di rinquartarlo tra i compiti di France.
In soldoni (ma qui c'è tutto spiegato a garbo) l'impronta ecologica misura l'area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria a rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana (o da uno Stato, una regione, un individuo) e ad assorbire i rifiuti prodotti. Si misura in ettari di superficie.
Per abbatterla ci sono mille modi, ma ne riporterò qualcuno dei più semplici, cosicché possiate applicarvi e dare il vostro contributo al pianeta.
Vi propongo qui un articolo - di parte, per carità! - giusto per un'infarinata su come ognuno di noi potrebbe, in maniera del tutto autonoma e agevole, impattare positivamente su 'sta benedetta impronta, riducendola.
Ne riporto anche alcuni passi per chi non ha voglia di leggerselo tutto:

  • Il 70% dell’acqua utilizzata sul pianeta è consumato dalla zootecnia e dall'agricoltura finalizzata agli allevamenti;
  • la principale causa di deforestazione sono gli allevamenti dei bovini e non il taglio del legname;
  • le sole deiezioni provenienti dagli allevamenti intensivi USA inquinano l’acqua più di tutte le altre fonti industriali raggruppate.

In ogni caso e per par condicio possiamo anche continuare a mangiare carne, avvalendoci persino di ottimi e inconfutabili motivi qui e davvero avremo tanta salute.

Per quel che mi riguarda, cercherò di vegetarizzarmi il più possibile (no vegan, che devo gestire anche il mio aspetto burrariano). La settimana scorsa ho messo in fila 5 giorni cinque di vegetarismo assoluto. Non è stato proprio facile, cazzo, devi tener conto di un sacco di tempo per cucinare e stanziare un budget più alto di spesa (o sono incapace io, o devo solo prenderci la mano), ma mi ha fatto bene, alla fine. Fisicamente non so, ma psichicamente di sicuro.
Con questo, continuerò a concedermi della carne (buona!), credo, ma sarà come fosse un premio.


10 maggio 2017

E alla fine arriva Sordi

Quando cerchi qualcosa da far vedere a tuo figlio (e da rivedere per te), non dico di epocale, ma che almeno aggiunga qualcosa alle vostre vite, quando peschi a strascico nel multiverso cinematografico che va da Fantozzi fino a Mad Max, da Luke Skywalker fino a Danny Ocean, da John J. Rambo fino a Sarah Connor, alla fine arriva Sordi.
È normale, non ci si deve preoccupare, rientra nell'ordine naturale dei fenomeni esistenziali ripassare un po' d'italianità con l'albertone.
Siamo partiti da Guglielmo il dentone (regia Luigi Filippo D’Amico – terzo episodio del film I complessi), così come antipasto.
(Ma quant’è bella Gaia Germani! E pure le Kessler: due strafighe!)
Vabbè, torniamo a noi, gli do il via e France fa “Ah, ma è in bianco e nero?”
Penso, vai ora me lo stronca e mi tocca ripiegare sul professor dottor Guido Tersilli.
“Ganzo!” invece fa.
Ecco, alla fine è questo che mi ha fatto pensare.
Il fatto che un ragazzino di 12 anni associ il bianco e nero televisivo alla qualità, o alla ganzitudine insomma.
Quindi non è solo una questione di nostalgia canaglia, voglio dire.
Del resto gli Stanlio e Ollio e i Miss Marple non è che siano da buttare, e questi li avevamo già proiettati tempo addietro.
Magari invece è solo la novità, o il fatto che i porcai in bianco e nero dell’epoca nessuno se li va a cercare anche se c’erano lo stesso, ma io preferisco pensare che in quel tempo ci fosse più attenzione alla qualità, e le cose fossero pensate e fatte per essere belle e per durare (persino i film).

7 maggio 2017

1984 - George Orwell, e chi se no?

Nel 1984 dormivo, cullato dalla beatitudine dei vent'anni e da un insalubre edonismo reaganiano, quando andava in fact checking il libro forse più noto di quel pazzo visionario che fu George Orwell.
Scritto nel 1948 il romanzo (trad. Stefano Manferlotti) - in realtà e ovviamente è ben più di un romanzo - è una roba che fa venire i brividi. Un'opera d'arte, un pezzo unico.
Certo non ho le capacità di parlarvene in termini critici, posso solo dirvi che se sta nelle liste dei libri che dovremmo leggere prima di crepare, beh un motivo c'è.
Mi limito a riportare una delle parti che mi hanno più colpito.
Leggetelo tutto, comunque, non aspettate il 4189!

La manipolazione del passato ha però uno scopo di gran lunga più importante: salvaguardare l'infallibilità del Partito. Discorsi, dati statistici e documenti di ogni genere debbono essere continuamente aggiornati per dimostrare innanzitutto che le previsioni del Partito erano sempre e comunque giuste, ma anche perché non è possibile ammettere cambiamenti di dottrina o di linea politica. Cambiare opinione, o addirittura linea politica, è infatti un segno di debolezza. Volendo fare un esempio, se l'Eurasia o l'Estasia (è del tutto indifferente che si tratti dell'una o dell'altra) è il nemico di oggi, allora quella nazione deve essere sempre stata nemica. E se i fatti lo negano, bisogna cambiare i fatti. In tal modo la Storia viene continuamente riscritta. L'attuale falsificazione del passato posta in essere dal Ministero della Verità è indispensabile alla stabilità del regime allo stesso modo in cui lo è l'attività di repressione e spionaggio portata avanti dal Ministero dell'Amore. La mutabilità del passato è il cardine stesso del Socing. Gli eventi trascorsi, si argomenta, non posseggono un'esistenza oggettiva, ma sopravvivono solo nei documenti scritti e nella memoria degli uomini. Il passato è quanto viene riconosciuto dai documenti e dalla memoria dei singoli individui. Ora, poiché il Partito detiene a un tempo il controllo integrale di tutti i documenti e delle menti dei suoi affiliati, ne consegue che il passato è ciò che il Partito decide essere tale. Ne consegue pure che, sebbene il passato sia modificabile, non esiste un caso specifico che porti il segno di questo mutamento. Infatti, una volta che sia stata data al passato la forma ritenuta necessaria nel momento contingente, la nuova versione dei fatti è il passato, e non può mai esserne esistito uno diverso. Ciò vale perfino nei casi in cui, come spesso accade, il medesimo avvenimento deve essere radicalmente modificato più volte nel corso di un anno. Il Partito è in ogni circostanza il detentore dell'assoluto, e l'assoluto non può mai essere diverso da ciò che è in quel dato momento. Si vedrà che il controllo del passato dipende soprattutto da una sorta di addestramento della memoria. Fare in modo che tutti i documenti scritti siano conformi all'ortodossia del momento è un atto puramente meccanico. È però anche necessario ricordare che gli avvenimenti specifici hanno avuto luogo in quel modo desiderato. Se poi si deve dare un nuovo ordine a ciò che si ricorda o falsificare i documenti scritti, diviene necessario dimenticare di aver agito in quel modo. Si tratta di uno stratagemma che può essere appreso come qualsiasi altra tecnica mentale. Certamente lo apprendono quasi tutti i membri del Partito e tutte le persone intelligenti e perfettamente osservanti dell'ortodossia. In archelingua un simile procedimento viene definito, in maniera affatto esplicita, "controllo della realtà"; in neolingua viene detto bipensiero, anche se questo termine abbraccia molto altro.
Il bipensiero implica la capacità di accogliere simultaneamente nella propria mente due opinioni tra loro contrastanti, accettandole entrambe. L'intellettuale di Partito sa in che modo vanno trattati i suoi ricordi. Sa quindi di essere impegnato in una manipolazione della realtà, e tuttavia la pratica del bipensiero fa sì che egli creda che la realtà non venga violata. Un simile procedimento deve essere conscio, altrimenti non potrebbe essere applicato con sufficiente precisione, ma al tempo stesso ha da essere inconscio, altrimenti produrrebbe una sensazione di falso e quindi un senso di colpa. Il bipensiero è l'anima del Socing, perché l'azione fondamentale del Partito consiste nel fare uso di una forma consapevole di inganno, conservando al tempo stesso quella fermezza di intenti che si accompagna alla più totale sincerità. Raccontare deliberatamente menzogne e nello stesso tempo crederci davvero, dimenticare ogni atto che nel frattempo sia divenuto sconveniente e poi, una volta che ciò si renda di nuovo necessario, richiamarlo in vita dall'oblio per tutto il tempo che serva, negare l'esistenza di una realtà oggettiva e al tempo stesso prendere atto di quella stessa realtà che si nega, tutto ciò è assolutamente indispensabile. Perfino quando si usa la parola bipensiero è necessario ricorrere al bipensiero. Nel farne uso, infatti, si ammette di manipolare la realtà, ma con un novello colpo di bipensiero si cancella questa consapevolezza, e così via, all'infinito, con la menzogna in costante posizione di vantaggio rispetto alla verità. In fin dei conti, è per mezzo del bipensiero che il Partito è riuscito (e, per quanto ne sappiamo, una simile impresa potrebbe andare avanti per migliaia d'anni) ad arrestare il corso della Storia.

3 maggio 2017

La vita è adesso

Sulla Linea dissertiamo ancora senza costrutto alcuno su felicità, ospitando il contributo di una fedele amica.

Ma questo Baglioni è qualcosa in più di una rima coi suoi attributi oppure no? Questo mi chiedevo ascoltandolo in radio.
I pomeriggi appena freschi, l'aria tenera di un dopocena, e musi di bambini contro i vetri, non sta forse tutto qui? In queste trite vacuità?
E non lasciare andare un giorno, questa è la meglio di tutte.
Alla fine che ci dice questa canzone? Ci butta in faccia delle banalità spaventose, ci esorta a vivere il presente e ci consiglia di godere delle piccole cose. Insomma ci dice di prenderla come la prendo io.
Per davvero, senza falsa modestia, in questo campo, con queste regole, io sono maestra.
Ogni momento vissuto come unico, anche quando è la ripetuta esecuzione di un gesto, di un rito quotidiano.
Godersi una passeggiata, gioire di un regalo semplice da portare ad un amico, foss'anche un paio di brutte scarpe o un giocattolino di legno.
Svenire per una carezza. Non sta forse tutto qui?
Se ne vedono troppi di brutti musi in giro, di quelli che mai un sorriso, di quelli sempre girati, di quelli che è sempre lunedì.
Ringraziare ogni giorno per la libertà di andare, di correre via senza legacci e mandare un pensiero a quelli come noi che ci hanno preceduti e hanno combattuto per la libertà spezzando le catene.
Oddìo, La retorica mi sta uccidendo.
E sì, Baglioni alla fine dei salmi cantati ce la racconta giusta eccome.
La vita è adesso, così è se vi pare.
Ma forse non lo sapete, se non avete corso a perdifiato, disegnando i ghirigori del mondo, in un campo d'avena selvatica.
La vita è adesso, e lo potete abbaiare forte.
Bau.

27 aprile 2017

Piedi nei calzini



Un minuto prima stai bene e un minuto dopo cominci a sentire i piedi nei calzini.
E non esiste più nulla. Il lavoro, lo svago, le chiacchiere, il cibo e tutto, insomma, si fa sfumato sullo sfondo, in primo piano solo i piedi nei calzini.
E per quanto cerchi d'ignorarla questa sensazione fastidiosa, lei se ne sta lì in agguato e in mostra, come quel cretino che ti fa i versi davanti all'obiettivo quando devi fare una foto del palazzo reale.
Niente è più distinguibile dai tuoi sensi, solo i tuoi fottuti piedi nei tuoi fottuti calzini riesci a sentire.
Devi pensare ad altro, devi pensare ad altro.
Rifrulli il calderone della memoria e tiri fuori di tutto, dalla neve a casa vecchia a Gigi Riva in rovesciata, dai funghi porcini di Badia alla doppietta segnata di testa, dal primo amore scolastico alle poppe della farmacista, dalle macchinine della Polistil al Rischiatutto, da Tom Sawyer a Dolores Haze, dall'odore della benzina a quello di cane molle, dal cofanetto di caramelle Sperlari alla Billy dell'Ikea, da Thoeni in Val Gardena alla Schiavone a Parigi.
Ma nulla di tutto questo riesce a rispedire i piedi nei calzini nella vaghezza indistinta e rassicurante dell'anonimato.
Allora ci scrivi un post, giusto per esorcizzare, per distrarti, ma nulla.
I tuoi piedi si asserragliano ancora più strenuamente all'interno dei calzini. Sono agguerriti. E tu li senti i maledetti piedi nei calzini.
È uno status fisico che può, nel suo acme, perfino prescindere dagli stessi calzini.
E così li senti i piedi nei calzini, per dire, pure se stai scalzo o con le infradito hawaiane da troppi euri.

21 aprile 2017

Scrivere nel passato (remoto)


Non ne posso già più delle storie infarcite di cellulari, di social e di tutte quelle moderne diavolerie.
Per carità, benissimo per la realtà reale e per tutti i lestofanti che l'avrebbero fatta franca un secolo fa e invece adesso restano impigliati nelle maglie digitali e regolarmente beccati.
Ma per la fiction no, non ce la fo mica, mi viene l'orticaria.
Bene Perfetti sconosciuti, visto e piaciuto, ma anche basta.
Io voglio godermi delle storie, lette o viste, dove per ricevere una telefonata devi restare inchiodato all'apparecchio e nei pressi del suo fottuto filo che sbuca dal muro.
Voglio vedere il cazzo di protagonista sanguinante che si trascina per dei chilometri in caccia di un posto pubblico per telefonare, voglio che si frughi in tasca alla ricerca di qualche spicciolino che gli salvi il culo.
Altro che flat e 500 sms gratuiti.
Mi voglio immedisimare in tempi e luoghi dove il telefono senza fili è ancora e soltanto quello stupido gioco da fare a tavola nei dopocena un po' bevuti, quando il primo della catena bisbiglia La Coca Cola fa fare i rutti e all'ultimo gli arriva immancabile L'Eleonora la dà a tutti.
Voglio un mondo raccontato dove pullulano gli Overlook hotel isolati da tutto. Voglio un bosco dove ti puoi far azzannare in santa pace da un orso senza che tu debba rompere le palle ai tuoi contatti in rubrica per venirti a pigliare, voglio un amore tra due disperati confinati agli angoli del globo che si sviluppa a colpi di lettere scritte a mano, meglio se vergate con la stilografica. Voglio della gente che cucina spulciando un vecchio ricettario macchiato e rilegato con lo spago.
Voglio una fiction whatsapp free, dove ci siano delle foto da sviluppare e dove i messaggi vocali si lascino al massimo dentro al buco nero di una segreteria.
Oppure mi date una storia con tutta sta roba digital, ma che sia stata pensata e scritta cinquant'anni o più fa, allora va anche bene.

p.s. poi voglio anche conoscere l'Eleonora.

19 aprile 2017

Lo zen e l’arte di portare fuori il cane

Non avrei mai creduto, eppure funziona.
Intanto tuo figlio, quello che non parla mai, quello che ancora si lega le scarpe ficcandosi i lacci dentro ai calzini, quello che si nutre in stile Mowgli, quello che te le leva dalle mani, lui, incredibilmente si fa loquace nel tempo della passeggiata con il canide. E allora diventa un'occasione preziosa per aprire una fessura da cui spiare nella sua altrimenti imperscrutabile vita.
E poi niente, è un'uscita di sicurezza portare fuori il cane.
Era uno splendido fumetto, Uscita di Sicurezza, di Trillo e Altuna, lo dico per i residuali amanti di Lanciostory (titolo originale: Las puertitas del Sr. Lopez).
Quando proprio non ce la fai più, in quei giorni stipati di pannoloni e medicamenti, di voci alzate e di manate trattenute, in quei giorni di rospi ingoiati e di bon per la pace, in quei giorni di rumori molesti e di deprimenti tran tran, ecco, lì puoi sempre portare fuori il cane.
E, come d'incanto, quello che da un'analisi prematura e sommaria poteva sembrarti un pesante fardello, ecco che si trasforma in quel poco di zucchero capace di farti andar giù l'amara pillola.
Devi solo pigliare collare e guinzaglio, imboccare l'uscita di sicurezza e buttarti a passeggiare pallido e assorto.
E la lancetta che era salita sul rosso, fino quasi a toccare schizofrenia, scende piano piano verso nervosismo, poi giù a indicare leggera ansia, ancora verso serenità e infine eccola che crolla sullo zero psichico dell'essere zen.
A quel punto puoi anche tornare a casa che il cane di certo ha già fatto le robe sue.

13 aprile 2017

L'amore ai tempi del semaforo


Le due ragazze sono al semaforo, lei, la ragazza bionda in carrozzina, capelli corti mechati e sparati, quella mora, con qualche anno in più, camicetta bianca e occhiali da vista dalla montatura nera e spessa, che la spinge.
Aspettano il verde, il tempo è come cristallizzato.
Lei, dalla testa ciondoloni irrequieta che muove senza un criterio e senza una strategia, in su, in giù, di lato. Poi di nuovo in giù e poi di nuovo di lato onde evitare ogni possibile stallo, dall'apparenza fatale. Disegna col capo rotte empiriche e imprevedibili.
È il suo modo di essere viva e di essere lì. Di essere lei.
Poi la ferma quella testa, d'improvviso la volge all'indietro fino quasi a spezzarsi il collo e aspetta, guarda su.
Sulle prime la ragazza mora, forse una sorella maggiore o una badante venuta dall'est su un pullman zuppo di sudore e lontananza, non si accorge di nulla, sta ancora puntando la sagoma dell'omino nel semaforo.
Poi finalmente la vede la faccia di lei rivolta all'indietro, e allora si abbassa, in un fragile eppure infinito gesto d'amore, e le si avvicina con la gota.
È quella carezza, lo strusciarsi di due visi in un silenzio di parole, che ridà il via al mondo.
Solo allora il semaforo si fa verde, loro attraversano e vanno verso i giardini.
Noi tutti diamo gas e riprendiamo le nostre rotte e le nostre, un filo meno, miserande vite.

9 aprile 2017

Del diario vissuto di Giovanna (15)


31 ottobre 1954
Oggi tu mi ai portata a vedere i tuoi posti d'infanzia dove tu sei cresciuto dove ai fatto i primi passi.
Arrivati lassu' al Poggio alla Croce tu mi facesti conoscere tutti i tuoi zii e i tuoi parenti, poi andammo al cimitero a far visita alla tua povera mamma, poi si faceva tardi e si venne via dato che ci saveva la lambretta del tuo zio Memmo, si sarebbe fatto presto a rivare a casa. Pero' prima di venire via passammo dalla casa tua dove tu eri nato, e tu mi dicesti Guarda Gianna quella e' la finestra dove la' dentro sono nato.
Quanta gioia lessi nel tuo sguardo quando mi insegnavi tutti i tuoi posti dove giocavi da bambino.
E mi dicevi Gianna qui o fatto questo qui o fatto quello.
Era bello per me sapere tutte queste cose.
1 novembre (Tutti Santi)
Sono stata a far la sposa in casa tua, forse non ci riuscivo ma imparero' presto vedrai.
Mi pareva davvero di esserlo, mi sentivo grande anche se sono piccola.
Quando eravamo per venir via tu mi ai letto un tuo tema dato che sei ritornato piccolo ritornando a scuola...
Siamo stati a sedere sopra al tuo letto, dove tutte le sere la tua testa riposa tutti i pensieri che a fatto durante la giornata.
Poi tu mi ai presa e abbracciata e baciata e poi ribaciata.
Eppure tu mi dici tante volte Noi Gianna ci troveranno sfiniti dai baci.
Quante volte mi domando perche' ci vogliamo tanto bene, e perche' lontano da te io non so vivere.
Neno amore mio tu mi ai dato tutto e tanta felicita' soltanto a sentirti parlare e quando sono tra le tue braccia e mi stringi forte forte e mi chiami Bambola e bambola per te saro'.
Un giorno verra' anche per me l'amore di Sposa, l'amore di Madre e l'amore per la mia casa.

 __________________________________ 
Quaderno del diario vissuto di Giovanna
Anema e Core
Dove si va signorine?
Qui vedi dove dormo e ti sogno
Se un giorno mi avverasse
Mi bacia sulla bocca e baci e baci 
Quando non c'è la partita di calcio manca tutto  
Perché l'amore sarà al centro di tutto
Qui intrecciammo la lilla 
Montaccino si chiamava il posto dove tu stavi 
E allora forse ci parrà di sognare ancora
Il nome non te lo scrivo intanto tu lo sai di già
È stato un giorno di sposa, di moglie e di massaia
- Le mie lacrime si confondono con le mie parole
- Dato che ero a tagliare le vestaglie perche' e' il mio lavoro

4 aprile 2017

KGB vs CIA

Ma anche voi avete avuto un’illusoria impennata dei contatti?
Voi di blogger, intendo (su altre piattaforme, boh).
Sembra, ma non ci casco, che in marzo La Linea abbia battuto il suo record di contatti, oltre settemila, mai raggiunto nemmeno ai tempi d’oro, quando era tutto un commentaire.
Ovviamente tratterassi di qualche spider (?) automatico che viene qui a spisciacchiare, chissà mai perché.
Poi parecchi contatti dagli USA, ma figurati!
Whitout a comment one.
USA e URSS a dire il vero, le grandi potenze!
Trump e Putin. Paura eh?
Forse vi sentite minacciati perché sto leggendo 1984? Fate bene.
O perché mi sto avvicinando, ma non troppo, ai Cinque Stelle?
Forse lo spider cerca nei blog news sul pericolo giallo, chissà.
A ogni modo, devo dirlo, KGB fai cagare, molto meglio la CIA: 5000 visite contro 400
O forse sono solo più spaventati.
A pensarci bene è proprio da quando c’è Donald alla cloche del mondo che è iniziata sta roba.
L’anno scorso ho fatto un muretto tra me e il mio vicino di casa, un metro lineare, mi è costato 550 euri, vuoi vedere che cerca spunti per farsi fare un preventivo dal mio muratore di fiducia?
Cosa gli darà noia della Linea a Trumpettone? Forse questi video di figlio 2, alias beaver nob, che lo mettono un po’ alla berlina?
Trump vs Voldemort
Trump vs Voldemort (2)
Anche se io preferisco Persone compilation.
Boh, vabbè, me li tengo ‘sti contatti fasulli, che devo fa’? Ma non mi monto la testa, lo so che i 7000 sono in realtà 700, se va bene.
Grazie a chi passa di qui senza essere un fottuto robò.
Restiamo umani (cit.).

1 aprile 2017

Ho visto una bambina piangere


Adelaide ha 90 anni, è in ospedale.
Ce l'hai il diabete? le chiede l'infermiera.
No, è l'unica cosa che non ha, risponde il figlio.
La prima sera vengono a trovarla in centomila, giovani, vecchi, media età e giovanissimi, ma lei ha gli occhi solo per suo marito, Omero.
Adelaide dalle rughe gentili, capelli bianco latte, incarnato e occhi chiari, senza voce e senza forze, una vestaglina leggera color rosa pallido.
Omero tranciato da rughe polverose e severe, contadino in giacchetta di lana ché in ospedale si va vestiti a garbo, spalle allargate dalla fatica, ripiegato in un metro e mezzo, gambe storte e andatura incerta. Sorride con moderazione, come solo gli uomini di una volta.
Adelaide e Omero si tengono la mano mentre attorno a loro impazzano commenti e saluti e pacche sulla schiena e gesti indaffarati e risa.
La sera dopo meno gente, ma la mano nella mano e gli occhi fusi negli occhi di chi non ha bisogno di parlarsi.
La sera dopo ancora arrivano il figlio e la nuora di Adelaide, sorridono, un po' nervosi forse, ma questo lo capirò solo dopo. Adelaide aspetta qualche secondo, poi alza il mento verso di loro.
Vuoi sapere d'Omero?
Adelaide annuisce.
Stasera non è venuto, era stanco, dice il figlio a capo basso. Non ce l'ha il cuore di alzare lo sguardo verso la mamma.
Ah, va bene, continua a muovere il capo in su e in giù Adelaide, come dire, è giusto, povero Omero, sballottato in giro per colpa mia, alla sua età.
Va bene, cerca di convincersi.
A questo punto vedo la bambina che è. 
Serra le labbra fino a che si fanno viola, guarda le spondine mobili del letto con un interesse tutto nuovo, cerca di leggerne l'etichetta, poi la gratta piano con l'unghia, ma quella non ne vuole sapere di staccarsi. Adelaide sporge il mento verso l'alto nel tentativo finale di placare l'onda che le spuma dentro.
Il figlio e la nuora armeggiano con il vassoio della cena, stappano contenitori arancioni, versano acqua, poi le avvicinano il tutto.
Adelaide però lo spinge via e, voglia il cielo e finalmente, piange.
Piange senza pace, senza un freno. Inconsolabile, piange lacrimoni silenziati e pesanti, privi di vergogna, come quelli che bussano ai miei occhi, adesso, che cerco di descrivere questa scena di sommo e smisurato amore con la forza scombinata e la miserevole incapacità delle mie parole.
L'amore a questa età è una supernova luminosissima e non la puoi descrivere se non sei Dante, o Nazim Hikmet forse.
Il giorno dopo Omero è tornato, a pranzo e pure la sera, lì mi sono fatto coraggio e ho rubato una foto per voi. Per me.

30 marzo 2017

Le storie del frigo


Facile cercarti nell'Alfama, tra le pieghe del fado e i cani randagi o nell'odore del queijo da serra dentro ad un pastel, o magari in una casuale spolverata di cannella, perfetta come un manto stellato su un cielo di crema.

E nelle sfumature di un olio su tela nello spazio bidimensionato e feroce di un bacio infinito, rubato e restituito, ai piedi di una scala che nessuno ha intenzione di salire.

Là dove ogni giorno pioggia e vanagloria innaffiano la storia del mondo e va sempre come per Joe, che ti chiedi se devi restare o devi andare. E alla fine vai, anche se vorresti restare.

Illusorio trovarti nei recessi di un sorriso ammezzato o nelle nebbie di un risveglio frettoloso sotto a una faccia spappolata di frutta e verdura. Indecente e scontato pensare di conquistarti passando attraverso l'origine del mondo.

Come sarebbe tutto compiuto se ti avessi intravisto, riflessa, nel multiverso alterato e convesso della perla senza conchiglia di una ragazza perbene da andare a trovare in treno.

Indomito nel mio cercarti ai piedi delle montagne dal cuore viola, sotto a cieli vertiginosi e a picchi profondissimi, dentro ai dolori di una giornata di pedalate infinite zuppe di pioggia e di lacrime perdute nel tempo.

Talvolta ho pensato di averti sorpresa, correndo su una spiaggia deserta, profumata di ramblas e peperoni verdi, di fianco a miserevoli vite dedite alla rivelazione metallica di uno spiccio o di un anello, gettato via per la rabbia di un amore che amor non è più.

Avrei pensato che fosse più facile cacciarti, come si fa con il tesoro dei tesori, in giro per il mondo, quando invece stavi lì, a due metri da un frigo saccheggiato per una cena messa su in fretta. Lì, attorno a quella tavola dove si ciancia senza costrutto delle anacronistiche torri rotonde nei castelli dell'alto medioevo, di un ostinato mal di stomaco, di cuccioli bavosi dalla coda assassina, di riso bollito e di tè verde piccolo principe, di diete perseguite lo spazio di un respiro. Lì dove si ciancia di capelli da tagliare o del vento che tira da nord, del trapezio rettangolo e di spaventose gru da cantiere.
Dei viaggi da fare e di quelli che non faremo.

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E i vostri frigo, la raccontano una storia?
Grazie a plus1gmt per lo spunto.

28 marzo 2017

E voi lo conoscete il segreto dei pigmenti duraturi?

(segue da Questo è un romanzo magnifico, Signori della Corte)

E nel caso lo conosceste il segreto dei pigmenti duraturi, o non lo conosceste ma comunque sapeste di cosa si tratta, vi verrebbe mai voglia di pensarci? O di scriverne?


Diciamolo, alla fine erano più i brani sottolineati che quelli no, ergo sarebbe stato meglio non citare, meglio non selezionare, meglio non filtrare via impropriamente qualcosa.
Immaginatevi di vedere ogni pagina, ogni riga, immaginatevi ogni parola compiutamente evidenziata in giallo.
Questo è Lolita - luce dei miei occhi, fuoco dei miei lombi - respiratelo, mangiatelo, assimilatelo, non perdetene una stilla. Lo.Li.Ta. (4,9 Ca.Rv.Er.)
(Lolita - Vladimir Nabokov - Traduzione di Giulia Arborio Mella)
Riporterò poche cose, pescate per lo più a casaccio, tra tutte quelle che ho amato. Ognuno di voi potrà ritenersi offeso per non vedere trascritta in calce la sua citazione preferita, e io lo capirò.

Potete sempre contare su un assassino per una prosa ornata.

Creerò un Dio nuovo di zecca e lo ringrazierò con grida lancinanti.

Penso agli uri e agli angeli, al segreto dei pigmenti duraturi, ai sonetti profetici, al rifugio dell'arte.

Ho notato spesso che siamo inclini a dotare i nostri amici della stabilità tipologica che nella mente del lettore acquistano i personaggi letterari. Per quante volte possiamo riaprire Re Lear, non troveremo mai il buon re che fa gazzarra e picchia il boccale sul tavolo, dimentico di tutte le sue pene, durante un’allegra riunione con tutte e tre le figlie e i loro cani da compagnia. Mai Emma si riavrà, animata dai sali soccorrevoli contenuti nella tempestiva lacrima del padre di Flaubert. Qualunque sia stata l’evoluzione di questo o quel popolare personaggio fra la prima e la quarta di copertina, il suo fato si è fissato nella nostra mente, e allo stesso modo ci aspettiamo che i nostri amici seguano questo o quello schema logico e convenzionale che noi abbiamo fissato per loro. Così X non comporrà mai la musica immortale che stonerebbe con le mediocri sinfonie alle quali ci ha abituato. Y non commetterà mai un omicidio. In nessuna circostanza Z potrà tradirci. Una volta predisposto tutto nella nostra mente, quanto più di rado vediamo una particolare persona, tanto più ci dà soddisfazione verificare con quale obbedienza essa si conformi, ogni volta che ci giungono sue notizie, all’idea che abbiamo di lei. Ogni diversione nei fati che abbiamo stabilito ci sembrerebbe non solo anomala, ma addirittura immorale. Preferiremmo non aver mai conosciuto il nostro vicino, il venditore di hot-dog in pensione, se dovesse saltar fuori che ha appena pubblicato il più grande libro di poesia della sua epoca.

A Kasbeam un barbiere molto vecchio mi fece un taglio molto mediocre: blaterava di un suo figlio che giocava a baseball, e a ogni consonante esplosiva mi sputava nel collo, e di tanto in tanto si puliva gli occhiali sulla mia mantellina bianca, o interrompeva il tremulo lavorio delle sue forbici per mostrarmi sbiaditi ritagli di giornale, e io ero così distratto che fu uno choc rendermi conto, mentre lui mi indicava una fotografia incorniciata in mezzo alle vetuste lozioni grigie, che il giovane giocatore coi baffi era morto da trent’anni.
[...il barbiere di Kasbeam (che mi è costato un mese di lavoro)]

26 marzo 2017

Creature di sangue caldo e nervi


C'è un ragazzo dai capelli into the wild, ha una chitarra e intona Look at me, I am old, but I'm happy, canta per se stesso, per noi e per il tempo ché se la pigli comoda.
Un nero dall'hic sunt leones benedice il sole per la scatolata di occhiali non è caro dieci euro e per chi li vuole comprare; una lei forse di un'altro pianeta ne porta sulla testa un paio rossi enormi, da falena.
La ragazza vichinga, burrosa e sbracciata e dall'incarnato bianco come ricotta, ride alle nuvole che non ci sono, mentre due amiche, poco più in là, se ne stanno avvoltolate in piumini pastello e in una diversa stagione.
Al centro c'è la giostra che gira, zeppa di bambini a cavallo, che non fai in tempo li guardi, mamma un altro giro, e via centrifugati nell'adolescenza.
La bimba occhialuta e sincera sfreccia su una bici lenticolare griffata batman cercando probabilmente il record dell'ora o, in seconda battuta, di sfuggire alla sorella piccola.
Ragazzi nero barbuti dalla scriminatura potente e impomatata e dai calzoni inspiegabili richiamano Aldo detto Bob e le sue ragazze di San Frediano.
E due fidanzati, lei tatuata a colori con i capelli solo sul lato destro e lo stivale floscio, lui fasciato in una maglietta con una scritta troppo lunga e piccola per essere letta o tradotta, gemelli di anelli al naso e labbra carnose.
Due ragazze si atteggiano a signore di quelle con il cane nella borsetta, ma non ce l'hanno uno sputo di cane, sfoggiano cappottini anni sessanta, uno è rosso tartaruga con i bottoni in finto osso. Un'altra ragazza dalla pelle olivastra, indossa la mimetica, cadenza il passo e porta le trecce con un'aria vagamente familiare, chissà mai la figlia di quel cugino disperso nel mondo.
Due bimbe o poco più si portano in giro i loro skate fuori moda con una faccia di quelle da Bois de Bologne.
Pure i carabinieri schierati e in tenuta d'assalto li vedi che ridono e parlano di calcio e di figa, lontano mille miglia dai venti del terrore.
Il tassista aiuta un tizio a caricare in auto un passeggino rosa confetto, spia di una nuova bimba che un giorno traverserà piazze in bici, si adornerà di trecce, canterà Cat Stevens e donerà al sole, o a un ragazzo, la sua pelle profumata di pesca, sia essa nivea o olivastra a chi importa davvero?
Faccio la diagonale di Piazza della Repubblica screziata dal sole basso di fine marzo, la affetto in due spicchi simmetrici e vividi, i cieli sono fusi nei volti delle persone che come me la tratteggiano.
E siamo un quadro di Bruegel.
È lì che mi piglia l'attacco forte di debolezza del MaQuantoCazzoèBellaLaVita.
E quando into the wild lì attacca Hallelujah, sento un brivido: è giunto il momento che un'anima pia mi inizi a Leonardo Cohen.

23 marzo 2017

Questo è un romanzo magnifico, signori della Corte


Ho iniziato a leggerlo quasi per caso, un po' svogliatamente, giusto perché sta nelle liste di tutti quelli che compilano le liste dei libri che non possiamo non leggere.
Questo è un libro bello come un libro quando è bello, direbbe quel gnoccone languido di Prévert.
Oh voi che non vi siete ancora presi la briga di leggerlo, preparatevi all'agone, non indugiate, sto per svelarvi il titolo: compratelo, rubatelo su una bancarella dell'usato, ghermitelo dalla libreria di vostra zia.
Oh voi che l'avete letto e dimenticato, ricercatelo, riprendetelo a mano e gustatevelo come si gusta davvero un eccellente vino, quando non si ha sete.
Oh voi che vi dilettate nella miserevole e nobile arte dello scrivere, studiatene la struttura narrativa, l'aggettivazione, le similitudini, il lessico, l'essenzialità e la ferocia, la precisione e la leggerezza e - dopo - buttate ogni vostro scritto nel cesso.
Questo è IL romanzo, signori della Corte. Questo vale un fottuto 4,9 carver e li vale tutti, e quello 0,1 di scarto dal top sta solo nella data di uscita successiva a Il Giovane Holden, mio master meter personale di tutte le graduatorie libresche.
Dentro ci sono tutti.
C'è Salinger, per l'appunto, ma c'è Stephen King, e c'è DeLillo (oh, quanto DeLillo!), c'è anche John Fante, potete scommetterci, ci sono i fratelli Grimm con la Rowling.
Dentro c'è Agatha Christie che fa all'amore con Dostoevskij.
Dentro c'è tutto.
Manco a dirlo c'è un botto di Eros e di Thanatos, c'è il mattone e la piuma, il monsone di sud-ovest e l'aria secca di Tamanrasset, c'è il lupo e c'è l'agnello, c'è l'effluvio dei fiori a primavera e la puzza di fogna in una giornata di pioggia e vento contrario, c'è una mano di carta vetrata e uno svolazzo di seta, c'è la noia e il fuoco d'artificio, c'è Lucifero con tutti i santi, c'è il ballo delle debuttanti e il liscio in piazza la sera d'estate, c'è il pane azzimo e il controfiletto alla wellington, ci sei tu e ci sono io.
C'è quello che vorresti e quello che non vorresti trovare.
C'è il fiato lungo della vita eterna e l'espressione del mortal sospiro.
C'è la perfetta asimmetria dell'arte pura.

(segue qui)

20 marzo 2017

Secondo clarino (3)

(Segue da qui e da qui)
 
 Alzo la cornetta per sentire se il telefono è a posto. Un tu tu mi dice di sì. Controllo anche il volume della suoneria: è al massimo, ma Walter non chiama ancora. E sono le dieci e dieci. Potrei anche volermi andare a sdraiare a quest’ora, penso sia un mio diritto no? Di venerdì sera, poi. E questo cosa fa? Quando chiama? Evidentemente pensa che non c’ho niente da fare, questo pensa che stia qui a perder tempo in attesa della sua telefonata e della sua stramaledetta solfa bastarda. O pensa che io non abbia niente di meglio da fare il venerdì sera che scoprire il cavolo di posto dove andremo o non andremo a suonare domenica. Ma appena chiama lo sistemo!
Alle dieci e venti è veramente troppo. Walter non si è mai comportato così e niente gli dà il diritto di farlo. Niente. A meno che non abbia chiamato proprio in quell’attimo in cui ho alzato la cornetta per sentire se c’era linea. Può essere. Sto per riprendere su la cornetta per verificare la linea, ma m’immagino Walter di là che fa il numero… allora la lascio giù. E aspetto. Niente, nessuno squillo.
Non si saranno dimenticati di me? Capace che se non mi chiamano una volta e suonano senza il secondo clarino, vedono che non fa nessuna differenza e poi magari mi lasciano a casa per definizione.
Walter, Walter diobonino, fai questo cacchio di numero. Fai questo numero. Poi lo so… va a finire che perdo la pazienza e non mi so controllare e lo tratto male per davvero: gli fo un liscebbusso che se ne ricorda.
Mi affaccio alla porta, aprendo con cautela: una cassettiera in legno quasi rosso è spiaccicata sul muro di fronte e lascia a malapena lo spazio per passare su. O per passare giù. Richiudo.
Il telefono è sempre lì, come morto. Guardandolo adesso dubito perfino che possa suonare, mi sembra impossibile anche che abbia solo una volta suonato in vita sua, mi sembra tutto meno che un apparecchio teso ad emettere una qualche variante di un misero suono.
Sono le dieci e mezzo quando prendo su quel telefono inerte e compongo il numero di casa di Walter.
- Pronto?
- Walter, sono io.
- Oh, ciao Sergio, che si dice, che non si dice?
- No, niente, non ti ho sentito e siccome volevo parlarti…
- Dimmi dimmi, sto ancora cenando, sono stato mezz’ora a telefono con Tiberio…
Il nostro primo clarino!
- Chissà che gli ha preso, se n’è uscito con tutta una serie di menate sulle sagre, sullo squallore dei posti dove si suona, perfino sulle giacchette bordò, vallo a capire! Se aspirava a suonare con la Filarmonica di Berlino, poteva pensarci anche prima. Fatto sta, domenica siamo a Greve per la festa del Castagnaccio ma lui non viene, anzi non viene proprio più.
- No?
- No. Ma gliel’ho detto che ci importava il giusto e che avremmo suonato ugualmente bene con te primo clarino. Anzi primo secondo e ultimo. Se pensava che ci si mettesse a piangere…
Primo clarino?
- Sergio, ci sei? Che volevi, svelto perché devo finire di cenare.
- No, ti volevo chiedere… ma con quante macchine si va?
- Al solito dài, passi di qui, parcheggi e si va su con la mia, gli altri vengono col furgone.
- Bene, allora ciao.
- Ciao.
Vado per le scale e faccio una voce a quei ragazzi: è l’ora di portare su la cassettiera. Anche alla svelta, ché dopo una lucidatina allo strumento e via a nanna. Si prepara un gran fine settimana!

 (fine)



19 marzo 2017

Secondo clarino (2)

(Segue da qui)

Suona il campanello. E bussano. E poi chiamano.
- Signor Battistelli, signor Battistelli è in casa?
Riconosco la voce della tipa del piano di sopra. Rispondo da dietro la porta. Non apro mai agli estranei, capace che poi cominciano con la tazza di zucchero, la volta dopo il pane e finisce che poi se non li campi tu son sempre lì che ti suonano e ti bussano e ti chiamano. E non si chetano nemmeno con il mute.
- Sì?
- Signor Battistelli, ci dà una mano a portare su una cassettiera, per favore?
- Come?
- Una cassettiera, ce l’abbiamo giù a piano terra, sarebbe così gentile…?
- Sì, cioè no. Sono in mutande… e poi aspetto una telefonata urgente, mi dispiace.
Passo davanti alla vetrinetta del mobile e mi guardo nel riflesso, vedo la sagoma dei miei capelli e quasi mi pettino, poi torno a sedere. Come se uno fosse la ditta traslochi! C’era da immaginarselo, è pieno di questi vicini che non sanno come cavarsela da soli e suonano campanelli e bussano e ti chiamano. E comprano cassettiere.
Alla tele stanno bacchettando una specie di statuina di una specie di pensatore composta con tutta una serie di micro forme in quasi bronzo che paiono lettere dell’alfabeto. Roba dell’altro mondo!
Dal pianerottolo penetra qualcosa come “Allora, signor Battistelli, se… telefonata…  mano… grazie… ” o giù di lì.
Sono le nove e mezzo. Mi ripasso mentalmente quello che dirò a Walter. No, guarda, non ci sarò domenica. E lui mi chiederà cos’ho cosa non ho. Niente, non ho niente, solo non verrò, né domenica né mai più. E lui mi chiederà cosa farò, cosa non farò. Niente, o qualcosa, in ogni caso non riguarderà una qualche sagra, né un qualche secondo clarino né una giacchettina bordò dai bottoni quasi dorati. E lui mi chiederà come mai come non mai. Così, dirò, oppure metterò giù. Ecco, magari metto giù.
Walter farà per attaccare la solita solfa, ma io probabile che gli metta giù il telefono, alla fine.
Il clarino. Il secondo clarino. Due che suonano il clarino. Ed io sono pure il secondo. Ma come ho fatto a star dietro a questi svalvolati per quasi vent’anni? Le majorettes che ci aprono la strada tra un po’ sono le trisnipoti di quelle che c’erano quando ho cominciato, e io sono ancora lì con questa specie di tubo in mano a soffiarci dentro come uno scemo: pippiripì pippiripì.
Prendete l’Ottorino Respighi, fatele eseguire il primo pezzo che vi capita a tiro davanti ad un qualificato novero di esperti. Poi ripigliatela, cassate il secondo clarino, magari mandatelo a traslocare delle cassettiere, e fate ripetere il concerto daccapo. Nessuno si accorgerà di alcuna udibile differenza. A parte il titolare del secondo clarino. E a parte la cassettiera. Forse.
Sono le nove e quaranta e non ho proprio voglia di stare ad ascoltare Walter. Fai che mi chiami e attacchi colla solfa del come stai come non stai, lo stoppo subito, guarda, gli dico che non mi cerchi più, che non mi chiami e che si procuri da qualche altra parte una specie di secondo clarino, oppure no, chissenefrega.
C’è muffa sul muro: è sempre stata un problema, in questo buco di casa. La muffa della parete nord ha iniziato un clamorosa avanzata e si sta espandendo sul soffitto e sulla parete est con chiazze gonfie e verdastre. Un movimento lento e costante e empirico. Asimmetrica, la muffa avanza e disegna i suoi astratti. Quasi da chiamare la casa d’aste e mandargli un pezzo di muro per sentire non tanto se lo vendono, perché lo vendono di sicuro, ma come lo presentano al pubblico. Muffa su intonaco – 110 x 80? Può essere.
Sono quasi le dieci, chiaro che Walter ha avuto il suo bel daffare stasera ad avvisare tutti; non lo sapessero che il venerdì sera c’è il giro delle telefonate! Dev’essere una bella palla anche dover chiamare tutta la banda per notificare dove si va dove non si va, dove ci si trova e dove non ci si trova, a che ora ci si trova e a che ora non ci si trova. Io non ce la farei, davvero, non ci sono tagliato per mettermi a telefonare e salutare e chiacchierare… poi di venerdì sera. Se aspettano che li chiami io!
Porto la sedia vicino al telefono così faccio prima a liberarmi di questa roba che devo dirgli. Appena suona tiro su e non gliela faccio nemmeno attaccare la sua penosa solfa.
Struscio un dito sulla superficie del mobile in quasi betulla e rilevo l’esistenza di uno strato di polvere. È sottile, quasi rassicurante. Faccio due o tre stradine col dito, potrei tirarla via con lo straccio, ma non mi va di allontanarmi dal telefono proprio adesso. Fuori un gran tramestio, sembra che abbiano deciso di portare su quella cassettiera, finalmente. Tendo l’orecchio e sento un gran botto.
“Attento, attento!”
O forse sento prima attento attento e poi il gran botto proprio davanti al mio portone, sul pianerottolo.
“Così non ci si fa, dài… vediamo dopo… oppure domani…”
Poi vanno via. Deduco che mi abbiano lasciato quella stupida cassettiera sull’uscio di casa.

(continua qui)

17 marzo 2017

Secondo clarino (1)



Al mondo esiste soltanto una cosa
peggiore di un tipo che suona il clarino.
Due tipi che suonano il clarino.

(Woody Allen)









Mangio le uova direttamente dal padellino, l’ho appoggiato sopra uno di questi sottopentola quasi in sughero acquistato per qualche migliaio di lire in uno di questi negozi svedesi quasi di mobili. La tivù, a trenta centimetri da me, non passa niente di buono. L’audio è sul mute, in ogni caso, non vorrei non sentire il telefono.
È venerdì sera e verso le nove e mezza mi chiamerà Walter che attaccherà con la solita solfa del come stai come non stai, del cosa fai e del cosa non fai, del dove andremo a suonare e del dove non andremo a suonare. Una patetica solfa inascoltabile!
Proprio quello che ci vuole per tenerti su di morale: diventare tenutario del segreto luogo dove andare a soffiare dentro al mio nero-argento di un secondo clarino della banda Ottorino Respighi.
È ottobre, quasi novembre, e le sagre impazzano. Almeno fosse un tempo che invoglia. Dal cinghiale al fungo porcino, dalla polenta al tartufo, dall’uva al fagiolo borlotto… e noi in su e in giù per le stradine di uno sperduto paesino a suonare e a battere i denti, incastrati nelle nostre belle camicie bianche e nelle nostre giacchettine bordò quasi di lana dai bottoni lucenti quasi dorati.
Alla tele adesso c’è una specie di asta artistica. Un tipo impomatato, con occhialini tondi quasi da finocchio intellettuale, sta mostrando quella che dovrebbe essere un’opera d’arte contemporanea: un appiccicaticcio di lattine schiacciate. Birre e coca-cole compresse e tenute su - dio sa come! - pronte ad essere appese a faccia vista su una parete della vostra casa. Mi chiedo a chi possa venire in mente di ideare e realizzare una tale schifezza, e mi chiedo come sia possibile che una qualche casa d’aste pensi di venderla senza incappare nel reato di crimini contro l’umanità, e mi chiedo da dove possa sbucare il pollo che telefonerà per buttare via una trentina di milioni di lire per un ammasso di latte spiaccicate. E mi chiedo anche perché un cristiano che mai si metterebbe all’anima di realizzare, tentar di vendere o tantomeno comprare quest’opera qua, possa restare incantato, per un tempo indefinito, da questo penoso rito promanato via etere. Poi struscio il padellino con un pezzo di pane e passo agli atti la pratica cena.
Capita che Walter chiami anche prima delle nove e mezza, ma di solito è preciso. Quindi aspetto. Davanti al teleschermo muto che sparpaglia condensati di raccolte differenziate rifiuti in guisa di capolavori nei buoni salotti di quella mezza Italia di collezionisti aristocratici. Dal greco aristos.
Non lo so di preciso quand’è che ho cominciato a suonare il clarino, né perché o per fare contento chi. So esattamente quando l’ho suonato per l’ultima volta: domenica scorsa, a Vicchio. Non ho intenzione di prenderlo più in mano. Chiami pure Walter e attacchi con la sua bella solfettina del come butta e del come non butta, è deciso: niente più sputazzate dentro al clarinetto per me, niente più bande musicali né dannate sagre paesane per tutto il resto della mia schifosa vita.
Non che ci sia un gran resto, per la verità. Un’altra ventina d’anni, trenta a dire tanto. Una pisciata. E non la voglio passare a monta e smonta il clarino e asciuga la saliva e ascolta la solfa di Walter e sonacchia qualche marcetta in una quasi festa paesana del circondario. Scordàtevelo!
Non sto esagerando, la vita del secondo clarino è poi questa, suppergiù.

(prosegue qui)

16 marzo 2017

Come te nessuno mail


Io ero uno di quelli che se mi alzavo alle tre di notte per andare a pisciare accendevo il computer per vedere se m'era arrivata un'email.
Non sai mai ho vinto qualche cosa, non sai mai il cugino dell'Anto dall'Australia, non sai mai un amico insonne. Non sai mai.
Erano i tempi che con un C'è posta per te c'hanno fatto pure un film, con Meg Ryan e Tom Hanks - per tacere di Maria in tv.
Ora al massimo potrebbe starci un b-movie: C'è spam per te, magari con Gassman e la Crescentini, per i bellissimi di ReteQuattro con la Folliero (!) che ce lo introduce.
La vera soddisfazione al giorno d'oggi è riuscire a disiscriversi da tutte le newsletter, riuscire a indirizzare nell'indesiderata tutta la fuffa, collegarsi e vedere 0 (ZE-RO) messaggi da leggere.
Ieri mi è successo, per la prima volta.
Ho pianto.
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p.s. un grazie speciale va a Elena R centesima lettrice de La Linea! Ci son voluti quasi 7 anni e 632 messaggi, di questo passo nel 2080 avremo 1.000 lettori e sarà festa grande!

15 marzo 2017

Piccolo spazio pubblicità

Ovverosia le cose meglio comprate nell'ultimo anno.

Fondamentalmente due.
1 (UNO) - Lo schiacciapatate:

Lo sapevo che mi serviva, da anni, - e qualcuno me l'aveva pure detto! - per schiacciare le patate del purè e per trafilare la mozzarella della pizza. Troppo comodo, eppure traccheggiavo.
Era il prezzo a frenarmi, dai 15 ai 20 euro dalle mie parti.
Poi al mercato di Nardò ho rotto gli indugi e l'ho preso, per 5 miserevoli euri.
Mai più senza!

2 (DUE) - L'aspiragocce della Vileda, 'sto robo qua:

Non so voi ma io le mattine d'inverno morivo di mani ghiacce con la spatola e la spugnina a tirar via la condensa dalle finestre, ma anche qui ne facevo una questione di pecunia, mi pareva caro a 40 euri.
E invece li vale tutti, facile, preciso, efficiente.
Mai piuissimo senza.


13 marzo 2017

Sandalini con gli occhi e un cane

(copyright LaDonnaCamèl)
Prima li odiavo i sandalini con gli occhi, troppo blu, troppo comuni, troppo da domenica alla messa e shhh stai zitta.
Non ci riuscivo a correre bene e Marco, Stefano e gli altri di via Goito mi lasciavano sempre indietro, con le loro scarpe di tela, fiche e mezzo strappate.
Un pregio ce l'avevano però, i sandalini con gli occhi: la sera quando ti toglievi i calzini, ti trovavi sulla pelle dei piedi gli occhi dipinti dalla polvere, ed era dallo spessore dello strato di polvere e dall'intensità della macchia che potevi valutare senza rischio di sbagliare la tua giornata da zero a cento, da sprecata a vissuta.
Era un vero peccato lavarsi i piedi.
Ma poi, quella volta là, la mamma me ne ha presi un paio chiari, panna per la precisione.
E lì ho fatto un passo per diventare una ragazzina perbene o quello che sono adesso, e ho cominciato a lasciarli correre Marco e Stefano.
Non c'era mica da sporcarli i sandalini con gli occhi, volevo metterli e basta, quand'anche fosse solo a messa e shhh stai zitta.
E con tutto che ero più affezionata a Fuffi che a Cinzia, quando il mio cucciolo me li ha fatti a brandelli, ecco lì c'è stato un tempo in cui ho voluto davvero più bene a mia sorella che al cane.
Ma saranno stati un paio di giorni.

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Dedicated to Bianca (mi sono permesso)


12 marzo 2017

Il pistolero di graniglia


C'era una brutta faccia nel pavimento di graniglia della cucina.
Stava vicino alla porta-finestra sul retro, era il volto triangolare di quello che avresti detto un omaccione corpulento e severo, seppure era solo una brutta faccia. E magari nemmeno.
Era verdastra, screziata di rughe scavate dal sole: era la faccia di un pistolero.
Potevo sentire il cigolare della diligenza, i cavalli sbuffare e lo sciacquettio metallico degli speroni dentro quell'universo bidimensionale di cemento e frattaglie di marmo.
E quando ero fortunato sentivo gli spari.
Non che fosse mio amico, il pistolero, ma certo nel mio mondo inscatolato di bambino era un'entità percepibile.
Era persino troppo discreto per aspirare al ruolo di compagno di giochi, però se avevi bisogno di un simulacro poligonale di faccia con cui scambiare un pensiero, nelle ore infinite trascorse davanti alla porta aspettando che spiovesse, lui stava lì: spiaccicato e severo, oltreché calpestabile.
Ci potevi contare su di lui, sul suo profilo, sui capelli adagiati sul capo e sulla sua basetta nera.
Stava tutta in quella basetta curata la sua usurpata umanità: non c'era propriamente nemmeno un orecchio, ma c'era una basetta da pistolero con tutti i crismi.

Il pavimento non è mai stato cambiato, ha la splendente eternità degli anni settanta e il sole ci fa ancora il suo giro a lancetta sopra, eppure non lo vedo più il pistolero. Nemmeno adesso che sento l'insana voglia di parlare con qualcuno.
E allora cerco un sostituto su un'altra piastrella, sfido l'impiantito da un diverso punto di vista, provo a penetrare nei suoni disperati di un affollato saloon, ma tutto quello che il mio mondo sconfinato di adulto mi consente di vedere è lo spargimento casuale e indistinto di scarti di marmo e melanconia a buon mercato.

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