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11 gennaio 2018
Il morbo di quel tedesco là
Negli interstizi dei miei deliri, quando guardo mia mamma, mi capita di pensare a cosa possa aver scatenato il morbo.
Certo, l'Alzheimeir vien così, se te lo becchi te lo tieni, fine.
Epperò chissà magari ci potrebbe essere una relazione con un comportamento tenuto in vita che ne agevola l'insorgere.
E allora penso alle cose di cui mia mamma può avere abusato che, essenzialmente, sono due: i fritti e la chiesa.
Con questo non voglio dire nulla eh... né sfidare i guru della medicina e della ricerca.
Voglio solo dire fritti e chiesa, chiesa e fritti, poi fate voi.
Ci sta che uno due faccia male, forse anche tutti e due.
p.s. questo post non costituisce materiale medico ufficiale, in caso di sintomi persistenti consultare un medico, sempre che vi ricordiate.
4 luglio 2013
L'ospedale delle formiche
Chi non ha mai fatto l'ospedale delle formiche scagli il primo chicco di grano.
No davvero, io mi ci divertivo e dolcemetà pure, nella vita sua.
'Sti (*) formiconi neri, quando erano liberi da altre attività s'intende, li potevi ricoverare ed eran perfetti.
Pazienti, manco per idea, a dirla tutta, cercavano di scappare da ogni parte e allora, per rendere magari più credibile la loro degenza coatta, si era costretti a stroncare loro qualche gambina (dolcemetà nega questa pratica ma solo perché teme ritorsioni degli animalisti, dei Cinesi, e degli animalisti cinesi).
Così, con qualche arto acciaccato, riuscivamo a trattenerle per un po' di tempo nel letto a foglia d'edera preparato per loro con tutto l'amore, anche se poi se la svignavano lo stesso, zoppicando e senza nemmeno firmare le dimissioni.
Stamani France partendo per i centri estivi era visibilmente eccitato e contento e al nostro indagare ci ha spiegato che oggi, con il caro amico Guido, avevano in programma la realizzazione di un ospedale per formiche e se n'è uscito portandosi via il tappo del latte da utilizzare come barella.
Ah, piume delle nostre piume!
(*) Domanda per cruscofili: tipo ma se io, come in questo caso, la lettera che dovrei scrivere in maiuscolo la elido (Q) e metto solo la seconda parte della parola, ha senso che ammaiuscoli la S, oppure no?
No davvero, io mi ci divertivo e dolcemetà pure, nella vita sua.
'Sti (*) formiconi neri, quando erano liberi da altre attività s'intende, li potevi ricoverare ed eran perfetti.
Pazienti, manco per idea, a dirla tutta, cercavano di scappare da ogni parte e allora, per rendere magari più credibile la loro degenza coatta, si era costretti a stroncare loro qualche gambina (dolcemetà nega questa pratica ma solo perché teme ritorsioni degli animalisti, dei Cinesi, e degli animalisti cinesi).
Così, con qualche arto acciaccato, riuscivamo a trattenerle per un po' di tempo nel letto a foglia d'edera preparato per loro con tutto l'amore, anche se poi se la svignavano lo stesso, zoppicando e senza nemmeno firmare le dimissioni.
Stamani France partendo per i centri estivi era visibilmente eccitato e contento e al nostro indagare ci ha spiegato che oggi, con il caro amico Guido, avevano in programma la realizzazione di un ospedale per formiche e se n'è uscito portandosi via il tappo del latte da utilizzare come barella.
Ah, piume delle nostre piume!
(*) Domanda per cruscofili: tipo ma se io, come in questo caso, la lettera che dovrei scrivere in maiuscolo la elido (Q) e metto solo la seconda parte della parola, ha senso che ammaiuscoli la S, oppure no?
21 novembre 2012
Il tempo di una minestrina
L'alzheimer si è arrampicato sulla vita di mia madre come un lento ma inarrestabile autunno alle prese con una pianta testarda.
All’inizio della stagione mia madre era ancora un albero forte e rigoglioso e, per quanto sola, pareva potersela cavare, anzi, a tratti sembrava invincibile. Ma io sapevo già che non avrei potuto arrestare il moto di rivoluzione della sua mente e l’avvicinarsi inesorabile di altre stagioni, più fredde.
Via via vedi le giornate che si fanno più corte e la tendenza in calo della luminosità si abbatte feroce sullo spirito che ti anima e lo fiacca.
L’albero dapprima si fa colorito, muta, diventa quasi più affascinante, creativo. Si veste di colori improbabili e s'imbelletta come dovesse andare in scena, ma dentro, di fatto, sta morendo. E quindi si spoglia, serenamente, perde la sua chioma, i suoi ricordi, il suo senso. Pur se non le vedi cadere le foglie, ogni giorno l’albero ne perde alcune e la sua figura contro il sole s’impoverisce fino a rassomigliare sempre più a uno scheletro affranto e defraudato della linfa.
Ed è un autunno crudele che va a conficcarsi profondo come una spada nel cuore di un inverno gelido e cupo.
La differenza con l’alternarsi delle stagioni sulla Terra sta nel fatto che l’inverno dell’Alzheimer non produrrà più alcuna primavera. Non una gemma sarà in grado di fiorire sui rami secchi di mia madre. Non una gemma.
E questa è la prima cosa che devi accettare, per non morire anche tu con lei.
La Rai sembra essersi ricordata di avere un archivio da qualche parte e in queste serate fredde passa le storiche comiche di Stanlio e Ollio. La musica che arriva dal televisore, a differenza delle immagini che mia madre non recepisce più, le viene veicolata su una frequenza balzana della sua testa che a sprazzi la riceve, e allora lei inizia una strana danza sulla sedia: ballonzola puntando i piedi a terra e lo fa a tempo di musica anche se non si accorge davvero di nessuna melodia. Gli effetti del movimento invece la fanno sorridere e confezionano un omaggio involontario e sublime alle rigorose sequenze in bianco e nero animate da Laurel e Hardy.
Sono gli occhi di mia madre che ne tradiscono l'assenza.
Dietro la corteccia del suo sguardo acquoso c'è un tronco cavo, un cervello che non timbra più il cartellino. E c'è un'anima alla deriva, dispersa dentro alle falde di una irriconoscente vita.
Mia madre si nutre come un automa portandosi alla bocca quello che si trova davanti nel piatto, ma guarda il nulla.
E sono gli stessi occhi nei quali baluginava un lampo di felicità, quando, in un'altra sua vita, inciampava in una rima e correva a vergare un verso sul suo quadernetto nero di poesie. Ci teneva a precisare che aveva fatto la quinta elementare, mia madre, e che per questo il suo scrivere era povero di vocaboli e ricco di errori. Te la vedevo arrivare, quaderno in mano, fiduciosa che le potessi aggiustare le sue sviste ortografiche.
«Mi riguardi le acche?» era la sua frase tipica, non avendo mai ben compreso quando inserire e quando no la strabenedetta lettera muta.
Sta finendo la sua minestrina, finalmente in pausa dagli ormai abitudinari sproloqui, combatte col brodo che le cola lungo il mento e lo vince, con un piccolo miracolo, asciugandolo col dorso della mano.
Stacco dal muro la cornice di legno nella quale ha incastonato una poesia che le è particolarmente cara: sono i versi che parlano della sua di madre e che stanno lì da quando è morta, o poco dopo.
La demenza senile ha colpito senza pietà in famiglia mia e l'ereditarietà ci trasferisce il gene malato con una dolcezza spietata. C’è chi con la dipartita dei suoi cari entra in possesso di castelli, ori e conti correnti svizzeri e chi, come noi, si trova al cospetto di un magnanimo notaio che aprendo il testamento legge:
«Lascio l’Alzheimer alla mia adorata progenie».
Con tristezza io ti guardo, o mamma
È scritta proprio così, con una "o" a rafforzare il vocativo, uno "o" sospirosa, una "o" che ricorre più volte nella poesia, sempre senza l'acca.
Con dolore mi si stringe il cuore
dove c'era amore ora non sai cos'è.
Parole rimaste appese per vent'anni in salotto senza un lettore attento, senza un giusto plauso, abbandonate a se stesse, pur nella loro sofisticata veste. Guardo la mia di mamme, mi rimanda un’occhiata vuota d'amore nel mancato riverbero di quei sentimenti già compresi e descritti con passione da lei stessa nelle sue mille poesie.
Parole come quelle che adesso schizzano fuori come lapilli da un vulcano. Ci sono momenti in cui per zittirla dovresti spararle. Parla e sparla, blatera e sragiona, sproloquia e sentenzia, sputa e s’inventa le parole di un personale argot che tende a tagliarci fuori dalle volute dei suoi pensieri.
Assonanze buffe e accentazioni improprie completano la creazione di sempre nuovi ed effimeri vocaboli che durano lo spazio di una frase buttata lì o del soffio lieve di una parola.
Così un "voglio andare a letto" può diventare un "Boggio dare abbento" e un "Hai mangiato?" si trasforma in "Cai mammato?" e poi friccito, leboli, stembari, gruttalo, sembio, lavarna e rundili, solo per citare quelle di stasera, assemblate nel tempo di una minestrina.
E queste sono perle capaci di regalarti pure un sorriso, anche quando la voglia di sorridere non ce l’hai più perché hai visto la volontà strappata via a morsi dalla mente di tua madre.
Dove c'era un sorriso qualche volta c'è
però non sai conoscer più le cose
Resta lì, la mia mamma, imbambolata con il cucchiaio in mano, come fosse la prima volta, lo rigira come se potesse parlarle, lo posa come se potesse da solo caricarsi di minestra e trasportargliela in bocca.
L'unica attività che ancora riesce a impegnarla per qualche minuto sono gli album di fotografie. Niente tivù, niente libri, impossibili le chiacchiere ovviamente, ma le foto le ripassa centinaia di volte avanti e indietro, le setaccia nella disperata e vana ricerca di un volto, di un nome o di uno straccio di ricordo. Marito, figli, nipoti, tutti accomunati da un non amore estremo, accarezzati da una vista assente e profanati da una memoria cattiva, capace di cancellare la vita in un minuto, come si fa col gesso dalla lavagna.
Se ti chiamo Mamma
tu mi guardi e non mi rispondi mai
non lo sai se i figli tu hai
Coll'acca, ce l'ha messa, una bella acca possessiva che segna il contrappasso tra l’avere dei figli e non essere più in grado di percepirlo.
Alla fine resta un irragionevole vuoto scavato dall’amore per un figlio che nemmeno sa di avere. Quel figlio per cui ha sofferto e corso e lottato e pianto e sperato e sbroccato e desiderato e pregato, quanto ha pregato lo sa Dio, davvero, per quel figlio, quel figlio che non ha più un posto nel suo cuore pulsante ma morto, nella sua testa bucherellata e senza speranze. Quel figlio che ha stretto forte quando piangeva, per una ferita, per un voto, per una ragazza, quel figlio che non ha più un posto tra le sue braccia. Quel figlio.
Tu che parli con lo specchio, eppure
a ripensarci, o mamma, tu sei sempre quella.
Ci ripenso alla mia mamma, alla sua lotta con la punteggiatura, perché non li ha mai capiti quei versi moderni senza un punto, senza una virgola. Come si fanno a leggere se non sai nemmeno dove prendere fiato?
«Mi riguardi le acche? E anche i punti e le virgole».
E io punteggiavo come potevo, poi inserivo o cassavo acche, alla bisogna. Ma che palle, pensavo. Quanto scriveva mia madre! E quante volte mi si parava davanti col quaderno o con un foglio strappato chissà da dove, una penna e il suo sguardo schietto. Non che implorasse un aiuto, si trattava soltanto d’una richiesta da madre a figlio. Come avrebbe potuto chiedermi dov'ero stato o cosa volevo per pranzo, eccola che arrivava, con le sue carabattole da poetessa contadina, a domandare una correzione a quel figlio fortunato che venivano a prenderlo con lo scuolabus giallo fino in culo al mondo, dove stavamo prima, per portarlo a scuola a studiare di acche e di virgole.
eppur sei come cosa che cammina
non sei più niente, o mamma.
Chissà se un giorno, il mio di figli, prendendo in mano questo scritto comprenderà il suo destino o se l'avrà magari già capito da solo. Chissà se avrà paura o se accetterà l’ineluttabile con la pacata rassegnazione e la dignità che ci passiamo in eredità, assieme al morbo. E chissà quali pensieri s’incroceranno nella sua mente, guardandomi, nel tempo di una minestrina.
il cuore mio lo sente e si tormenta
anche se cerco di non dargli retta
questa sarà la strada che mi aspetta.
Passiamo dal bagno per il tagliando serale e uscendo salutiamo quei due, la signora coi capelli grigi minuta e un po’ ingobbita che risponde al sorriso di mia madre e il ragazzone barbuto che la sorregge con le mani sotto le ascelle e sghembo sorride, anche lui.
«O, guarda chi c'è – sorriso – allora arrivederci, eh», poi saluto anch'io le due sagome dentro allo specchio e mi porto avanti coi lavori.
Quindi siamo in camera dove aiuto la mamma a cambiarsi per la notte. Mentre le tengo la giacca del pigiama, la osservo che agguanta la manica della camiciola con le dita e la tiene stretta, affinché non le scivoli su, lungo il braccio, infilando la giacca.
È una foglia dell’albero, questo gesto, una delle ultime foglie rimaste appese, e io lo so che un giorno cadrà pure questa, ma ancora no. Ancora no.
All’inizio della stagione mia madre era ancora un albero forte e rigoglioso e, per quanto sola, pareva potersela cavare, anzi, a tratti sembrava invincibile. Ma io sapevo già che non avrei potuto arrestare il moto di rivoluzione della sua mente e l’avvicinarsi inesorabile di altre stagioni, più fredde.
Via via vedi le giornate che si fanno più corte e la tendenza in calo della luminosità si abbatte feroce sullo spirito che ti anima e lo fiacca.
L’albero dapprima si fa colorito, muta, diventa quasi più affascinante, creativo. Si veste di colori improbabili e s'imbelletta come dovesse andare in scena, ma dentro, di fatto, sta morendo. E quindi si spoglia, serenamente, perde la sua chioma, i suoi ricordi, il suo senso. Pur se non le vedi cadere le foglie, ogni giorno l’albero ne perde alcune e la sua figura contro il sole s’impoverisce fino a rassomigliare sempre più a uno scheletro affranto e defraudato della linfa.
Ed è un autunno crudele che va a conficcarsi profondo come una spada nel cuore di un inverno gelido e cupo.
La differenza con l’alternarsi delle stagioni sulla Terra sta nel fatto che l’inverno dell’Alzheimer non produrrà più alcuna primavera. Non una gemma sarà in grado di fiorire sui rami secchi di mia madre. Non una gemma.
E questa è la prima cosa che devi accettare, per non morire anche tu con lei.
La Rai sembra essersi ricordata di avere un archivio da qualche parte e in queste serate fredde passa le storiche comiche di Stanlio e Ollio. La musica che arriva dal televisore, a differenza delle immagini che mia madre non recepisce più, le viene veicolata su una frequenza balzana della sua testa che a sprazzi la riceve, e allora lei inizia una strana danza sulla sedia: ballonzola puntando i piedi a terra e lo fa a tempo di musica anche se non si accorge davvero di nessuna melodia. Gli effetti del movimento invece la fanno sorridere e confezionano un omaggio involontario e sublime alle rigorose sequenze in bianco e nero animate da Laurel e Hardy.
Sono gli occhi di mia madre che ne tradiscono l'assenza.
Dietro la corteccia del suo sguardo acquoso c'è un tronco cavo, un cervello che non timbra più il cartellino. E c'è un'anima alla deriva, dispersa dentro alle falde di una irriconoscente vita.
Mia madre si nutre come un automa portandosi alla bocca quello che si trova davanti nel piatto, ma guarda il nulla.
E sono gli stessi occhi nei quali baluginava un lampo di felicità, quando, in un'altra sua vita, inciampava in una rima e correva a vergare un verso sul suo quadernetto nero di poesie. Ci teneva a precisare che aveva fatto la quinta elementare, mia madre, e che per questo il suo scrivere era povero di vocaboli e ricco di errori. Te la vedevo arrivare, quaderno in mano, fiduciosa che le potessi aggiustare le sue sviste ortografiche.
«Mi riguardi le acche?» era la sua frase tipica, non avendo mai ben compreso quando inserire e quando no la strabenedetta lettera muta.
Sta finendo la sua minestrina, finalmente in pausa dagli ormai abitudinari sproloqui, combatte col brodo che le cola lungo il mento e lo vince, con un piccolo miracolo, asciugandolo col dorso della mano.
Stacco dal muro la cornice di legno nella quale ha incastonato una poesia che le è particolarmente cara: sono i versi che parlano della sua di madre e che stanno lì da quando è morta, o poco dopo.
La demenza senile ha colpito senza pietà in famiglia mia e l'ereditarietà ci trasferisce il gene malato con una dolcezza spietata. C’è chi con la dipartita dei suoi cari entra in possesso di castelli, ori e conti correnti svizzeri e chi, come noi, si trova al cospetto di un magnanimo notaio che aprendo il testamento legge:
«Lascio l’Alzheimer alla mia adorata progenie».
Con tristezza io ti guardo, o mamma
È scritta proprio così, con una "o" a rafforzare il vocativo, uno "o" sospirosa, una "o" che ricorre più volte nella poesia, sempre senza l'acca.
Con dolore mi si stringe il cuore
dove c'era amore ora non sai cos'è.
Parole rimaste appese per vent'anni in salotto senza un lettore attento, senza un giusto plauso, abbandonate a se stesse, pur nella loro sofisticata veste. Guardo la mia di mamme, mi rimanda un’occhiata vuota d'amore nel mancato riverbero di quei sentimenti già compresi e descritti con passione da lei stessa nelle sue mille poesie.
Parole come quelle che adesso schizzano fuori come lapilli da un vulcano. Ci sono momenti in cui per zittirla dovresti spararle. Parla e sparla, blatera e sragiona, sproloquia e sentenzia, sputa e s’inventa le parole di un personale argot che tende a tagliarci fuori dalle volute dei suoi pensieri.
Assonanze buffe e accentazioni improprie completano la creazione di sempre nuovi ed effimeri vocaboli che durano lo spazio di una frase buttata lì o del soffio lieve di una parola.
Così un "voglio andare a letto" può diventare un "Boggio dare abbento" e un "Hai mangiato?" si trasforma in "Cai mammato?" e poi friccito, leboli, stembari, gruttalo, sembio, lavarna e rundili, solo per citare quelle di stasera, assemblate nel tempo di una minestrina.
E queste sono perle capaci di regalarti pure un sorriso, anche quando la voglia di sorridere non ce l’hai più perché hai visto la volontà strappata via a morsi dalla mente di tua madre.
Dove c'era un sorriso qualche volta c'è
però non sai conoscer più le cose
Resta lì, la mia mamma, imbambolata con il cucchiaio in mano, come fosse la prima volta, lo rigira come se potesse parlarle, lo posa come se potesse da solo caricarsi di minestra e trasportargliela in bocca.
L'unica attività che ancora riesce a impegnarla per qualche minuto sono gli album di fotografie. Niente tivù, niente libri, impossibili le chiacchiere ovviamente, ma le foto le ripassa centinaia di volte avanti e indietro, le setaccia nella disperata e vana ricerca di un volto, di un nome o di uno straccio di ricordo. Marito, figli, nipoti, tutti accomunati da un non amore estremo, accarezzati da una vista assente e profanati da una memoria cattiva, capace di cancellare la vita in un minuto, come si fa col gesso dalla lavagna.
Se ti chiamo Mamma
tu mi guardi e non mi rispondi mai
non lo sai se i figli tu hai
Coll'acca, ce l'ha messa, una bella acca possessiva che segna il contrappasso tra l’avere dei figli e non essere più in grado di percepirlo.
Alla fine resta un irragionevole vuoto scavato dall’amore per un figlio che nemmeno sa di avere. Quel figlio per cui ha sofferto e corso e lottato e pianto e sperato e sbroccato e desiderato e pregato, quanto ha pregato lo sa Dio, davvero, per quel figlio, quel figlio che non ha più un posto nel suo cuore pulsante ma morto, nella sua testa bucherellata e senza speranze. Quel figlio che ha stretto forte quando piangeva, per una ferita, per un voto, per una ragazza, quel figlio che non ha più un posto tra le sue braccia. Quel figlio.
Tu che parli con lo specchio, eppure
a ripensarci, o mamma, tu sei sempre quella.
Ci ripenso alla mia mamma, alla sua lotta con la punteggiatura, perché non li ha mai capiti quei versi moderni senza un punto, senza una virgola. Come si fanno a leggere se non sai nemmeno dove prendere fiato?
«Mi riguardi le acche? E anche i punti e le virgole».
E io punteggiavo come potevo, poi inserivo o cassavo acche, alla bisogna. Ma che palle, pensavo. Quanto scriveva mia madre! E quante volte mi si parava davanti col quaderno o con un foglio strappato chissà da dove, una penna e il suo sguardo schietto. Non che implorasse un aiuto, si trattava soltanto d’una richiesta da madre a figlio. Come avrebbe potuto chiedermi dov'ero stato o cosa volevo per pranzo, eccola che arrivava, con le sue carabattole da poetessa contadina, a domandare una correzione a quel figlio fortunato che venivano a prenderlo con lo scuolabus giallo fino in culo al mondo, dove stavamo prima, per portarlo a scuola a studiare di acche e di virgole.
eppur sei come cosa che cammina
non sei più niente, o mamma.
Chissà se un giorno, il mio di figli, prendendo in mano questo scritto comprenderà il suo destino o se l'avrà magari già capito da solo. Chissà se avrà paura o se accetterà l’ineluttabile con la pacata rassegnazione e la dignità che ci passiamo in eredità, assieme al morbo. E chissà quali pensieri s’incroceranno nella sua mente, guardandomi, nel tempo di una minestrina.
il cuore mio lo sente e si tormenta
anche se cerco di non dargli retta
questa sarà la strada che mi aspetta.
Passiamo dal bagno per il tagliando serale e uscendo salutiamo quei due, la signora coi capelli grigi minuta e un po’ ingobbita che risponde al sorriso di mia madre e il ragazzone barbuto che la sorregge con le mani sotto le ascelle e sghembo sorride, anche lui.
«O, guarda chi c'è – sorriso – allora arrivederci, eh», poi saluto anch'io le due sagome dentro allo specchio e mi porto avanti coi lavori.
Quindi siamo in camera dove aiuto la mamma a cambiarsi per la notte. Mentre le tengo la giacca del pigiama, la osservo che agguanta la manica della camiciola con le dita e la tiene stretta, affinché non le scivoli su, lungo il braccio, infilando la giacca.
È una foglia dell’albero, questo gesto, una delle ultime foglie rimaste appese, e io lo so che un giorno cadrà pure questa, ma ancora no. Ancora no.
11 aprile 2012
Tu mi fai girar
È un periodo che mi gira un po' i'ccapo, come si dice da noi.
Ho tipo degli sbandamenti, ecco. Direi una sorta di labirintite, per quello che ho sentito sui suoi sintomi in passato. Ma potrebbe essere anche altro. Soffro di vertigini stando a terra.
A Natale sono svenuto, per dire, una notte che ero sceso di corsa per spegnere l'allarme partito senza motivo, son crollato come una pera all'indietro, mezzo sul termosifone (elementi rotondi) e mezzo sul presepe (muschio vero).
Me la son cavata a buon mercato e ho potuto raccontare per tutte le feste un aneddoto che destava un certo interesse.
La pressione stava a posto.
Poi ho avuto qualche problema, tipo una mattina che non ero in grado di alzarmi dal letto perché, come inclinavo la testa per tirarla su, mi strottolava il mondo mondiale.
È andata che mi sora mi ha rifilato mezza scatola di pillole per la labirintite e, per queste o per altro, mi son sentito meglio e ho evitato il passaggio dal dottore.
Ora son quindici giorni che il fastidio si è ripresentato, seppure in forma più lieve. Fatto sta che, se abbasso la testa o la piego di lato o all'indietro, ecco che per uno/due secondi mi gira la testa, anche se lo faccio adesso.
Allora ho imparato a tenere il collo simil ingessato nei momenti cruciali, tipo se sto in motorino, se gioco a tennis o se discorro del più e del meno con la Cucinotta.
Insomma, mi sono adattato. Se sto a letto, mi giro e mi rivolto senza problemi, tutt'al più non mi alzo, ma se ho intenzione d'intraprendere un'attività complicata, come attraversare a piedi una corda tesa tra due grattacieli, ecco che faccio attenzione a non sottoporre le mie vertebre cervicali a movimenti bruschi, così da non rischiare di perdere i sensi.
E questo mio adeguarmi alla situazione, allo stato delle cose, mi ricorda un periodo in cui guidavo con maestria una vespa che praticamente non aveva freni, e mi sentivo parecchio fico.
Comunque, dai, non fatemi andare dal mio medico... c'è un dottore in sala?
(Foto: Philippe Petit - Man on wire)
Ho tipo degli sbandamenti, ecco. Direi una sorta di labirintite, per quello che ho sentito sui suoi sintomi in passato. Ma potrebbe essere anche altro. Soffro di vertigini stando a terra.
A Natale sono svenuto, per dire, una notte che ero sceso di corsa per spegnere l'allarme partito senza motivo, son crollato come una pera all'indietro, mezzo sul termosifone (elementi rotondi) e mezzo sul presepe (muschio vero).
Me la son cavata a buon mercato e ho potuto raccontare per tutte le feste un aneddoto che destava un certo interesse.
La pressione stava a posto.
Poi ho avuto qualche problema, tipo una mattina che non ero in grado di alzarmi dal letto perché, come inclinavo la testa per tirarla su, mi strottolava il mondo mondiale.
È andata che mi sora mi ha rifilato mezza scatola di pillole per la labirintite e, per queste o per altro, mi son sentito meglio e ho evitato il passaggio dal dottore.
Ora son quindici giorni che il fastidio si è ripresentato, seppure in forma più lieve. Fatto sta che, se abbasso la testa o la piego di lato o all'indietro, ecco che per uno/due secondi mi gira la testa, anche se lo faccio adesso.
Allora ho imparato a tenere il collo simil ingessato nei momenti cruciali, tipo se sto in motorino, se gioco a tennis o se discorro del più e del meno con la Cucinotta.
Insomma, mi sono adattato. Se sto a letto, mi giro e mi rivolto senza problemi, tutt'al più non mi alzo, ma se ho intenzione d'intraprendere un'attività complicata, come attraversare a piedi una corda tesa tra due grattacieli, ecco che faccio attenzione a non sottoporre le mie vertebre cervicali a movimenti bruschi, così da non rischiare di perdere i sensi.
E questo mio adeguarmi alla situazione, allo stato delle cose, mi ricorda un periodo in cui guidavo con maestria una vespa che praticamente non aveva freni, e mi sentivo parecchio fico.
Comunque, dai, non fatemi andare dal mio medico... c'è un dottore in sala?
(Foto: Philippe Petit - Man on wire)
13 marzo 2012
Venga dotto'
C’era una stagione in cui il medico di famiglia, quanto a onniscienza e rispetto, stava appena un gradino sotto a Dio. E a volte nemmeno.
Il medico condotto, se veniva a visitarti a domicilio perché avevi 39 di febbre, doveva trovare casa pulita e due dita di vinsanto in un bicchierino. E verso il dottore solo stima e fiducia, quando non adorazione.
Alla fine della giornata s’era tracannato per degnare quei diciotto/venti bicchierini eppure guidava ancora e non sbagliava una diagnosi ch’era una.
La famiglia si atteneva scrupolosamente a ciò che lui legiferava in fatto di comportamenti da tenere per il paziente e, soprattutto, in fatto di medicinali.
Intanto perché negli anni settanta si avevano ben altri cavoli di cui occuparsi che non lo studio dei principi attivi, ed era grasso che colava se in casa eran note l’aspirina, la cibalgina e il vicks vaporub. Ogni cristo che si rispettasse faceva il mestiere suo, e lo faceva al meglio.
E anche perché il ruolo del medico era incarnato di una sacralità che andava oltre ogni possibile parere personale, essendo modellata su principi etici radicati fin nell’anima d’Ippocrate.
Poi, abbastanza misteriosamente, la professionalità è implosa, portandosi dietro anche un impoverimento esemplare della qualifica. Il medico generico lo capisci da te che non sa un cazzo.
Eppure sono gli stessi dottori d’una volta - in taluni casi proprio la medesima persona fisica – quelli che tenevano la competenza cucita addosso e ora se la ritrovano sdrucita, a brandelli e divorata dalle tarme dello scetticismo. Sono fatalmente divenuti fallibili agli occhi della gente.
In giro è fitto di sedicenti dottorini o, comunque, di esperti che dormono con l’enciclopedia medica sotto al cuscino e che curano i propri familiari e se stessi sulla base di una ricerca su san Google motore martire, cui danno in pasto frasi del tipo vescicole purulente nella regione poplitea – che fare?
Il mestiere del medico di famiglia si sgonfia per forza se il paziente ha già l’elenco di medicine da farsi prescrivere, la lista di esami da richiedere e sa pure dove sta il poplite. Gli resta la firma, al dottore, e il prezioso ricettario rosso come residuale simbolo dell'antico potere.
Il dottore rimane informato solo per quanto riguarda i malati della vecchia guardia, quelli che trovi sempre all’ambulatorio nonostante siano afflitti solo dagli acciacchi dell’età. Quindi, scordatevi che possa tornarvi utile andare dal medico generico oggi, a meno che non vi serva uno straccio di certificato per la palestra.
Il medico condotto, se veniva a visitarti a domicilio perché avevi 39 di febbre, doveva trovare casa pulita e due dita di vinsanto in un bicchierino. E verso il dottore solo stima e fiducia, quando non adorazione.
Alla fine della giornata s’era tracannato per degnare quei diciotto/venti bicchierini eppure guidava ancora e non sbagliava una diagnosi ch’era una.
La famiglia si atteneva scrupolosamente a ciò che lui legiferava in fatto di comportamenti da tenere per il paziente e, soprattutto, in fatto di medicinali.
Intanto perché negli anni settanta si avevano ben altri cavoli di cui occuparsi che non lo studio dei principi attivi, ed era grasso che colava se in casa eran note l’aspirina, la cibalgina e il vicks vaporub. Ogni cristo che si rispettasse faceva il mestiere suo, e lo faceva al meglio.
E anche perché il ruolo del medico era incarnato di una sacralità che andava oltre ogni possibile parere personale, essendo modellata su principi etici radicati fin nell’anima d’Ippocrate.
Poi, abbastanza misteriosamente, la professionalità è implosa, portandosi dietro anche un impoverimento esemplare della qualifica. Il medico generico lo capisci da te che non sa un cazzo.
Eppure sono gli stessi dottori d’una volta - in taluni casi proprio la medesima persona fisica – quelli che tenevano la competenza cucita addosso e ora se la ritrovano sdrucita, a brandelli e divorata dalle tarme dello scetticismo. Sono fatalmente divenuti fallibili agli occhi della gente.
In giro è fitto di sedicenti dottorini o, comunque, di esperti che dormono con l’enciclopedia medica sotto al cuscino e che curano i propri familiari e se stessi sulla base di una ricerca su san Google motore martire, cui danno in pasto frasi del tipo vescicole purulente nella regione poplitea – che fare?
Il mestiere del medico di famiglia si sgonfia per forza se il paziente ha già l’elenco di medicine da farsi prescrivere, la lista di esami da richiedere e sa pure dove sta il poplite. Gli resta la firma, al dottore, e il prezioso ricettario rosso come residuale simbolo dell'antico potere.
Il dottore rimane informato solo per quanto riguarda i malati della vecchia guardia, quelli che trovi sempre all’ambulatorio nonostante siano afflitti solo dagli acciacchi dell’età. Quindi, scordatevi che possa tornarvi utile andare dal medico generico oggi, a meno che non vi serva uno straccio di certificato per la palestra.
13 gennaio 2012
Com'è profondo il mare
La storia triste, ma non del tutto (forse), di chi mi ha insegnato a leggere.
Mia cugina Fiorella è morta nel 1991, a 31 anni. Leucemia fulminante, due mesi da quando l’ha scoperto. Aveva una bimba di 5 anni che adesso è una splendida ragazza, intelligente, istintiva e brillante. E poi indipendente, come Fiorella era e come mi ha spinto a essere.
Fiorella mi ha insegnato come coltivare il libero pensiero senza inculcarmi nulla, mi ha guardato andare a messa per trent’anni senza mai un commento diretto negativo. Con l’esempio mi ha mostrato come prendere una decisione, come riconoscere un impulso vero, mio, da un condizionamento esterno, come esporre una riflessione. Fiorella mi ha aiutato a diventare me stesso.
Mi ha guardato e si è lasciata guardare negli occhi. Mi ha fatto ascoltare i suoi dischi e mi ha prestato i suoi libri. I libri. È così che ho imparato davvero a leggere. Non so, forse sarebbe successo comunque, o forse no, ma se adesso considero i libri elementi necessari alla mia stessa esistenza lo devo a un tardo pomeriggio d’estate in cui Fiorella passava Com'è profondo il mare al suo stereo, mentre dagli scaffali sceglieva i libri che mi avrebbe prestato. Anche l'inequivocabile messaggio che si trattasse di un prestito e non di un omaggio ha contribuito non poco alla formazione della mia opinione sui libri, sul loro valore e sulle dinamiche che ne regolano acquisti, prestiti e restituzioni.
Avevo 15 anni e potevo annoverare tra le mie letture solo fumetti (miei), fotoromanzi (mia sorella) e qualche libro (imposto dalla scuola); a casa mia non si leggeva.
Non ricordo tutti i volumi con i quali mia cugina stipò una borsa per me. Un paio di Luca Goldoni, La casa in collina di Pavese, Il grillo parlante di Gervaso, Bar Sport di Benni, questi sicuramente c’erano, ma l’elenco titoli non è significativo.
Decisiva fu l’aria carbonara di quel pomeriggio seduti sul suo letto, una gamba a terra e l’altra sotto il culo, la finestra spalancata sui campi e sul cicaleccio, lame di sole a straliciarsi nella stanza e Lucio Dalla in sottofondo. In un pomeriggio che non è finito mai.
È inutile
Non c'è più lavoro
Non c'è più decoro
Dio o chi per lui
Sta cercando di dividerci
Di farci del male
Di farci annegare
Com'è profondo il mare
Com'è profondo il mare
---------------------------------- edit del 26 marzo 2012 ----------------------------------------
Ecco, oggi ci son passato davanti alla casa dove abitava Fiorella, e l'ho fotografata la finestra:
Mia cugina Fiorella è morta nel 1991, a 31 anni. Leucemia fulminante, due mesi da quando l’ha scoperto. Aveva una bimba di 5 anni che adesso è una splendida ragazza, intelligente, istintiva e brillante. E poi indipendente, come Fiorella era e come mi ha spinto a essere.
Fiorella mi ha insegnato come coltivare il libero pensiero senza inculcarmi nulla, mi ha guardato andare a messa per trent’anni senza mai un commento diretto negativo. Con l’esempio mi ha mostrato come prendere una decisione, come riconoscere un impulso vero, mio, da un condizionamento esterno, come esporre una riflessione. Fiorella mi ha aiutato a diventare me stesso.
Mi ha guardato e si è lasciata guardare negli occhi. Mi ha fatto ascoltare i suoi dischi e mi ha prestato i suoi libri. I libri. È così che ho imparato davvero a leggere. Non so, forse sarebbe successo comunque, o forse no, ma se adesso considero i libri elementi necessari alla mia stessa esistenza lo devo a un tardo pomeriggio d’estate in cui Fiorella passava Com'è profondo il mare al suo stereo, mentre dagli scaffali sceglieva i libri che mi avrebbe prestato. Anche l'inequivocabile messaggio che si trattasse di un prestito e non di un omaggio ha contribuito non poco alla formazione della mia opinione sui libri, sul loro valore e sulle dinamiche che ne regolano acquisti, prestiti e restituzioni.
Avevo 15 anni e potevo annoverare tra le mie letture solo fumetti (miei), fotoromanzi (mia sorella) e qualche libro (imposto dalla scuola); a casa mia non si leggeva.
Non ricordo tutti i volumi con i quali mia cugina stipò una borsa per me. Un paio di Luca Goldoni, La casa in collina di Pavese, Il grillo parlante di Gervaso, Bar Sport di Benni, questi sicuramente c’erano, ma l’elenco titoli non è significativo.
Decisiva fu l’aria carbonara di quel pomeriggio seduti sul suo letto, una gamba a terra e l’altra sotto il culo, la finestra spalancata sui campi e sul cicaleccio, lame di sole a straliciarsi nella stanza e Lucio Dalla in sottofondo. In un pomeriggio che non è finito mai.
È inutile
Non c'è più lavoro
Non c'è più decoro
Dio o chi per lui
Sta cercando di dividerci
Di farci del male
Di farci annegare
Com'è profondo il mare
Com'è profondo il mare
---------------------------------- edit del 26 marzo 2012 ----------------------------------------
Ecco, oggi ci son passato davanti alla casa dove abitava Fiorella, e l'ho fotografata la finestra:
![]() |
Casa Fiorella - via Rimaggina |
15 ottobre 2011
Eternauta - La Sindrome
Ho scoperto a 15 anni di essere affetto dalla sindrome dell'Eternauta, anche se pure prima dell'uscita in Italia di questo capolavoro argentino del fumetto ne presentavo tutti i sintomi. Però non ero riuscito a darle un nome.
Succede che quando mi trovo in un ambiente per lo più chiuso, magari in attesa di qualcosa, in coda, e con il cervello non troppo impegnato, mi capita di pensare che fuori da lì, in quel preciso istante potrebbe cominciare a nevicare.
Bello, direte voi, romantico. Col cavolo! Sto parlando della neve aliena dell'Eternauta, un'arma micidiale utilizzata proprio all'inizio della storia (e così non svelo niente per quei tre che ancora non avranno letto il fumetto di Oesterheld).
Dunque potrebbe nevicare, fiocchi che uccidono al solo contatto, una situazione che ti costringe a barricarti all'interno del luogo in cui ti trovi in quel momento per salvare la pellaccia. Dentro, chiuso, in coatta compagnia dei tuoi simili che casualmente si trovavano lì con te in quel preciso istante.
Sull'autobus, ero spesso vittima di attacchi della sindrome dell'Eternauta. Altre volte nella sala d'attesa del dottore, in discoteca, in un bar, in un negozio. E mi succede anche adesso.
Immagino poi, che il gruppo eterogeneo rinchiuso in un ambiente per difendersi dalla letale nevicata debba iniziare a fare i conti con i bisogni primari dell'uomo e, non ultimo, a preoccuparsi della riproduzione per la salvaguardia della specie.
Più banalmente si può pensare che dopo qualche giorno in clausura venga voglia di sbrigare qualche pratica di natura sessuale. E che pure le donne, in tale situazione, non se la tirino come al solito.
È qui che si sviluppano dei pensieri porcini e si scatena la valutazione dei componenti del gruppo. Nella mia testa si formano due graduatorie distinte, quella maschile e quella femminile, che mettono in fila per fascino e bellezza tutti i presenti. Io dove mi piazzo fra gli uomini? Vediamo quello è un apollo, quello guarda che fisico, due giovanotti di vent'anni, sono quinto dai, quinto non è male. Allora poi scorro le femmine presenti e vedo com'è messa la quinta in classifica perché è quella che toccherebbe a me per le incombenze scoperecce.
Dal dottore di solito la sindrome mi attanaglia la gola perché giovani donne poche se ne vedono, ma già dal pediatra la situazione si presenta spesso interessante e più di una volta mi sono sorpreso a scrutare il cielo fuori dalle finestre, nella speranza che arrivi giù questa cazzo di neve radioattiva. O quello che è.
Juan Hombre Galvez
Succede che quando mi trovo in un ambiente per lo più chiuso, magari in attesa di qualcosa, in coda, e con il cervello non troppo impegnato, mi capita di pensare che fuori da lì, in quel preciso istante potrebbe cominciare a nevicare.
Bello, direte voi, romantico. Col cavolo! Sto parlando della neve aliena dell'Eternauta, un'arma micidiale utilizzata proprio all'inizio della storia (e così non svelo niente per quei tre che ancora non avranno letto il fumetto di Oesterheld).
Dunque potrebbe nevicare, fiocchi che uccidono al solo contatto, una situazione che ti costringe a barricarti all'interno del luogo in cui ti trovi in quel momento per salvare la pellaccia. Dentro, chiuso, in coatta compagnia dei tuoi simili che casualmente si trovavano lì con te in quel preciso istante.
Sull'autobus, ero spesso vittima di attacchi della sindrome dell'Eternauta. Altre volte nella sala d'attesa del dottore, in discoteca, in un bar, in un negozio. E mi succede anche adesso.
Immagino poi, che il gruppo eterogeneo rinchiuso in un ambiente per difendersi dalla letale nevicata debba iniziare a fare i conti con i bisogni primari dell'uomo e, non ultimo, a preoccuparsi della riproduzione per la salvaguardia della specie.
Più banalmente si può pensare che dopo qualche giorno in clausura venga voglia di sbrigare qualche pratica di natura sessuale. E che pure le donne, in tale situazione, non se la tirino come al solito.
È qui che si sviluppano dei pensieri porcini e si scatena la valutazione dei componenti del gruppo. Nella mia testa si formano due graduatorie distinte, quella maschile e quella femminile, che mettono in fila per fascino e bellezza tutti i presenti. Io dove mi piazzo fra gli uomini? Vediamo quello è un apollo, quello guarda che fisico, due giovanotti di vent'anni, sono quinto dai, quinto non è male. Allora poi scorro le femmine presenti e vedo com'è messa la quinta in classifica perché è quella che toccherebbe a me per le incombenze scoperecce.
Dal dottore di solito la sindrome mi attanaglia la gola perché giovani donne poche se ne vedono, ma già dal pediatra la situazione si presenta spesso interessante e più di una volta mi sono sorpreso a scrutare il cielo fuori dalle finestre, nella speranza che arrivi giù questa cazzo di neve radioattiva. O quello che è.
Juan Hombre Galvez
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