30 marzo 2017

Le storie del frigo


Facile cercarti nell'Alfama, tra le pieghe del fado e i cani randagi o nell'odore del queijo da serra dentro ad un pastel, o magari in una casuale spolverata di cannella, perfetta come un manto stellato su un cielo di crema.

E nelle sfumature di un olio su tela nello spazio bidimensionato e feroce di un bacio infinito, rubato e restituito, ai piedi di una scala che nessuno ha intenzione di salire.

Là dove ogni giorno pioggia e vanagloria innaffiano la storia del mondo e va sempre come per Joe, che ti chiedi se devi restare o devi andare. E alla fine vai, anche se vorresti restare.

Illusorio trovarti nei recessi di un sorriso ammezzato o nelle nebbie di un risveglio frettoloso sotto a una faccia spappolata di frutta e verdura. Indecente e scontato pensare di conquistarti passando attraverso l'origine del mondo.

Come sarebbe tutto compiuto se ti avessi intravisto, riflessa, nel multiverso alterato e convesso della perla senza conchiglia di una ragazza perbene da andare a trovare in treno.

Indomito nel mio cercarti ai piedi delle montagne dal cuore viola, sotto a cieli vertiginosi e a picchi profondissimi, dentro ai dolori di una giornata di pedalate infinite zuppe di pioggia e di lacrime perdute nel tempo.

Talvolta ho pensato di averti sorpresa, correndo su una spiaggia deserta, profumata di ramblas e peperoni verdi, di fianco a miserevoli vite dedite alla rivelazione metallica di uno spiccio o di un anello, gettato via per la rabbia di un amore che amor non è più.

Avrei pensato che fosse più facile cacciarti, come si fa con il tesoro dei tesori, in giro per il mondo, quando invece stavi lì, a due metri da un frigo saccheggiato per una cena messa su in fretta. Lì, attorno a quella tavola dove si ciancia senza costrutto delle anacronistiche torri rotonde nei castelli dell'alto medioevo, di un ostinato mal di stomaco, di cuccioli bavosi dalla coda assassina, di riso bollito e di tè verde piccolo principe, di diete perseguite lo spazio di un respiro. Lì dove si ciancia di capelli da tagliare o del vento che tira da nord, del trapezio rettangolo e di spaventose gru da cantiere.
Dei viaggi da fare e di quelli che non faremo.

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E i vostri frigo, la raccontano una storia?
Grazie a plus1gmt per lo spunto.

28 marzo 2017

E voi lo conoscete il segreto dei pigmenti duraturi?

(segue da Questo è un romanzo magnifico, Signori della Corte)

E nel caso lo conosceste il segreto dei pigmenti duraturi, o non lo conosceste ma comunque sapeste di cosa si tratta, vi verrebbe mai voglia di pensarci? O di scriverne?


Diciamolo, alla fine erano più i brani sottolineati che quelli no, ergo sarebbe stato meglio non citare, meglio non selezionare, meglio non filtrare via impropriamente qualcosa.
Immaginatevi di vedere ogni pagina, ogni riga, immaginatevi ogni parola compiutamente evidenziata in giallo.
Questo è Lolita - luce dei miei occhi, fuoco dei miei lombi - respiratelo, mangiatelo, assimilatelo, non perdetene una stilla. Lo.Li.Ta. (4,9 Ca.Rv.Er.)
(Lolita - Vladimir Nabokov - Traduzione di Giulia Arborio Mella)
Riporterò poche cose, pescate per lo più a casaccio, tra tutte quelle che ho amato. Ognuno di voi potrà ritenersi offeso per non vedere trascritta in calce la sua citazione preferita, e io lo capirò.

Potete sempre contare su un assassino per una prosa ornata.

Creerò un Dio nuovo di zecca e lo ringrazierò con grida lancinanti.

Penso agli uri e agli angeli, al segreto dei pigmenti duraturi, ai sonetti profetici, al rifugio dell'arte.

Ho notato spesso che siamo inclini a dotare i nostri amici della stabilità tipologica che nella mente del lettore acquistano i personaggi letterari. Per quante volte possiamo riaprire Re Lear, non troveremo mai il buon re che fa gazzarra e picchia il boccale sul tavolo, dimentico di tutte le sue pene, durante un’allegra riunione con tutte e tre le figlie e i loro cani da compagnia. Mai Emma si riavrà, animata dai sali soccorrevoli contenuti nella tempestiva lacrima del padre di Flaubert. Qualunque sia stata l’evoluzione di questo o quel popolare personaggio fra la prima e la quarta di copertina, il suo fato si è fissato nella nostra mente, e allo stesso modo ci aspettiamo che i nostri amici seguano questo o quello schema logico e convenzionale che noi abbiamo fissato per loro. Così X non comporrà mai la musica immortale che stonerebbe con le mediocri sinfonie alle quali ci ha abituato. Y non commetterà mai un omicidio. In nessuna circostanza Z potrà tradirci. Una volta predisposto tutto nella nostra mente, quanto più di rado vediamo una particolare persona, tanto più ci dà soddisfazione verificare con quale obbedienza essa si conformi, ogni volta che ci giungono sue notizie, all’idea che abbiamo di lei. Ogni diversione nei fati che abbiamo stabilito ci sembrerebbe non solo anomala, ma addirittura immorale. Preferiremmo non aver mai conosciuto il nostro vicino, il venditore di hot-dog in pensione, se dovesse saltar fuori che ha appena pubblicato il più grande libro di poesia della sua epoca.

A Kasbeam un barbiere molto vecchio mi fece un taglio molto mediocre: blaterava di un suo figlio che giocava a baseball, e a ogni consonante esplosiva mi sputava nel collo, e di tanto in tanto si puliva gli occhiali sulla mia mantellina bianca, o interrompeva il tremulo lavorio delle sue forbici per mostrarmi sbiaditi ritagli di giornale, e io ero così distratto che fu uno choc rendermi conto, mentre lui mi indicava una fotografia incorniciata in mezzo alle vetuste lozioni grigie, che il giovane giocatore coi baffi era morto da trent’anni.
[...il barbiere di Kasbeam (che mi è costato un mese di lavoro)]

26 marzo 2017

Creature di sangue caldo e nervi


C'è un ragazzo dai capelli into the wild, ha una chitarra e intona Look at me, I am old, but I'm happy, canta per se stesso, per noi e per il tempo ché se la pigli comoda.
Un nero dall'hic sunt leones benedice il sole per la scatolata di occhiali non è caro dieci euro e per chi li vuole comprare; una lei forse di un'altro pianeta ne porta sulla testa un paio rossi enormi, da falena.
La ragazza vichinga, burrosa e sbracciata e dall'incarnato bianco come ricotta, ride alle nuvole che non ci sono, mentre due amiche, poco più in là, se ne stanno avvoltolate in piumini pastello e in una diversa stagione.
Al centro c'è la giostra che gira, zeppa di bambini a cavallo, che non fai in tempo li guardi, mamma un altro giro, e via centrifugati nell'adolescenza.
La bimba occhialuta e sincera sfreccia su una bici lenticolare griffata batman cercando probabilmente il record dell'ora o, in seconda battuta, di sfuggire alla sorella piccola.
Ragazzi nero barbuti dalla scriminatura potente e impomatata e dai calzoni inspiegabili richiamano Aldo detto Bob e le sue ragazze di San Frediano.
E due fidanzati, lei tatuata a colori con i capelli solo sul lato destro e lo stivale floscio, lui fasciato in una maglietta con una scritta troppo lunga e piccola per essere letta o tradotta, gemelli di anelli al naso e labbra carnose.
Due ragazze si atteggiano a signore di quelle con il cane nella borsetta, ma non ce l'hanno uno sputo di cane, sfoggiano cappottini anni sessanta, uno è rosso tartaruga con i bottoni in finto osso. Un'altra ragazza dalla pelle olivastra, indossa la mimetica, cadenza il passo e porta le trecce con un'aria vagamente familiare, chissà mai la figlia di quel cugino disperso nel mondo.
Due bimbe o poco più si portano in giro i loro skate fuori moda con una faccia di quelle da Bois de Bologne.
Pure i carabinieri schierati e in tenuta d'assalto li vedi che ridono e parlano di calcio e di figa, lontano mille miglia dai venti del terrore.
Il tassista aiuta un tizio a caricare in auto un passeggino rosa confetto, spia di una nuova bimba che un giorno traverserà piazze in bici, si adornerà di trecce, canterà Cat Stevens e donerà al sole, o a un ragazzo, la sua pelle profumata di pesca, sia essa nivea o olivastra a chi importa davvero?
Faccio la diagonale di Piazza della Repubblica screziata dal sole basso di fine marzo, la affetto in due spicchi simmetrici e vividi, i cieli sono fusi nei volti delle persone che come me la tratteggiano.
E siamo un quadro di Bruegel.
È lì che mi piglia l'attacco forte di debolezza del MaQuantoCazzoèBellaLaVita.
E quando into the wild lì attacca Hallelujah, sento un brivido: è giunto il momento che un'anima pia mi inizi a Leonardo Cohen.

23 marzo 2017

Questo è un romanzo magnifico, signori della Corte


Ho iniziato a leggerlo quasi per caso, un po' svogliatamente, giusto perché sta nelle liste di tutti quelli che compilano le liste dei libri che non possiamo non leggere.
Questo è un libro bello come un libro quando è bello, direbbe quel gnoccone languido di Prévert.
Oh voi che non vi siete ancora presi la briga di leggerlo, preparatevi all'agone, non indugiate, sto per svelarvi il titolo: compratelo, rubatelo su una bancarella dell'usato, ghermitelo dalla libreria di vostra zia.
Oh voi che l'avete letto e dimenticato, ricercatelo, riprendetelo a mano e gustatevelo come si gusta davvero un eccellente vino, quando non si ha sete.
Oh voi che vi dilettate nella miserevole e nobile arte dello scrivere, studiatene la struttura narrativa, l'aggettivazione, le similitudini, il lessico, l'essenzialità e la ferocia, la precisione e la leggerezza e - dopo - buttate ogni vostro scritto nel cesso.
Questo è IL romanzo, signori della Corte. Questo vale un fottuto 4,9 carver e li vale tutti, e quello 0,1 di scarto dal top sta solo nella data di uscita successiva a Il Giovane Holden, mio master meter personale di tutte le graduatorie libresche.
Dentro ci sono tutti.
C'è Salinger, per l'appunto, ma c'è Stephen King, e c'è DeLillo (oh, quanto DeLillo!), c'è anche John Fante, potete scommetterci, ci sono i fratelli Grimm con la Rowling.
Dentro c'è Agatha Christie che fa all'amore con Dostoevskij.
Dentro c'è tutto.
Manco a dirlo c'è un botto di Eros e di Thanatos, c'è il mattone e la piuma, il monsone di sud-ovest e l'aria secca di Tamanrasset, c'è il lupo e c'è l'agnello, c'è l'effluvio dei fiori a primavera e la puzza di fogna in una giornata di pioggia e vento contrario, c'è una mano di carta vetrata e uno svolazzo di seta, c'è la noia e il fuoco d'artificio, c'è Lucifero con tutti i santi, c'è il ballo delle debuttanti e il liscio in piazza la sera d'estate, c'è il pane azzimo e il controfiletto alla wellington, ci sei tu e ci sono io.
C'è quello che vorresti e quello che non vorresti trovare.
C'è il fiato lungo della vita eterna e l'espressione del mortal sospiro.
C'è la perfetta asimmetria dell'arte pura.

(segue qui)

20 marzo 2017

Secondo clarino (3)

(Segue da qui e da qui)
 
 Alzo la cornetta per sentire se il telefono è a posto. Un tu tu mi dice di sì. Controllo anche il volume della suoneria: è al massimo, ma Walter non chiama ancora. E sono le dieci e dieci. Potrei anche volermi andare a sdraiare a quest’ora, penso sia un mio diritto no? Di venerdì sera, poi. E questo cosa fa? Quando chiama? Evidentemente pensa che non c’ho niente da fare, questo pensa che stia qui a perder tempo in attesa della sua telefonata e della sua stramaledetta solfa bastarda. O pensa che io non abbia niente di meglio da fare il venerdì sera che scoprire il cavolo di posto dove andremo o non andremo a suonare domenica. Ma appena chiama lo sistemo!
Alle dieci e venti è veramente troppo. Walter non si è mai comportato così e niente gli dà il diritto di farlo. Niente. A meno che non abbia chiamato proprio in quell’attimo in cui ho alzato la cornetta per sentire se c’era linea. Può essere. Sto per riprendere su la cornetta per verificare la linea, ma m’immagino Walter di là che fa il numero… allora la lascio giù. E aspetto. Niente, nessuno squillo.
Non si saranno dimenticati di me? Capace che se non mi chiamano una volta e suonano senza il secondo clarino, vedono che non fa nessuna differenza e poi magari mi lasciano a casa per definizione.
Walter, Walter diobonino, fai questo cacchio di numero. Fai questo numero. Poi lo so… va a finire che perdo la pazienza e non mi so controllare e lo tratto male per davvero: gli fo un liscebbusso che se ne ricorda.
Mi affaccio alla porta, aprendo con cautela: una cassettiera in legno quasi rosso è spiaccicata sul muro di fronte e lascia a malapena lo spazio per passare su. O per passare giù. Richiudo.
Il telefono è sempre lì, come morto. Guardandolo adesso dubito perfino che possa suonare, mi sembra impossibile anche che abbia solo una volta suonato in vita sua, mi sembra tutto meno che un apparecchio teso ad emettere una qualche variante di un misero suono.
Sono le dieci e mezzo quando prendo su quel telefono inerte e compongo il numero di casa di Walter.
- Pronto?
- Walter, sono io.
- Oh, ciao Sergio, che si dice, che non si dice?
- No, niente, non ti ho sentito e siccome volevo parlarti…
- Dimmi dimmi, sto ancora cenando, sono stato mezz’ora a telefono con Tiberio…
Il nostro primo clarino!
- Chissà che gli ha preso, se n’è uscito con tutta una serie di menate sulle sagre, sullo squallore dei posti dove si suona, perfino sulle giacchette bordò, vallo a capire! Se aspirava a suonare con la Filarmonica di Berlino, poteva pensarci anche prima. Fatto sta, domenica siamo a Greve per la festa del Castagnaccio ma lui non viene, anzi non viene proprio più.
- No?
- No. Ma gliel’ho detto che ci importava il giusto e che avremmo suonato ugualmente bene con te primo clarino. Anzi primo secondo e ultimo. Se pensava che ci si mettesse a piangere…
Primo clarino?
- Sergio, ci sei? Che volevi, svelto perché devo finire di cenare.
- No, ti volevo chiedere… ma con quante macchine si va?
- Al solito dài, passi di qui, parcheggi e si va su con la mia, gli altri vengono col furgone.
- Bene, allora ciao.
- Ciao.
Vado per le scale e faccio una voce a quei ragazzi: è l’ora di portare su la cassettiera. Anche alla svelta, ché dopo una lucidatina allo strumento e via a nanna. Si prepara un gran fine settimana!

 (fine)



19 marzo 2017

Secondo clarino (2)

(Segue da qui)

Suona il campanello. E bussano. E poi chiamano.
- Signor Battistelli, signor Battistelli è in casa?
Riconosco la voce della tipa del piano di sopra. Rispondo da dietro la porta. Non apro mai agli estranei, capace che poi cominciano con la tazza di zucchero, la volta dopo il pane e finisce che poi se non li campi tu son sempre lì che ti suonano e ti bussano e ti chiamano. E non si chetano nemmeno con il mute.
- Sì?
- Signor Battistelli, ci dà una mano a portare su una cassettiera, per favore?
- Come?
- Una cassettiera, ce l’abbiamo giù a piano terra, sarebbe così gentile…?
- Sì, cioè no. Sono in mutande… e poi aspetto una telefonata urgente, mi dispiace.
Passo davanti alla vetrinetta del mobile e mi guardo nel riflesso, vedo la sagoma dei miei capelli e quasi mi pettino, poi torno a sedere. Come se uno fosse la ditta traslochi! C’era da immaginarselo, è pieno di questi vicini che non sanno come cavarsela da soli e suonano campanelli e bussano e ti chiamano. E comprano cassettiere.
Alla tele stanno bacchettando una specie di statuina di una specie di pensatore composta con tutta una serie di micro forme in quasi bronzo che paiono lettere dell’alfabeto. Roba dell’altro mondo!
Dal pianerottolo penetra qualcosa come “Allora, signor Battistelli, se… telefonata…  mano… grazie… ” o giù di lì.
Sono le nove e mezzo. Mi ripasso mentalmente quello che dirò a Walter. No, guarda, non ci sarò domenica. E lui mi chiederà cos’ho cosa non ho. Niente, non ho niente, solo non verrò, né domenica né mai più. E lui mi chiederà cosa farò, cosa non farò. Niente, o qualcosa, in ogni caso non riguarderà una qualche sagra, né un qualche secondo clarino né una giacchettina bordò dai bottoni quasi dorati. E lui mi chiederà come mai come non mai. Così, dirò, oppure metterò giù. Ecco, magari metto giù.
Walter farà per attaccare la solita solfa, ma io probabile che gli metta giù il telefono, alla fine.
Il clarino. Il secondo clarino. Due che suonano il clarino. Ed io sono pure il secondo. Ma come ho fatto a star dietro a questi svalvolati per quasi vent’anni? Le majorettes che ci aprono la strada tra un po’ sono le trisnipoti di quelle che c’erano quando ho cominciato, e io sono ancora lì con questa specie di tubo in mano a soffiarci dentro come uno scemo: pippiripì pippiripì.
Prendete l’Ottorino Respighi, fatele eseguire il primo pezzo che vi capita a tiro davanti ad un qualificato novero di esperti. Poi ripigliatela, cassate il secondo clarino, magari mandatelo a traslocare delle cassettiere, e fate ripetere il concerto daccapo. Nessuno si accorgerà di alcuna udibile differenza. A parte il titolare del secondo clarino. E a parte la cassettiera. Forse.
Sono le nove e quaranta e non ho proprio voglia di stare ad ascoltare Walter. Fai che mi chiami e attacchi colla solfa del come stai come non stai, lo stoppo subito, guarda, gli dico che non mi cerchi più, che non mi chiami e che si procuri da qualche altra parte una specie di secondo clarino, oppure no, chissenefrega.
C’è muffa sul muro: è sempre stata un problema, in questo buco di casa. La muffa della parete nord ha iniziato un clamorosa avanzata e si sta espandendo sul soffitto e sulla parete est con chiazze gonfie e verdastre. Un movimento lento e costante e empirico. Asimmetrica, la muffa avanza e disegna i suoi astratti. Quasi da chiamare la casa d’aste e mandargli un pezzo di muro per sentire non tanto se lo vendono, perché lo vendono di sicuro, ma come lo presentano al pubblico. Muffa su intonaco – 110 x 80? Può essere.
Sono quasi le dieci, chiaro che Walter ha avuto il suo bel daffare stasera ad avvisare tutti; non lo sapessero che il venerdì sera c’è il giro delle telefonate! Dev’essere una bella palla anche dover chiamare tutta la banda per notificare dove si va dove non si va, dove ci si trova e dove non ci si trova, a che ora ci si trova e a che ora non ci si trova. Io non ce la farei, davvero, non ci sono tagliato per mettermi a telefonare e salutare e chiacchierare… poi di venerdì sera. Se aspettano che li chiami io!
Porto la sedia vicino al telefono così faccio prima a liberarmi di questa roba che devo dirgli. Appena suona tiro su e non gliela faccio nemmeno attaccare la sua penosa solfa.
Struscio un dito sulla superficie del mobile in quasi betulla e rilevo l’esistenza di uno strato di polvere. È sottile, quasi rassicurante. Faccio due o tre stradine col dito, potrei tirarla via con lo straccio, ma non mi va di allontanarmi dal telefono proprio adesso. Fuori un gran tramestio, sembra che abbiano deciso di portare su quella cassettiera, finalmente. Tendo l’orecchio e sento un gran botto.
“Attento, attento!”
O forse sento prima attento attento e poi il gran botto proprio davanti al mio portone, sul pianerottolo.
“Così non ci si fa, dài… vediamo dopo… oppure domani…”
Poi vanno via. Deduco che mi abbiano lasciato quella stupida cassettiera sull’uscio di casa.

(continua qui)

17 marzo 2017

Secondo clarino (1)



Al mondo esiste soltanto una cosa
peggiore di un tipo che suona il clarino.
Due tipi che suonano il clarino.

(Woody Allen)









Mangio le uova direttamente dal padellino, l’ho appoggiato sopra uno di questi sottopentola quasi in sughero acquistato per qualche migliaio di lire in uno di questi negozi svedesi quasi di mobili. La tivù, a trenta centimetri da me, non passa niente di buono. L’audio è sul mute, in ogni caso, non vorrei non sentire il telefono.
È venerdì sera e verso le nove e mezza mi chiamerà Walter che attaccherà con la solita solfa del come stai come non stai, del cosa fai e del cosa non fai, del dove andremo a suonare e del dove non andremo a suonare. Una patetica solfa inascoltabile!
Proprio quello che ci vuole per tenerti su di morale: diventare tenutario del segreto luogo dove andare a soffiare dentro al mio nero-argento di un secondo clarino della banda Ottorino Respighi.
È ottobre, quasi novembre, e le sagre impazzano. Almeno fosse un tempo che invoglia. Dal cinghiale al fungo porcino, dalla polenta al tartufo, dall’uva al fagiolo borlotto… e noi in su e in giù per le stradine di uno sperduto paesino a suonare e a battere i denti, incastrati nelle nostre belle camicie bianche e nelle nostre giacchettine bordò quasi di lana dai bottoni lucenti quasi dorati.
Alla tele adesso c’è una specie di asta artistica. Un tipo impomatato, con occhialini tondi quasi da finocchio intellettuale, sta mostrando quella che dovrebbe essere un’opera d’arte contemporanea: un appiccicaticcio di lattine schiacciate. Birre e coca-cole compresse e tenute su - dio sa come! - pronte ad essere appese a faccia vista su una parete della vostra casa. Mi chiedo a chi possa venire in mente di ideare e realizzare una tale schifezza, e mi chiedo come sia possibile che una qualche casa d’aste pensi di venderla senza incappare nel reato di crimini contro l’umanità, e mi chiedo da dove possa sbucare il pollo che telefonerà per buttare via una trentina di milioni di lire per un ammasso di latte spiaccicate. E mi chiedo anche perché un cristiano che mai si metterebbe all’anima di realizzare, tentar di vendere o tantomeno comprare quest’opera qua, possa restare incantato, per un tempo indefinito, da questo penoso rito promanato via etere. Poi struscio il padellino con un pezzo di pane e passo agli atti la pratica cena.
Capita che Walter chiami anche prima delle nove e mezza, ma di solito è preciso. Quindi aspetto. Davanti al teleschermo muto che sparpaglia condensati di raccolte differenziate rifiuti in guisa di capolavori nei buoni salotti di quella mezza Italia di collezionisti aristocratici. Dal greco aristos.
Non lo so di preciso quand’è che ho cominciato a suonare il clarino, né perché o per fare contento chi. So esattamente quando l’ho suonato per l’ultima volta: domenica scorsa, a Vicchio. Non ho intenzione di prenderlo più in mano. Chiami pure Walter e attacchi con la sua bella solfettina del come butta e del come non butta, è deciso: niente più sputazzate dentro al clarinetto per me, niente più bande musicali né dannate sagre paesane per tutto il resto della mia schifosa vita.
Non che ci sia un gran resto, per la verità. Un’altra ventina d’anni, trenta a dire tanto. Una pisciata. E non la voglio passare a monta e smonta il clarino e asciuga la saliva e ascolta la solfa di Walter e sonacchia qualche marcetta in una quasi festa paesana del circondario. Scordàtevelo!
Non sto esagerando, la vita del secondo clarino è poi questa, suppergiù.

(prosegue qui)

16 marzo 2017

Come te nessuno mail


Io ero uno di quelli che se mi alzavo alle tre di notte per andare a pisciare accendevo il computer per vedere se m'era arrivata un'email.
Non sai mai ho vinto qualche cosa, non sai mai il cugino dell'Anto dall'Australia, non sai mai un amico insonne. Non sai mai.
Erano i tempi che con un C'è posta per te c'hanno fatto pure un film, con Meg Ryan e Tom Hanks - per tacere di Maria in tv.
Ora al massimo potrebbe starci un b-movie: C'è spam per te, magari con Gassman e la Crescentini, per i bellissimi di ReteQuattro con la Folliero (!) che ce lo introduce.
La vera soddisfazione al giorno d'oggi è riuscire a disiscriversi da tutte le newsletter, riuscire a indirizzare nell'indesiderata tutta la fuffa, collegarsi e vedere 0 (ZE-RO) messaggi da leggere.
Ieri mi è successo, per la prima volta.
Ho pianto.
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p.s. un grazie speciale va a Elena R centesima lettrice de La Linea! Ci son voluti quasi 7 anni e 632 messaggi, di questo passo nel 2080 avremo 1.000 lettori e sarà festa grande!

15 marzo 2017

Piccolo spazio pubblicità

Ovverosia le cose meglio comprate nell'ultimo anno.

Fondamentalmente due.
1 (UNO) - Lo schiacciapatate:

Lo sapevo che mi serviva, da anni, - e qualcuno me l'aveva pure detto! - per schiacciare le patate del purè e per trafilare la mozzarella della pizza. Troppo comodo, eppure traccheggiavo.
Era il prezzo a frenarmi, dai 15 ai 20 euro dalle mie parti.
Poi al mercato di Nardò ho rotto gli indugi e l'ho preso, per 5 miserevoli euri.
Mai più senza!

2 (DUE) - L'aspiragocce della Vileda, 'sto robo qua:

Non so voi ma io le mattine d'inverno morivo di mani ghiacce con la spatola e la spugnina a tirar via la condensa dalle finestre, ma anche qui ne facevo una questione di pecunia, mi pareva caro a 40 euri.
E invece li vale tutti, facile, preciso, efficiente.
Mai piuissimo senza.


13 marzo 2017

Sandalini con gli occhi e un cane

(copyright LaDonnaCamèl)
Prima li odiavo i sandalini con gli occhi, troppo blu, troppo comuni, troppo da domenica alla messa e shhh stai zitta.
Non ci riuscivo a correre bene e Marco, Stefano e gli altri di via Goito mi lasciavano sempre indietro, con le loro scarpe di tela, fiche e mezzo strappate.
Un pregio ce l'avevano però, i sandalini con gli occhi: la sera quando ti toglievi i calzini, ti trovavi sulla pelle dei piedi gli occhi dipinti dalla polvere, ed era dallo spessore dello strato di polvere e dall'intensità della macchia che potevi valutare senza rischio di sbagliare la tua giornata da zero a cento, da sprecata a vissuta.
Era un vero peccato lavarsi i piedi.
Ma poi, quella volta là, la mamma me ne ha presi un paio chiari, panna per la precisione.
E lì ho fatto un passo per diventare una ragazzina perbene o quello che sono adesso, e ho cominciato a lasciarli correre Marco e Stefano.
Non c'era mica da sporcarli i sandalini con gli occhi, volevo metterli e basta, quand'anche fosse solo a messa e shhh stai zitta.
E con tutto che ero più affezionata a Fuffi che a Cinzia, quando il mio cucciolo me li ha fatti a brandelli, ecco lì c'è stato un tempo in cui ho voluto davvero più bene a mia sorella che al cane.
Ma saranno stati un paio di giorni.

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Dedicated to Bianca (mi sono permesso)


12 marzo 2017

Il pistolero di graniglia


C'era una brutta faccia nel pavimento di graniglia della cucina.
Stava vicino alla porta-finestra sul retro, era il volto triangolare di quello che avresti detto un omaccione corpulento e severo, seppure era solo una brutta faccia. E magari nemmeno.
Era verdastra, screziata di rughe scavate dal sole: era la faccia di un pistolero.
Potevo sentire il cigolare della diligenza, i cavalli sbuffare e lo sciacquettio metallico degli speroni dentro quell'universo bidimensionale di cemento e frattaglie di marmo.
E quando ero fortunato sentivo gli spari.
Non che fosse mio amico, il pistolero, ma certo nel mio mondo inscatolato di bambino era un'entità percepibile.
Era persino troppo discreto per aspirare al ruolo di compagno di giochi, però se avevi bisogno di un simulacro poligonale di faccia con cui scambiare un pensiero, nelle ore infinite trascorse davanti alla porta aspettando che spiovesse, lui stava lì: spiaccicato e severo, oltreché calpestabile.
Ci potevi contare su di lui, sul suo profilo, sui capelli adagiati sul capo e sulla sua basetta nera.
Stava tutta in quella basetta curata la sua usurpata umanità: non c'era propriamente nemmeno un orecchio, ma c'era una basetta da pistolero con tutti i crismi.

Il pavimento non è mai stato cambiato, ha la splendente eternità degli anni settanta e il sole ci fa ancora il suo giro a lancetta sopra, eppure non lo vedo più il pistolero. Nemmeno adesso che sento l'insana voglia di parlare con qualcuno.
E allora cerco un sostituto su un'altra piastrella, sfido l'impiantito da un diverso punto di vista, provo a penetrare nei suoni disperati di un affollato saloon, ma tutto quello che il mio mondo sconfinato di adulto mi consente di vedere è lo spargimento casuale e indistinto di scarti di marmo e melanconia a buon mercato.

9 marzo 2017

Voglio vedere voi con un fratello zoppo


Un fratello zoppo non te lo dimentichi mica, ti resta appiccicato come un francobollo leccato per bene e non lo tiri via manco con il vapore.
Eccolo là il tuo fratello zoppo, come un'ombra, più di un'ombra nella vita tua.
Almeno l'ombra spegni la luce e sparisce. Prova a spegnere tutto il mondo: tuo fratello sarà lì e sarà zoppo.
Che "zoppo" sta nel gruppone delle parolacce, bandite in casa e sulla bocca di qualsiasi coglione capace a parlare fuori.
A casa aiuta tuo fratello, lo zoppo è sottinteso. Fuori invece è tutto esplicito, nessuna miseranda pietà, sei il fratello dello zoppo ed è quasi meglio così.
Se ti arriva in dono uno zoppo è come se ti arriva un anatema, è per sempre, cari miei.
Ti puoi imparare La Divina Commedia a ritroso, puoi salire e scendere le scale zompettando sulle braccia, puoi vincere il nobèl per la pace o fare i nodi ai piccioli delle ciliege con la lingua, sempre il fratello dello zoppo sarai.
Perfino se lo zoppo lo vanno a operare, come sembra, con una protesi per l'anca e una staffa per la tibia, pure se lo zoppo alla fine di questa lacrimevole storia diventa un campione di ballo, o magari si mette a correre la maratona, o chessò finisce modello e sfila in passerella, pure se lo zoppo tutto questo, tu rimani sempre il fratello dello zoppo.
È che ce la metto tutta fratello mio, credimi, per camminare normale.

8 marzo 2017

A qualcuno serve un semiperimetro?


Sempre a margine della scuola del figlio e della cultura a giorni alterni.
Ora posso capire, ed è un aspetto senz'altro positivo, che gli argomenti di studio siano aggiornati rispetto a 40 anni fa per l'effettiva necessità di trattare temi che erano ignoti o non così impellenti.
Tipo tutti i risvolti legati all'ecosostenibilità, dettati dal fatale declino del pianeta. Vedi l'impronta ecologica, sapete cos'è l'impronta ecologica?
Io non lo sapevo cos'era, e adesso comunque lo so solo a grandi linee, ma è necessario che i nostri ragazzi la studino e comincino a ragionarci sopra (certo anche noi).
Epperò materie e argomenti sviscerati dai più grandi studiosi di sempre e rimasti inalterati negli anni, ma perché dovrebbero cambiare?
A parte i Sumeri, dei quali ho già parlato a suo tempo.
Ma l'aritmetica e la geometria non dovrebbero essere la stessa pappa di mille anni fa? Numero di decimali attribuibili al pi greco escluso.
Il perimetro che 40 didattici anni fa era p e basta, adesso pare che sia diventato 2p. 2p?
Cioè p pare che sia il semiperimetro, un concetto utilissimo in natura, immagino.
A chi serve la metà del perimetro di qualcosa? Proprio non dovrebbe essere una misura degna di possedere un'abbreviazione propria, figuriamoci poi usurpare la fottuta p del perimetro.
Nasce qui e oggi il movimento per l'abolizione del semiperimetro.
Firma sotto la petizione se vuoi anche tu una p che stia per perimetro e basta.

5 marzo 2017

Rosita

Continuava a guardare gli orecchini appoggiati sulla mensola in bagno, a un palmo dal suo naso. Piccola che era. Ma non guardava quei due avanzi di chincaglieria, che pure amava, non quelli reali, puntava la loro immagine nello specchio.
Era un gioco che aveva imparato a fare da un po' di tempo, in un estremo tentativo di difesa, nella speranza di erigere un muro oltre il quale confinare fiati alcolici e dita spudorate.
Guardava le perline opache fissate sui cerchietti in finto argento e si ricordava di quando sua madre glieli aveva regalati, quel giorno in cui era cominciato tutto. E tutto era finito.
- Rositaaa... - lui aveva fretta.
Rosita, piccola rosa che era.
Guardava gli orecchini oltre la superficie riflettente e vi costruiva un mondo attorno, senza profumi e senza dolore, un luogo quasi fisico dove rifugiarsi per una mezz'ora, risucchiata dal vuoto incomprimibile dell'universo specchiato.
Era un po' come quando da bambina chiudeva gli occhi per non fare accadere le cose.
Ma poi quelle accadevano lo stesso.
Le cose non ce l'hanno il rispetto degli occhi chiusi dei bimbi.
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