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1 marzo 2023

Se non c'è gioia è tutto inutile - (On Writing - S. King)

On writing è zeppo di perle, alle quali puoi ispirarti, o aggrapparti. Oppure puoi sorriderne o farne scrupoloso tesoro. Eccone alcune, quelle che preferisco:

La regola fondamentale del vocabolario consiste nell'usare la prima parola che vi viene in mente, se è adatta e efficace.

Il miglior verbo dichiarativo è "dire". Lui disse, lei disse, Bill disse, Monica disse.

Se volete diventare scrittori, dovete leggere e scrivere un sacco. Che io sappia, non ci sono alternative o scorciatoie.

All'autore serve un luogo tutto per sé. Finché non ne scoverete uno, vi sarà difficile prendere sul serio la vostra recente decisione di lavorare sodo.

E di che diavolo scriverete? Ecco la risposta: di che cazzo vi pare. Davvero, a patto che diciate la verità.

Un contesto abbastanza forte rende superflua qualunque discussione sulla trama.

A scuola tutti noi abbiamo incrociato degli sfigati; se delineassi alla perfezione i miei, in parte bloccherei il ricordo dei vostri, rischiando di inficiare il legame di mutua comprensione che ambisco a instaurare tra noi. La descrizione nasce nella fantasia dell'autore, ma poi dovrebbe germinare in quella del lettore.

Comunque non è l'ambientazione a farla da padrone, ma sempre e soltanto la storia.



30 gennaio 2019

Quello che ti leva la voglia di scrivere

Forse l'ho già detto, ma Don DeLillo a me, per prima cosa, prima ancora di stupirmi, appassionarmi e guadagnarsi la mia stima a vagonate, prima di tutto mi fa passare la voglia di scrivere.
Uscire da un romanzo di DeLillo e rifiutarsi financo di vergare giù la lista della spesa - tornando poi a casa coi sofficini e i bastoncini di pesce findus e pigliandosi il peggio cazziatone da dolcemetà - è un attimo.
Proprio c'hai la nausea se pigli la penna in mano o ti avvicini a una tastiera.
Tant'è vero che L'uomo che cade (4 carver pieni - trad. Matteo Colombo) l'ho terminato un mesetto fa ma mi sento di buttar giù due righe solo adesso.
E no non lo commenterò, mi limiterò a riportarne dei pezzi. Che poi non c'è nemmeno bisogno di segnarli, aprite una pagina, leggete, e trovate sempre del bello e del buono.

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Apter era un uomo slanciato e riccio di capelli, che sembrava progettato per dire cose spiritose ma non lo faceva mai.
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Per un po' Keith smise di radersi, qualunque cosa significasse.
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Il padre era un cattolico tradizionalista non praticante, affezionato alla messa in latino a patto di non dovervi assistere.
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Le carte scivolavano sulla superficie in panno verde del tavolo rotondo. Utilizzavano l'intuito e tecniche di analisi del rischio da guerra fredda.
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Alla settantasettesima partita di hold'em cominciò a percepire una forma di vita in tutto ciò, che non apparteneva a lui ma agli altri, una piccola alba di significato all'interno di un tunnel.
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...si rese conto che il bambino aveva ripreso a utilizzare soltanto monosillabi e bisillabi.
Gli disse: - Dacci un taglio.
- Eh?
- Vedi che non sei l'unico a saper parlare massimo in bisillabi?
- Eh?
- Dacci un taglio, - ripeté lui.
- Ma perché? Dici sempre che non parlo.
- È tua madre che lo dice, non io.
- E quando parlo mi dici di darci un taglio.
Stava diventando bravo, Justin, ormai tra una parola e l'altra quasi non si fermava. All'inizio era stata una forma di gioco istruttiva, ma adesso nella sua pratica era subentrato un elemento nuovo, un'ostinazione solenne, quasi rituale.
- Guarda, a me non importa. Puoi parlare nella lingua degli inuit, se vuoi. Impara l'inuit. Loro hanno un alfabeto fatto di sillabe, anziché di lettere. Puoi parlare una sillaba alla volta. Ci metterai un minuto e mezzo per dire un'unica parola lunga. Io di fretta non ne ho. Puoi prenderti tutto il tempo che vuoi. E fare anche delle pause lunghe tra una sillaba e l'altra. Cominceremo a mangiare carne di tricheco, e tu potrai parlare inuit.
- Non so se mi va la carne di foca.
- Ho detto tricheco, non foca.
- È lo stesso.
- Di' "tricheco".
- È lo stesso. È come la foca. Carne di foca.
Testardo come un mulo.
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28 gennaio 2019

Vecchi dischi che nessuno avrebbe più ballato


Venne anche il momento di guardarsi attorno con occhi nuovi.
Non era una scelta, le arrivò in faccia come fa uno schiaffo.
Finite le lacrime, finite le visite parentali, finite le belle parole, restava un vuoto denso che riempiva la casa. Fin dentro i mobili.
Si lasciò andare sul divano azzurro privo di vita, perduto teatro di lotta tra i bambini, dimenticato e improvvisato nido di amplessi frettolosi, ricovero caldo per culi da teledipendenza passiva.
Vide i libri pigiati sugli scaffali, vecchi romanzi che nessuno avrebbe più aperto e che nessuna bancarella avrebbe voluto.
Vecchi dischi che nessuno avrebbe più ballato.
Vecchi testi di scuola di figli perduti fuori, in un mondo sfacciato e srotolato oltre la porta finestra.
Eppure il sole faceva il lavoro suo, ingravidava la stanza della luce dell'est mattutina, ma a lei mancava la forza per cimentarsi in un'altra spaventosa giornata.
La credenza di arte povera era stipata di piatti che avrebbero atteso invano una nuova festa, un pranzo numeroso e rigonfio di risa. Milioni di tazzine da caffè vi stavano annidate come pipistrelli dormienti in attesa di un grido, di un invito che sprigionasse il loro volo.
Insalatiere sbreccate e sepolte circondate da bicchieri male impilati, posate nuove mai usate e posate vecchie mai usate. Tutto era testimonianza silente di esistenze disilluse o finite.
Solo il quadro, la casa di contadino in mezzo alla neve, la casa con la colombaia che le ricordava quella in cui era nata, solo il quadro dai riflessi bianchi e rosati, solo il quadro le infuse uno scampolo di forza.
Allora si alzò, imprecando un dio che non c'era, e si trascinò in cucina a mettere su l'acqua per un tè.

25 gennaio 2019

Un rumore di trolley nella testa

A tratti sentiva questo rumore, come di trolley, nella testa.
Un trolley trascinato in giro per la stazione.
Ma forse non era proprio nella sua testa, di certo non era all'esterno del suo corpo e non era percepito da chi stava con lei. È che lei lo sentiva, anche se non era proprio una faccenda uditiva, era complesso e difficile da spiegare. Si trattava più di uno stato di fatto. Rumoroso.
- Lo senti anche tu questo rumore?
- Che rumore?
- Come di un trolley strascicato...
- Ah, no, nessun trolley, nessun rumore, forse il frigo.
Lui non capiva, non che fosse facile, doveva dargliene atto.
Non era nei momenti ansiosi, di paura, di fame o di stanchezza che lo sentiva, era più un manifestarsi a casaccio. Lo sentiva da qualche parte e lo vedeva quasi, un trolley nero, lucido, tirato in giro da una sagoma indistinta, uomo donna bambino boh, probabilmente il suo inconscio aveva bollato come trascurabile l'elemento trascinatore.
Ne parlò con le amiche, più per ravvivare una conversazione vecchia di anni che per la speranza di trovare conforto o soluzione.
- Un trolley? Di Louis Vuitton?
E questo fu il commento più intelligente.
Si era poi ricordata di un libro, o forse era un film, dove un tipo aveva una lastra nel cervello, o era una scheggia di bomba, comunque roba metallica, grazie alla quale prendeva la radio e si sciroppava canzoni, notiziari e spot senza possibilità di spegnere se non rintanandosi in cantina o in un crepaccio non accessibile alla modulazione di frequenza.
Ma no, non aveva protesi all'anca o viti nel femore, manco una catenina. Si tolse la fede, ma non risolse nemmeno così. Non lo sentiva arrivare piano piano come un treno, ma d'improvviso, senza avvisaglie, iniziava e basta. Come se un viaggiatore in una qualche striscia di mondo partisse con il suo trolley al seguito e lei potesse sentirlo, chissà come, sì forse era così.
Andò anche dal dottore alla fine.
- Va tutto bene. Come si dice? Sana come un pesce. Sarà un po' di stress accumulato, ti segno queste. Poi riposati e vedrai che tutto si risolve.
Ma se l'unica bega che partecipava all'accumulo del suo stress era proprio il fastidioso rumore del trolley portato a zonzo non esattamente su una moquette!
E quando la medicina fallisce non ti resta che l'internet e la speranza che della tua paranoia se ne sia parlato in uno sperduto forum o su una qualsiasi piattaforma paramedica.
Digitò su Google "rumore di trolley nella testa" virgolettato, trovò una ricorrenza e cominciò a leggere:
A tratti sentiva questo rumore, come di trolley, nella testa.

14 gennaio 2019

Tutti abbiamo dei segreti

Era da un po' di tempo che la risata di Adele gli urtava i nervi.
Non che lei avesse colpa, pensava, forse è tutto nella mia testa.
E dire che l'aveva conquistato con la sua risata.
Lui ci sguazzava a fare il simpatico e lei rideva, rideva di gusto, e gli si conficcava dentro a martellate. La risata di Adele, in quel tempo antico e sbiadito, aveva una duplice natura supplichevole che andava dallo smetti ti prego al darmene finché puoi.
Adesso lui la temeva quasi, e non s'impegnava certo a stimolarla, se non per verificare con una ulteriore prova se era davvero così cambiata.
Non avrebbe saputo dire cosa o come, ma di certo era cambiata. Il timbro forse, la densità, il suo modo di aprirsi un corridoio nell'aria, la lunghezza, l'eco, il suo peso... c'era un frammento che ne usciva sempre stonato, la risata di Adele era un cavallo zoppo.
Come non bastasse, si era poi convinto che l'alterazione genetica della risata di Adele fosse la spia di un segreto nuovo da non rivelare, una nuvola di vapore fuori dal loro cielo.
Che diamine, tutti abbiamo dei segreti! Anche lui ne aveva avuti, ne aveva e altri ne avrebbe accatastati.
Tutti abbiamo dei segreti, anche Adele aveva il diritto di chiudere a chiave un cofanetto di cose sue, ma era ingiusto che glielo sbattesse in faccia. Questo in generale, ancora di più manipolando la chimica di quella risata che li aveva uniti, giusto un milione di anni prima.
Ma forse è tutto nella mia testa.
E sì che avrebbe dovuto chiamare la NASA, convincerli a studiare la modificazione della risata di Adele. Loro avrebbero saputo abbinarci un fenomeno cosmico, magari era legata alla nascita di una nuova stella, alla moltiplicazione dell'universo o a un'invasione aliena imminente.
Ma di lei, della sua vecchia risata, quell'armoniosa perfezione di cui si era innamorato, non esisteva un filmato, non una registrazione.
Gli restava soltanto quella vecchia foto.

7 settembre 2018

L'odore del caffè


Gli piaceva l’odore del caffè.
Il gusto no, non più, la gastrite e la mancanza delle chiacchiere di contorno ne avevano da tempo demolito il fascino.
Cè da dire che da quando era morta Anna aveva perso il gusto per parecchie sfaccettature della vita, alimenatari o meno.
Un po' tutto si era sgonfiato, come un pallone calciato sul filo spinato: le sue aspettative residuali le vicende incatenate nel quotidiano, tutto era soffiato via in un sibilo senza ritorno.
Anche il ribollire delle esistenze spiate giù dalla finestra, la frenesia delle mamme, dei bimbi a scuola e dei babbi incravattati, l'intreccio confuso delle storie che balenavano per andare a snodarsi dentro a un altro meraviglioso e imprevedibile giorno, anche quello, adesso, gli rimaneva indifferente. Più facilmente gli suggeriva una punta di odio.
Ma l’odore del caffè, quello, gli piaceva sempre.

1 febbraio 2018

L'uomo che spingeva la bici e la Fransuà

(Viaggiando in bicicletta - Egidio Guarino - particolare)
Nessuno l'aveva mai visto salire sulla bici e nessuno l'aveva mai visto senza bici.
La spingeva, ci camminava a fianco tirandosi mille volte al giorno il pedale nel polpaccio.
La sua casa stava tutta lì, nel cestino davanti della bici, nelle due sacche laterali verde acqua attaccate alla ruota dietro e in un borsone rosso tenuto su a tracolla, di quelli che anni fa regalava la coop coi punti.
Nel cestino davanti della bicicletta ci stavano le proprietà effimere, oggetti raccolti da terra nel caso potessero tornare utili, riviste pescate qua e là più qualche attrezzo tipo un pappagallo e una pompa.
Le sacche dietro sapevano più di guardaroba e di toeletta anche se era solo un'impressione o un vago presupporre di chi osservava.
C'è da dire che non si facevano le corse per guardarlo, in un certo senso lo si spiava un po' di nascosto perché non c'era troppo di bello da vedere e perché ti faceva pure sentire in colpa, lui barba incolta e capelli unti, pancia gonfia e calzoni strappati non dalla moda ma dalla miseria.
Lei, la vecchia signora di origine francese, la Fransuà, faceva il giro dell'isolato per tenere vive le sue gambone dolenti e inteccherite così capitava che lo incrociasse,  non di rado, appoggiato al muretto dietro la fermata dell'autobus, alle prese con un'arancia, un mozzicone di sigaretta o con il capo cercando dentro il borsone non si sa cosa.
Si fermava la Fransuà, sempre vestita di tutto punto, braccia incrociate dietro la schiena, lei sì che lo squadrava, avresti detto per disprezzo o incapacità di comprendere la situazione.
Poi lei continuava il giro. Poi lui non è che aspettasse l'autobus davvero, ripartiva spingendo la due ruote e tutto il resto.
Un giorno la Fransuà fece due giri, e anche al secondo giro lui stava lì, a capo chino a guardarsi le scarpe.
- Le va una tazza di tè?
Lui non alzò la testa, diede solo una scrollata alle spalle.
Ma quando la Fransuà tornò con un vassoietto, il tè e un piattino con i biscotti, lui si era avviato e lei lo vide già in fondo alla strada.
- Signore, signore... il suo tè - gli urlò dietro la Fransuà.

7 giugno 2017

Scordatevi il sesso in questa storia


Lui ha una moglie, dei figli e amici che se ne vanno via dopo una cena. Porta fuori il cane. Tutte le sere fa lo stesso giro e passa davanti alla casa con giardino di lei.
Lei è lì che si fuma una sigaretta o che rinvasa la terra di un geranio rovesciato dal vento. In casa mariti e figli forse dormienti o chissà mai sepolti in un divano.
E si vedono, lui e lei, e si salutano perché sono gli unici due coglioni fuori a quell'ora.
È freddo, è caldo, c'è la partita in tivù, o Sanremo, ci son state le elezioni o un attentato al Papa, loro sono lì.
Si salutano. Non si parlano quasi mai.
Lui va di fretta e lei in cuor suo prega perché non si fermi.
Lei non si cura, dopotutto sono dieci anni di sigarette prima di andare a letto, dieci anni in cui non ha visto un'anima costeggiare la recinzione. Prima che comparisse lui, il signore col cane da pisciare.
Lei indossa una tuta sformata sopra a un reggiseno che non c'è, capelli tirati indietro in una coda fatta di fretta prima di cucinare.
Forse è già tutto scritto.
Il momento in cui lei si lascerà indosso i vestiti dell'ufficio, il momento in cui si passerà un filo di matita nera e quello in cui si scioglierà i capelli.
Poi sarà lui a chiederle una di quelle sigarette fuori moda o magari lei ad uscire fuori, nella stradella, solo per accarezzare il cane.

28 marzo 2017

E voi lo conoscete il segreto dei pigmenti duraturi?

(segue da Questo è un romanzo magnifico, Signori della Corte)

E nel caso lo conosceste il segreto dei pigmenti duraturi, o non lo conosceste ma comunque sapeste di cosa si tratta, vi verrebbe mai voglia di pensarci? O di scriverne?


Diciamolo, alla fine erano più i brani sottolineati che quelli no, ergo sarebbe stato meglio non citare, meglio non selezionare, meglio non filtrare via impropriamente qualcosa.
Immaginatevi di vedere ogni pagina, ogni riga, immaginatevi ogni parola compiutamente evidenziata in giallo.
Questo è Lolita - luce dei miei occhi, fuoco dei miei lombi - respiratelo, mangiatelo, assimilatelo, non perdetene una stilla. Lo.Li.Ta. (4,9 Ca.Rv.Er.)
(Lolita - Vladimir Nabokov - Traduzione di Giulia Arborio Mella)
Riporterò poche cose, pescate per lo più a casaccio, tra tutte quelle che ho amato. Ognuno di voi potrà ritenersi offeso per non vedere trascritta in calce la sua citazione preferita, e io lo capirò.

Potete sempre contare su un assassino per una prosa ornata.

Creerò un Dio nuovo di zecca e lo ringrazierò con grida lancinanti.

Penso agli uri e agli angeli, al segreto dei pigmenti duraturi, ai sonetti profetici, al rifugio dell'arte.

Ho notato spesso che siamo inclini a dotare i nostri amici della stabilità tipologica che nella mente del lettore acquistano i personaggi letterari. Per quante volte possiamo riaprire Re Lear, non troveremo mai il buon re che fa gazzarra e picchia il boccale sul tavolo, dimentico di tutte le sue pene, durante un’allegra riunione con tutte e tre le figlie e i loro cani da compagnia. Mai Emma si riavrà, animata dai sali soccorrevoli contenuti nella tempestiva lacrima del padre di Flaubert. Qualunque sia stata l’evoluzione di questo o quel popolare personaggio fra la prima e la quarta di copertina, il suo fato si è fissato nella nostra mente, e allo stesso modo ci aspettiamo che i nostri amici seguano questo o quello schema logico e convenzionale che noi abbiamo fissato per loro. Così X non comporrà mai la musica immortale che stonerebbe con le mediocri sinfonie alle quali ci ha abituato. Y non commetterà mai un omicidio. In nessuna circostanza Z potrà tradirci. Una volta predisposto tutto nella nostra mente, quanto più di rado vediamo una particolare persona, tanto più ci dà soddisfazione verificare con quale obbedienza essa si conformi, ogni volta che ci giungono sue notizie, all’idea che abbiamo di lei. Ogni diversione nei fati che abbiamo stabilito ci sembrerebbe non solo anomala, ma addirittura immorale. Preferiremmo non aver mai conosciuto il nostro vicino, il venditore di hot-dog in pensione, se dovesse saltar fuori che ha appena pubblicato il più grande libro di poesia della sua epoca.

A Kasbeam un barbiere molto vecchio mi fece un taglio molto mediocre: blaterava di un suo figlio che giocava a baseball, e a ogni consonante esplosiva mi sputava nel collo, e di tanto in tanto si puliva gli occhiali sulla mia mantellina bianca, o interrompeva il tremulo lavorio delle sue forbici per mostrarmi sbiaditi ritagli di giornale, e io ero così distratto che fu uno choc rendermi conto, mentre lui mi indicava una fotografia incorniciata in mezzo alle vetuste lozioni grigie, che il giovane giocatore coi baffi era morto da trent’anni.
[...il barbiere di Kasbeam (che mi è costato un mese di lavoro)]

23 marzo 2017

Questo è un romanzo magnifico, signori della Corte


Ho iniziato a leggerlo quasi per caso, un po' svogliatamente, giusto perché sta nelle liste di tutti quelli che compilano le liste dei libri che non possiamo non leggere.
Questo è un libro bello come un libro quando è bello, direbbe quel gnoccone languido di Prévert.
Oh voi che non vi siete ancora presi la briga di leggerlo, preparatevi all'agone, non indugiate, sto per svelarvi il titolo: compratelo, rubatelo su una bancarella dell'usato, ghermitelo dalla libreria di vostra zia.
Oh voi che l'avete letto e dimenticato, ricercatelo, riprendetelo a mano e gustatevelo come si gusta davvero un eccellente vino, quando non si ha sete.
Oh voi che vi dilettate nella miserevole e nobile arte dello scrivere, studiatene la struttura narrativa, l'aggettivazione, le similitudini, il lessico, l'essenzialità e la ferocia, la precisione e la leggerezza e - dopo - buttate ogni vostro scritto nel cesso.
Questo è IL romanzo, signori della Corte. Questo vale un fottuto 4,9 carver e li vale tutti, e quello 0,1 di scarto dal top sta solo nella data di uscita successiva a Il Giovane Holden, mio master meter personale di tutte le graduatorie libresche.
Dentro ci sono tutti.
C'è Salinger, per l'appunto, ma c'è Stephen King, e c'è DeLillo (oh, quanto DeLillo!), c'è anche John Fante, potete scommetterci, ci sono i fratelli Grimm con la Rowling.
Dentro c'è Agatha Christie che fa all'amore con Dostoevskij.
Dentro c'è tutto.
Manco a dirlo c'è un botto di Eros e di Thanatos, c'è il mattone e la piuma, il monsone di sud-ovest e l'aria secca di Tamanrasset, c'è il lupo e c'è l'agnello, c'è l'effluvio dei fiori a primavera e la puzza di fogna in una giornata di pioggia e vento contrario, c'è una mano di carta vetrata e uno svolazzo di seta, c'è la noia e il fuoco d'artificio, c'è Lucifero con tutti i santi, c'è il ballo delle debuttanti e il liscio in piazza la sera d'estate, c'è il pane azzimo e il controfiletto alla wellington, ci sei tu e ci sono io.
C'è quello che vorresti e quello che non vorresti trovare.
C'è il fiato lungo della vita eterna e l'espressione del mortal sospiro.
C'è la perfetta asimmetria dell'arte pura.

(segue qui)

20 marzo 2017

Secondo clarino (3)

(Segue da qui e da qui)
 
 Alzo la cornetta per sentire se il telefono è a posto. Un tu tu mi dice di sì. Controllo anche il volume della suoneria: è al massimo, ma Walter non chiama ancora. E sono le dieci e dieci. Potrei anche volermi andare a sdraiare a quest’ora, penso sia un mio diritto no? Di venerdì sera, poi. E questo cosa fa? Quando chiama? Evidentemente pensa che non c’ho niente da fare, questo pensa che stia qui a perder tempo in attesa della sua telefonata e della sua stramaledetta solfa bastarda. O pensa che io non abbia niente di meglio da fare il venerdì sera che scoprire il cavolo di posto dove andremo o non andremo a suonare domenica. Ma appena chiama lo sistemo!
Alle dieci e venti è veramente troppo. Walter non si è mai comportato così e niente gli dà il diritto di farlo. Niente. A meno che non abbia chiamato proprio in quell’attimo in cui ho alzato la cornetta per sentire se c’era linea. Può essere. Sto per riprendere su la cornetta per verificare la linea, ma m’immagino Walter di là che fa il numero… allora la lascio giù. E aspetto. Niente, nessuno squillo.
Non si saranno dimenticati di me? Capace che se non mi chiamano una volta e suonano senza il secondo clarino, vedono che non fa nessuna differenza e poi magari mi lasciano a casa per definizione.
Walter, Walter diobonino, fai questo cacchio di numero. Fai questo numero. Poi lo so… va a finire che perdo la pazienza e non mi so controllare e lo tratto male per davvero: gli fo un liscebbusso che se ne ricorda.
Mi affaccio alla porta, aprendo con cautela: una cassettiera in legno quasi rosso è spiaccicata sul muro di fronte e lascia a malapena lo spazio per passare su. O per passare giù. Richiudo.
Il telefono è sempre lì, come morto. Guardandolo adesso dubito perfino che possa suonare, mi sembra impossibile anche che abbia solo una volta suonato in vita sua, mi sembra tutto meno che un apparecchio teso ad emettere una qualche variante di un misero suono.
Sono le dieci e mezzo quando prendo su quel telefono inerte e compongo il numero di casa di Walter.
- Pronto?
- Walter, sono io.
- Oh, ciao Sergio, che si dice, che non si dice?
- No, niente, non ti ho sentito e siccome volevo parlarti…
- Dimmi dimmi, sto ancora cenando, sono stato mezz’ora a telefono con Tiberio…
Il nostro primo clarino!
- Chissà che gli ha preso, se n’è uscito con tutta una serie di menate sulle sagre, sullo squallore dei posti dove si suona, perfino sulle giacchette bordò, vallo a capire! Se aspirava a suonare con la Filarmonica di Berlino, poteva pensarci anche prima. Fatto sta, domenica siamo a Greve per la festa del Castagnaccio ma lui non viene, anzi non viene proprio più.
- No?
- No. Ma gliel’ho detto che ci importava il giusto e che avremmo suonato ugualmente bene con te primo clarino. Anzi primo secondo e ultimo. Se pensava che ci si mettesse a piangere…
Primo clarino?
- Sergio, ci sei? Che volevi, svelto perché devo finire di cenare.
- No, ti volevo chiedere… ma con quante macchine si va?
- Al solito dài, passi di qui, parcheggi e si va su con la mia, gli altri vengono col furgone.
- Bene, allora ciao.
- Ciao.
Vado per le scale e faccio una voce a quei ragazzi: è l’ora di portare su la cassettiera. Anche alla svelta, ché dopo una lucidatina allo strumento e via a nanna. Si prepara un gran fine settimana!

 (fine)



19 marzo 2017

Secondo clarino (2)

(Segue da qui)

Suona il campanello. E bussano. E poi chiamano.
- Signor Battistelli, signor Battistelli è in casa?
Riconosco la voce della tipa del piano di sopra. Rispondo da dietro la porta. Non apro mai agli estranei, capace che poi cominciano con la tazza di zucchero, la volta dopo il pane e finisce che poi se non li campi tu son sempre lì che ti suonano e ti bussano e ti chiamano. E non si chetano nemmeno con il mute.
- Sì?
- Signor Battistelli, ci dà una mano a portare su una cassettiera, per favore?
- Come?
- Una cassettiera, ce l’abbiamo giù a piano terra, sarebbe così gentile…?
- Sì, cioè no. Sono in mutande… e poi aspetto una telefonata urgente, mi dispiace.
Passo davanti alla vetrinetta del mobile e mi guardo nel riflesso, vedo la sagoma dei miei capelli e quasi mi pettino, poi torno a sedere. Come se uno fosse la ditta traslochi! C’era da immaginarselo, è pieno di questi vicini che non sanno come cavarsela da soli e suonano campanelli e bussano e ti chiamano. E comprano cassettiere.
Alla tele stanno bacchettando una specie di statuina di una specie di pensatore composta con tutta una serie di micro forme in quasi bronzo che paiono lettere dell’alfabeto. Roba dell’altro mondo!
Dal pianerottolo penetra qualcosa come “Allora, signor Battistelli, se… telefonata…  mano… grazie… ” o giù di lì.
Sono le nove e mezzo. Mi ripasso mentalmente quello che dirò a Walter. No, guarda, non ci sarò domenica. E lui mi chiederà cos’ho cosa non ho. Niente, non ho niente, solo non verrò, né domenica né mai più. E lui mi chiederà cosa farò, cosa non farò. Niente, o qualcosa, in ogni caso non riguarderà una qualche sagra, né un qualche secondo clarino né una giacchettina bordò dai bottoni quasi dorati. E lui mi chiederà come mai come non mai. Così, dirò, oppure metterò giù. Ecco, magari metto giù.
Walter farà per attaccare la solita solfa, ma io probabile che gli metta giù il telefono, alla fine.
Il clarino. Il secondo clarino. Due che suonano il clarino. Ed io sono pure il secondo. Ma come ho fatto a star dietro a questi svalvolati per quasi vent’anni? Le majorettes che ci aprono la strada tra un po’ sono le trisnipoti di quelle che c’erano quando ho cominciato, e io sono ancora lì con questa specie di tubo in mano a soffiarci dentro come uno scemo: pippiripì pippiripì.
Prendete l’Ottorino Respighi, fatele eseguire il primo pezzo che vi capita a tiro davanti ad un qualificato novero di esperti. Poi ripigliatela, cassate il secondo clarino, magari mandatelo a traslocare delle cassettiere, e fate ripetere il concerto daccapo. Nessuno si accorgerà di alcuna udibile differenza. A parte il titolare del secondo clarino. E a parte la cassettiera. Forse.
Sono le nove e quaranta e non ho proprio voglia di stare ad ascoltare Walter. Fai che mi chiami e attacchi colla solfa del come stai come non stai, lo stoppo subito, guarda, gli dico che non mi cerchi più, che non mi chiami e che si procuri da qualche altra parte una specie di secondo clarino, oppure no, chissenefrega.
C’è muffa sul muro: è sempre stata un problema, in questo buco di casa. La muffa della parete nord ha iniziato un clamorosa avanzata e si sta espandendo sul soffitto e sulla parete est con chiazze gonfie e verdastre. Un movimento lento e costante e empirico. Asimmetrica, la muffa avanza e disegna i suoi astratti. Quasi da chiamare la casa d’aste e mandargli un pezzo di muro per sentire non tanto se lo vendono, perché lo vendono di sicuro, ma come lo presentano al pubblico. Muffa su intonaco – 110 x 80? Può essere.
Sono quasi le dieci, chiaro che Walter ha avuto il suo bel daffare stasera ad avvisare tutti; non lo sapessero che il venerdì sera c’è il giro delle telefonate! Dev’essere una bella palla anche dover chiamare tutta la banda per notificare dove si va dove non si va, dove ci si trova e dove non ci si trova, a che ora ci si trova e a che ora non ci si trova. Io non ce la farei, davvero, non ci sono tagliato per mettermi a telefonare e salutare e chiacchierare… poi di venerdì sera. Se aspettano che li chiami io!
Porto la sedia vicino al telefono così faccio prima a liberarmi di questa roba che devo dirgli. Appena suona tiro su e non gliela faccio nemmeno attaccare la sua penosa solfa.
Struscio un dito sulla superficie del mobile in quasi betulla e rilevo l’esistenza di uno strato di polvere. È sottile, quasi rassicurante. Faccio due o tre stradine col dito, potrei tirarla via con lo straccio, ma non mi va di allontanarmi dal telefono proprio adesso. Fuori un gran tramestio, sembra che abbiano deciso di portare su quella cassettiera, finalmente. Tendo l’orecchio e sento un gran botto.
“Attento, attento!”
O forse sento prima attento attento e poi il gran botto proprio davanti al mio portone, sul pianerottolo.
“Così non ci si fa, dài… vediamo dopo… oppure domani…”
Poi vanno via. Deduco che mi abbiano lasciato quella stupida cassettiera sull’uscio di casa.

(continua qui)

17 marzo 2017

Secondo clarino (1)



Al mondo esiste soltanto una cosa
peggiore di un tipo che suona il clarino.
Due tipi che suonano il clarino.

(Woody Allen)









Mangio le uova direttamente dal padellino, l’ho appoggiato sopra uno di questi sottopentola quasi in sughero acquistato per qualche migliaio di lire in uno di questi negozi svedesi quasi di mobili. La tivù, a trenta centimetri da me, non passa niente di buono. L’audio è sul mute, in ogni caso, non vorrei non sentire il telefono.
È venerdì sera e verso le nove e mezza mi chiamerà Walter che attaccherà con la solita solfa del come stai come non stai, del cosa fai e del cosa non fai, del dove andremo a suonare e del dove non andremo a suonare. Una patetica solfa inascoltabile!
Proprio quello che ci vuole per tenerti su di morale: diventare tenutario del segreto luogo dove andare a soffiare dentro al mio nero-argento di un secondo clarino della banda Ottorino Respighi.
È ottobre, quasi novembre, e le sagre impazzano. Almeno fosse un tempo che invoglia. Dal cinghiale al fungo porcino, dalla polenta al tartufo, dall’uva al fagiolo borlotto… e noi in su e in giù per le stradine di uno sperduto paesino a suonare e a battere i denti, incastrati nelle nostre belle camicie bianche e nelle nostre giacchettine bordò quasi di lana dai bottoni lucenti quasi dorati.
Alla tele adesso c’è una specie di asta artistica. Un tipo impomatato, con occhialini tondi quasi da finocchio intellettuale, sta mostrando quella che dovrebbe essere un’opera d’arte contemporanea: un appiccicaticcio di lattine schiacciate. Birre e coca-cole compresse e tenute su - dio sa come! - pronte ad essere appese a faccia vista su una parete della vostra casa. Mi chiedo a chi possa venire in mente di ideare e realizzare una tale schifezza, e mi chiedo come sia possibile che una qualche casa d’aste pensi di venderla senza incappare nel reato di crimini contro l’umanità, e mi chiedo da dove possa sbucare il pollo che telefonerà per buttare via una trentina di milioni di lire per un ammasso di latte spiaccicate. E mi chiedo anche perché un cristiano che mai si metterebbe all’anima di realizzare, tentar di vendere o tantomeno comprare quest’opera qua, possa restare incantato, per un tempo indefinito, da questo penoso rito promanato via etere. Poi struscio il padellino con un pezzo di pane e passo agli atti la pratica cena.
Capita che Walter chiami anche prima delle nove e mezza, ma di solito è preciso. Quindi aspetto. Davanti al teleschermo muto che sparpaglia condensati di raccolte differenziate rifiuti in guisa di capolavori nei buoni salotti di quella mezza Italia di collezionisti aristocratici. Dal greco aristos.
Non lo so di preciso quand’è che ho cominciato a suonare il clarino, né perché o per fare contento chi. So esattamente quando l’ho suonato per l’ultima volta: domenica scorsa, a Vicchio. Non ho intenzione di prenderlo più in mano. Chiami pure Walter e attacchi con la sua bella solfettina del come butta e del come non butta, è deciso: niente più sputazzate dentro al clarinetto per me, niente più bande musicali né dannate sagre paesane per tutto il resto della mia schifosa vita.
Non che ci sia un gran resto, per la verità. Un’altra ventina d’anni, trenta a dire tanto. Una pisciata. E non la voglio passare a monta e smonta il clarino e asciuga la saliva e ascolta la solfa di Walter e sonacchia qualche marcetta in una quasi festa paesana del circondario. Scordàtevelo!
Non sto esagerando, la vita del secondo clarino è poi questa, suppergiù.

(prosegue qui)

13 marzo 2017

Sandalini con gli occhi e un cane

(copyright LaDonnaCamèl)
Prima li odiavo i sandalini con gli occhi, troppo blu, troppo comuni, troppo da domenica alla messa e shhh stai zitta.
Non ci riuscivo a correre bene e Marco, Stefano e gli altri di via Goito mi lasciavano sempre indietro, con le loro scarpe di tela, fiche e mezzo strappate.
Un pregio ce l'avevano però, i sandalini con gli occhi: la sera quando ti toglievi i calzini, ti trovavi sulla pelle dei piedi gli occhi dipinti dalla polvere, ed era dallo spessore dello strato di polvere e dall'intensità della macchia che potevi valutare senza rischio di sbagliare la tua giornata da zero a cento, da sprecata a vissuta.
Era un vero peccato lavarsi i piedi.
Ma poi, quella volta là, la mamma me ne ha presi un paio chiari, panna per la precisione.
E lì ho fatto un passo per diventare una ragazzina perbene o quello che sono adesso, e ho cominciato a lasciarli correre Marco e Stefano.
Non c'era mica da sporcarli i sandalini con gli occhi, volevo metterli e basta, quand'anche fosse solo a messa e shhh stai zitta.
E con tutto che ero più affezionata a Fuffi che a Cinzia, quando il mio cucciolo me li ha fatti a brandelli, ecco lì c'è stato un tempo in cui ho voluto davvero più bene a mia sorella che al cane.
Ma saranno stati un paio di giorni.

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Dedicated to Bianca (mi sono permesso)


9 marzo 2017

Voglio vedere voi con un fratello zoppo


Un fratello zoppo non te lo dimentichi mica, ti resta appiccicato come un francobollo leccato per bene e non lo tiri via manco con il vapore.
Eccolo là il tuo fratello zoppo, come un'ombra, più di un'ombra nella vita tua.
Almeno l'ombra spegni la luce e sparisce. Prova a spegnere tutto il mondo: tuo fratello sarà lì e sarà zoppo.
Che "zoppo" sta nel gruppone delle parolacce, bandite in casa e sulla bocca di qualsiasi coglione capace a parlare fuori.
A casa aiuta tuo fratello, lo zoppo è sottinteso. Fuori invece è tutto esplicito, nessuna miseranda pietà, sei il fratello dello zoppo ed è quasi meglio così.
Se ti arriva in dono uno zoppo è come se ti arriva un anatema, è per sempre, cari miei.
Ti puoi imparare La Divina Commedia a ritroso, puoi salire e scendere le scale zompettando sulle braccia, puoi vincere il nobèl per la pace o fare i nodi ai piccioli delle ciliege con la lingua, sempre il fratello dello zoppo sarai.
Perfino se lo zoppo lo vanno a operare, come sembra, con una protesi per l'anca e una staffa per la tibia, pure se lo zoppo alla fine di questa lacrimevole storia diventa un campione di ballo, o magari si mette a correre la maratona, o chessò finisce modello e sfila in passerella, pure se lo zoppo tutto questo, tu rimani sempre il fratello dello zoppo.
È che ce la metto tutta fratello mio, credimi, per camminare normale.

5 marzo 2017

Rosita

Continuava a guardare gli orecchini appoggiati sulla mensola in bagno, a un palmo dal suo naso. Piccola che era. Ma non guardava quei due avanzi di chincaglieria, che pure amava, non quelli reali, puntava la loro immagine nello specchio.
Era un gioco che aveva imparato a fare da un po' di tempo, in un estremo tentativo di difesa, nella speranza di erigere un muro oltre il quale confinare fiati alcolici e dita spudorate.
Guardava le perline opache fissate sui cerchietti in finto argento e si ricordava di quando sua madre glieli aveva regalati, quel giorno in cui era cominciato tutto. E tutto era finito.
- Rositaaa... - lui aveva fretta.
Rosita, piccola rosa che era.
Guardava gli orecchini oltre la superficie riflettente e vi costruiva un mondo attorno, senza profumi e senza dolore, un luogo quasi fisico dove rifugiarsi per una mezz'ora, risucchiata dal vuoto incomprimibile dell'universo specchiato.
Era un po' come quando da bambina chiudeva gli occhi per non fare accadere le cose.
Ma poi quelle accadevano lo stesso.
Le cose non ce l'hanno il rispetto degli occhi chiusi dei bimbi.

17 febbraio 2017

Divisione Potente (2)

Segue da Divisione Potente (1)

Il vecchio doic strizza gli occhi a fessura in un fare che sembra temerario e di sfida.
- Badstuber, Ja. Risposta è ancora ja.
Non è un uomo avvezzo a chinare il capo o a scusarsi; la sola postura, impettita e poderosa, parla per lui. Indossa un cardigan variopinto dal vago richiamo latinoamericano aperto su una camicia chiara, pantaloni neri larghi e un paio di pantofole marroni con la zip.
Uno di fronte all'altro, si studiano, si annusano.
La solennità con cui la figura del tedesco si staglia nel vano porta è però compromessa senza appello da una macchia di sugo sulla camicia. Questo piccolo alone rossastro attira l'attenzione di Baldo senza che possa farci niente.
È la spia di una sciatteria che Baldo non pensava di dover affrontare, non in un ex ufficiale dell'esercito tedesco, ma forse è anche un'uscita di sicurezza.
È preparato per giudicare, è preparato per rispondere a tono, per puntare il dito e per incazzarsi. È preparato per sparare.
Dalla casa filtra il suono di un televisore acceso, parole diffuse in suoni grattugiati e duri, che hanno il potere di rispedirlo nel buco. Si rivede dentro a respirare la terra, con le mani premute sulle orecchie nel vano tentativo di isolarsi dagli spari e dalle grida.
È qui che tira fuori la pistola dalla tasca.
Il tribunale del popolo riunitosi sulla soglia di una casa alla periferia di Friburgo è ridotto all'osso: imputato e giudice, ma non per questo è meno qualificato a deliberare.
Arringa e pubblica accusa si confrontano in pochi attimi intrecciati in un comune e nero passato e rigonfi di indecifrabile silenzio.
I passi pesanti del tempo che fu rimbombano fino a loro, schiantano quella fetta di presente pronti a proiettarsi in un futuro che può ancora essere tutto o niente, per entrambi.
Baldo non è certo che la pistola funzioni, è pur sempre un residuato bellico come arma e come munizioni. Con tutto che l'ha oliata per bene, chissà mai cosa succederà allo scatto del grilletto. Certo il ferro può fare il lavoro suo, o magari cilecca, oppure esplodere e ammazzarli entrambi, è un rischio a ben guardare.
Ma non è per quello che non spara.
Più per la macchia di sugo.
Quella frittella è la prova di una trascuratezza che ha sopraffatto il vecchio doic e, tutto considerato, appare a Baldo una sufficiente punizione in questo universo così lontano, nella sua dimensione di spazio e di tempo, dalla notte del 2 agosto 1944, lassù alla casa del pastore.
Baldo continua a guardare verso il vecchio maresciallo, è lui sì.
Inizia a muovere la testa nervosamente dall'alto verso il basso in un frenetico annuire che non porta da nessuna parte.
Quanti anni passati a fare ricerche sulle truppe tedesche di stanza a Firenze, quanti giornali sfogliati e fotocopiati, quante notti dentro al buco, quanti fantasmi.
Non la dice un'altra parola, rimette la pistola in tasca e si volta, percorrendo il vialetto fino al cancellino a ritroso.
Poi, per un improvviso rumore di vetri infranti, si voltano entrambi verso la casa del vicino: è l'ultima cosa che, in qualche assurdo modo, li unisce.

Otto Ladstaetter aveva perso la fiducia, ormai non ci sperava più nel partigiano giustiziere a cui aveva scritto la missiva delatoria, finché non notò uno tizio mai visto prima, stonato e pensieroso, parcheggiare una brutta macchina italiana in fondo alla via.
Dovette aspettare una giornata, ma sembrava proprio che ne valesse la pena.
Spiò tutta la scena dalla finestra della sua camera da letto, al primo piano.
Ebbe un'erezione quando in mano al dottore Baldini comparve la rivoltella, filava tutto così liscio, facile come mangiare una pesca.
Ora! Ora! Tifava da dietro la tendina. Era in curva allo stadio, sciarpato e paonazzo, ad aspettare che il centravanti della sua squadra battesse il cazzo di calcio di rigore spiazzando il portiere.
Fu lui invece quello preso in contropiede dalla ritirata di Baldo.
Bestemmiò come al peggior rigore tirato alle stelle, prese a calci il puf fino a scoperchiarlo e a farlo rotolare via, agguantò la radiosveglia dal comodino, segnava le 18 e 43, e la scaraventò contro la finestra.

Hans Badstuber era stranamente calmo. Lui stesso si era stupito, ripensandoci, di come aveva affrontato la situazione. In effetti non aveva fatto molto a parte stringere gli occhi per mettere a fuoco il visitatore, chissà dove aveva lasciato gli occhiali! Il viso di Baldo non gli diceva niente ma, al tempo stesso, spalancava la porta blindata del suo intimo. Ringraziò il suo dio per essere arrivato fino lì, per i suoi figli e per i suoi nipoti. Poi ebbe un pensiero preoccupato per il suo cane. Chi se lo sarebbe preso il pulcioso?
La prospettiva di morte stranamente non l'aveva spaventato, semmai rassicurato. Ma poi non era morto, questo era lampante. Non lo sapeva il perché, ma in fondo non gli interessava nemmeno.
Tornò sul divano ancora in tempo per la fine del telefilm e riprese il vassoio con il piatto di spaghetti alla bolognese, caso voleva, italiani come quel cristo resuscitato dalla guerra e presentatosi all'uscio.
Quando il campanello suonò di nuovo, sentì un brivido secco disegnargli la schiena. Ripensò a quella pistola lucida e ridicola di poco prima e si servì dello spioncino.
Era solo il coglione del suo vicino di casa, ma perché mai aveva una scure?
Aprì.

Al commissariato di polizia di Friburgo Baldo consegnò la pistola e confessò che era venuto per ammazzare un uomo, e anche che non l'aveva fatto e tutta la tiritera. Facessero di lui quello che era giusto, non voleva campare con un peso tale sulla coscienza.

Tre giorni dopo Baldo fu rilasciato, dopo un processo per direttissima e una condanna a sei mesi con la condizionale per detenzione illegale di armi da fuoco. Solo allora, in un mattino prussiano, fresco e stipato di nebbia fine, solo allora si decise a chiamare la moglie.
- Lilla, ciao, va tutto bene. Stasera per cena dovrei essere a casa.


15 febbraio 2017

Divisione Potente (1)

- Werner Franz?
- Ja...
- O preferisce maresciallo Badstuber?

Silvano Baldini detto Baldo veniva dall'Italia da solo, con la sua Ritmo bianca: tutta una tirata da Firenze. Le indicazioni erano precise e aveva trovato il vecchio, il sedicente Werner Franz, in una villetta monofamiliare alla periferia di Friburgo. Il vecchio doic era uscito di casa due volte quel giorno. Al mattino presto con il cane aveva fatto un giro nei dintorni. Nel pomeriggio a prendere dei presumibili nipoti a scuola che, sempre a piedi, aveva accompagnato da un presumibile figlio. Erano passati per il parco, i due nipotini belli e biondi maschio e femmina con il nonno Werner, o Franz, che manco qual era il nome si capiva.
Un nonno.
Ma Giannetto non ce l'aveva fatta a sposarsi, e così niente babbo e niente nonno, così come Smanne, Cannone e Berto, tutti troppo giovani per trovare una moglie e figliare in quei tempi così difficili. Nessun babbo e nessun nonno tra le vittime della strage alla casa del pastore. Solo Balena, il caposquadra, era sposato e la sua Rosa era già in attesa, ma non avrebbe conosciuto né Marilena, la sua bellissima figlia, né i suoi nipotini.
Cinque vite partigiane appena sbocciate ma potate via senza pietà.
Si era fatto forza ripensando a loro, aveva tirato un sospirone e si era mosso dalla panchina. Aveva aperto il cancellino sulla strada e si era presentato direttamente alla porta di casa.

Egregio dottore Baldini, così cominciava quella strana lettera senza una data, senza una firma e scritta fitta nella parte alta del foglio. Si sarebbe detto che l'autore pensasse di scrivere un poema ma poi avesse perso l'ispirazione.
Era meglio se ero dottore, pensò Baldo. La missiva poteva portare solo grattacapi, ma la lesse lo stesso, dopotutto che altro c'era da fare? L'aveva visto in tivù, proseguiva il tizio nella lettera, a quella trasmissione sui partigiani italiani, aveva ascoltato la sua storia e il caso voleva che avesse una notizia per lui. Una MOLTA BELLA NOTIZIA, così, tutto in stampatello maiuscolo.

Otto Ladstaetter si stava facendo una birra sul divano e saltellava tra i canali quando vide una vecchia foto di un soldato tedesco, di un ufficiale tedesco, a tutto schermo. Che iddìo l'accecasse se non era quel porco del suo vicino di casa, che va bene sarà stato pure un bravo soldato nella sua fottuta giovinezza, e avrà servito il cazzoso Reich, e fatto il suo sporco dovere, ma diavolo se era un rompicoglioni di prima fascia. Potava la siepe senza raccogliere le frasche, intanto, non aveva messo un euro quando c'era stato da rifare il muretto basso di confine, quando usciva in auto la teneva accesa venti minuti prima di partire davvero e levarsi di torno e, per non farsi mancare niente, aveva un cane bastardo che ti veniva in giardino a scavare e far le robe grosse e le robe piccole.
Forse lo poteva aiutare quell'ex partigiano dal viso scavato e commosso che alla tivù blaterava a proposito dei suoi compagni d'arme sterminati.

Baldo non ci voleva andare alla trasmissione, e soprattutto non voleva dei soldi per partecipare. Lo convinse suo figlio grande ad andarci, fallo per Balena, gli disse, glielo devi, glielo dobbiamo tutti. Ritornò a vedere la lapide, anche se la conosceva a memoria, parlò con i loro nomi incisi sul marmo, anzi parlò con i loro soprannomi ché come si chiamavano davvero non se lo ricordava più nessuno e certo non era importante. Sentì Balena urlare Muoviti, cazzo!
Così si mosse, si rimbellettò e si fece portare di là dalla tivù. Raccontò tutto, con lo stomaco attorcigliato come un canapo e gli occhi gonfi di chi sopravvive alla tragedia senza averne un merito specifico.

Smanne, che era di guardia quella notte, non fece quasi in tempo a tornare indietro ad avvertire.
- I tedeschi, i tedeschi - urlava - sono qui!
Si svegliarono tutti di soprassalto e si prepararono alla battaglia, ma di più si prepararono a morire.
Balena prese Baldo per la collottola come si agguanta un gattino rognoso abbandonato dalla micia, e gli mollò un calcio nel culo.
- Forza, nel buco!
- No, voglio una pistola anch'io, datemi una pistola anche a me, so sparare!
- Non dire bischerate, forza infila dentro. E muoviti, cazzo!
E Baldo, il ragazzino di quindici anni, il portafortuna, poté solo rannicchiarsi in fondo al buco e tapparsi le orecchie per benino.
Il buco era un tunnel a forma di "U" nel costone di un balzo argilloso, l'aveva scavato il pastore, ci teneva il formaggio in fresco d'estate, quando ce n'era.

Il maresciallo a capo della pattuglia in lento ripiegamento aveva mostrato ai soldati la strada sulla carta geografica del luogo e dove stava la capanna in cui dormivano i luridi partigiani. Sarebbero andati su di notte a fare il lavoro, nulla che non si potesse affrontare con una decina di soldati volonterosi e bisognosi di sfogo.

Avevano seguito la Lilla, la nipote della Dina. Era lei che ogni tre giorni caricava la bici e vedeva di portare delle provviste ai ragazzi nascosti al casone del pastore, al limitare del bosco di Fontesanta. Per la verità era tutta salita, e parecchio ripida, e la Lilla la faceva a piedi spingendo la bici, con le provviste in una cassetta di legno legata dietro.
Ma scendere giù, tornare in paese affettando l'aria, era così liberatorio da farle dimenticare persino il rischio che correva.
In certi tratti di discesa mollava i freni, socchiudeva gli occhi, ed esisteva solo il vento che le faceva scoppiettare il vestito.

12 febbraio 2017

Gigliola cara


Gigliola cara, scrivo per tranquillizzarvi.
Per quanto vostra madre non si sia ancora rimessa del tutto dalla fastidiosa bronchite che l'affligge oramai dallo scorso inverno, si può finalmente affermare che ne stia uscendo. Giusto ieri, si è tolta le scarpe sul bagnasciuga e a piedi nudi è andata giù fino al molo, tenendosi su la gonna con le mani.
Per quanto la sua ostinata contrarietà a ogni tipo di farmaco ne abbia ragionevolmente rallentato la guarigione, cominciare a vederla osare, riuscire ancora a scoprire una piega di sorriso sul suo volto, mi scalda il cuore.
Rallegratevene, Gigliola cara.
Non c'è bisogno che veniate, almeno per il momento, vederla così in salute rende meno gravosi i miei impegni e mi aiuta a superare meglio le fatiche.
Non ci crederete, ma ho persino imparato a stirare, seppure lo faccio di nascosto a vostra madre e con le imposte chiuse. Devo difendermi dagli sguardi insistenti dei Barbaglini che son sempre lì a occhieggiare, poveri loro. E povero mondo.
Tuttavia incontro ancora difficoltà al momento di ripiegare gli accappatoi, sarebbe opportuna una vostra lezione in merito, quando e se capiterà un'occasione.
Oggi, guardando il mare, mi è salita l'insana voglia di noleggiare il pattino, come si fece l'anno scorso quando poi non si riusciva più a tornare a riva e ci prese il ridere. Se non fosse stato per il buon cuore del bagnino, si sarebbe andati alla deriva, ridendo ridendo, fino in Corsica.
Non sono mai stato buono a remare. Eppure sembra così facile a vederlo fare, ma forse va bene quando a farlo sono i giovanotti sportivi di oggi, ma non si addice a un vecchio maestro in pensione dai muscoli ammutinati.
Non sono mai stato buono nemmeno a dirvi quanto vi voglio bene, Gigliola cara, e anche se non potrò mai riempire il vuoto lasciato da vostro padre - del resto nemmeno lo vorrei - vi posso promettere che starò vicino a vostra madre con dedizione e con amore, come di certo avrebbe fatto lui.
Forte dei Marmi, 27 luglio 1964

P.S. C'è una brezza vivace stasera: dal terrazzino si vede la striscia infinita di cielo appoggiata sul mare. Non c'è una nuvola, tutta la volta è azzurro purissimo, non un filo di bianco, da nessuna parte. È vero. Anche se inverosimile, è vero, dovreste vederlo.
"Non esiste un cielo così" è quello che dissi a un mio alunno diversi anni fa "mettici un po' di nuvole che è più bello, diventa più vero".
E invece no, Gigliola cara, adesso l'ho capito, non è utopia tirare via tutte le nuvole dal cielo, anche se è tardi per dirlo a quel bambino.
Anche i maestri dovrebbero prendersi dei brutti voti qualche volta, non credete?
Ecco, mi sono dilungato, come spesso mi accade quando riprendo la penna in mano dopo tanto tempo, non vogliatemene.
Vostro Piero


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5 gennaio 2016

Bacino passa tutto


Non ricordo di avere mai giocato con le bambole, io. Mi sono sempre trovata meglio con i ragazzi, per i boschi, a caccia di lucertole, a pescare al lago dei pioppi o in giro in bici. Lei è un maschiaccio, diceva mia madre alle sue amiche, ai nostri parenti, al prete. Ancora non fermava gli sconosciuti per strada ma c’eravamo vicini.
D’altra parte, abitavamo in un gruppetto di case a un paio di chilometri dal paese più prossimo ed era fortemente consigliato adattarsi a giocare con chi c’era. Mentre difettavano le bambine della mia età, di maschietti tre o quattro ce n’erano e con loro stavo.
Ci sono andata a scuola, ci ho giocato, con loro ho intrecciato le prime storie di baci e d’amore e ci sono pure finita in galera con un paio. Alla fine ne ho sposato uno, pure se rimango un maschiaccio.
Stavo spesso con Walterone e il Pazzo, gli opposti di una calamita. Alto e grosso Walterone, basso e segaligno il Pazzo. Buono come una pizza margherita doppia mozzarella Walterone e perfido e incontrollabile come un cane sciolto il Pazzo. Walterone è stato il mio primo fidanzato, il Pazzo si è preso la mia verginità. Walterone pendeva dalle mie labbra e mi seguiva in ogni azione che fosse una genialata o una stronzata superlativa. Il Pazzo andava dove lo portava la sua testa bacata. Suo padre l’aveva messo sotto con il trattore che aveva cinque o sei anni arandogli letteralmente la testa e questa era la causa ufficiale della sua follia, anche se controprove non ce n’erano. Paolo era il nome dimenticato da tutti, troppo più comodo il Pazzo.

Rientro oggi dalle ferie, tre settimane in Sardegna. Fatemi ancorare un ombrellone in una giornata di libeccio, adesso, ma non mettetemi un bisturi in mano, questo vorrei. Non chiedo tanto, ma non è possibile.
- Dottoressa, ce ne sono solo tre oggi.
- (Solo?)
- Bardini Adelina, letto 15, tumore all’intestino. Lastrucci Camilla, la bimba del 19 con l’appendicite. E Maggi Luigi, quell’anziano del 22, quello col barbone, tumore allo stomaco.
- Bene, almeno la mattinata è variegata. Maggi Luigi… Maggi Luigi…

 Il Pazzo girava con un coltello in manico d’osso, la lama gli sbucava di tre centimetri buoni dal palmo della mano.
- Guarda che roba, mi arriva dritto al cuore, Walterone fammi vedere.
E Walterone stendeva la mano per la settecentomilionesima volta.
- Anche a te Walterone, t’ammazza anche a te.
Era un coltellaccio richiudibile, il manico mezzo rovinato da un lato e tendente al verde, una lama scura e inquietante, pure per un maschiaccio come me.
- Ma perché hai quel coltello? – gli avevo chiesto la prima volta che lo sfoggiò.
- E’ di mio nonno.
- Appunto.
- Appunto cosa?
- Appunto dico, se è di tuo nonno, perché ce l’hai te?
- Ce lo volevi avere te?
- No, che c’entra, ma perché non ce l’ha tuo nonno?
- Mio nonno è rimbambito, non sa più nemmeno come si chiama, è meglio se lo tengo io.

Il Pazzo venne fuori una sera con questa storia che avremmo dovuto rapinare il Maggi e il suo negozio di ferramenta. Mi sembrò subito un’idea strampalata anche se ci avrebbero fatto comodo qualche centomila lire, dato che avevamo iniziato tutti e tre a fumare senza pausa e lo spicciolame che ci pioveva in tasca dal lato famiglia non copriva il vizio. Tutt’al più le mentine dalla Licia in piazza, giusto quelle ci potevamo permettere.
- Ma se ci servono le sigarette, rapiniamo il tabacchino.
- No.
- Perché? E’ più semplice, prendiamo direttamente le cicche, risparmiamo un passaggio.
In realtà la signora che stava al tabacchi, una vecchia baldracca ossigenata, smalto rosso e scortecciato alle unghie con ombretto celeste di serie, mi sembrava più abbordabile del Maggi.
Mi ricordo che un giorno eravamo appostati al ponticino sopra il fiume, con una carabina ad aria compressa sparavamo alle anatre nell’acqua. Quando passò il Maggi con una busta della Coop in una mano. Il Pazzo ci informò che voleva sparargli a una mano, ma da trenta centimetri. - Pronti a telare ragazzi, quando passa di qui gli sparo alla mano. Gliel’avrebbe spappolata pensai, forse l’avrebbe ucciso chissà. Gli sparò e lo colpì in pieno. Quello non fece mezza piega, continuò per la sua via con la sportina e la soddisfazione d’incazzarsi non ce la diede. Un duro, mi era sembrato, una specie di Terence Hill lo chiamavano Trinità, ma più cattivo.
Ora, andare a rapinare proprio lui somigliava a un suicidio.
- No, è meglio il Maggi, ha sempre il negozio pieno, si va di sera ci si trova un sacco di soldi.
- Ci sto – dissi, che non credesse che avessi paura.
Walterone mi guarda e si convince anche lui.
- Va bene – fa, annuendo da par suo.

Passo dal 22. Il vecchio col barbone è proprio il Maggi Luigi. Alla ferramenta non ci sta più, forse ci sono i figli, forse l’ha venduta, non so.
- Come va Maggi? – chiedo.
- Come la vuole che vada? Bene no davvero. Quando si viene in questi posti…
- Ma vedrà che la si rimette a nuovo! Lasci fare a noi…
La barba è lunga, quasi incolta, la cicatrice non si vede. Forse proprio un centimetro o due, confusa in una ruga delle tante.

Dopo abbiamo attraversato la notte in una corsa forsennata nel tentativo di sfuggire ai carabinieri. Sirene, torce e pattuglie che nemmeno in Barbagia per Grazianeddu. Il piano che avevamo stabilito era saltato subito, quando al Pazzo gli s’erano velati gli occhi, appena fuori dal negozio di ferramenta. Io avevo ritagliato una terna di maschere col cartone rigato, mi ero messa d’impegno, mi ero ispirata ai totem dei pellerossa, le avevo persino colorate a tempera, ma il Pazzo partì per una strada diversa. - Niente maschere, forza, si va così.
Il Maggi lo presero lui e Walterone che stava tirando giù il bandone, lo riportarono dentro e io dietro. Poi gli eventi precipitarono prima che potessimo dire ba. Walterone reggeva il Maggi tenendogli le braccia dietro la schiena e il Pazzo lo minacciava puntandogli al viso il coltellaccio del nonno. D’improvviso mi ritrovai a cercare con lo sguardo la mano del Maggi, quella che non l’aveva scalfita nemmeno un proiettile della carabina. Volevo capire se la lama scura del coltello di nonno poteva raggiungere il cuore del Maggi, in tutta sincerità pregavo Gesù di no, ma non mi riuscì a sbirciarla in quel tramestio. Il Pazzo salì con un balzo sul bancone, acchiappò il Maggi per i capelli con una mano e con l’altra gli piantò la lama nella guancia, tirando poi verso la bocca e aprendogli uno squarcio enorme e rosso vivo. Il sangue gli sgorgò intenso giù lungo il collo e s’inzuppò nella camicia celeste sudata da tranviere, solo questo vidi, non certo i soldi, prima di darmela a gambe.
Corsi via veloce finché avevo fiato. Sentii dietro una bocca slabbrata urlare qualcosa di molto simile ad aiuto, poi corsi ancora e quando mi fermai, piegata sulle ginocchia, mi accorsi che i miei due compari erano lì a poche decine di metri da me. Dieci minuti più tardi sentimmo le prime sirene, oramai eravamo ai margini del bosco e ci lasciammo inghiottire come in un incubo.
Nel mezzo della notte e del bosco, e alla fine del nostro fiato, arrivammo alla Casa del Monte, una bicocca in mattoni rossi disabitata, ma nella quale sapevamo per certo esserci dei letti. Entrammo e ci fiondammo a volo libero sui materassi spogli.

Alla fine la mattinata è scivolata via rapida che nemmeno a Stintino con un giornale e le zampette a mollo. C’è da ricucire il Maggi che non era nemmeno messo male come si pensava. Un’altra striscia di annetti dovrebbe sbobinarsela.

Mi svegliai con gli occhi del Pazzo, quelli appannati e acquosi, piantati in faccia e il suo sibilo sul collo.
- Adesso è meglio che me la fai vedere. Però stai zitta, non svegliamo Walterone.
Piuttosto che dargliela mi sarei fatta volentieri aprire da orecchio a orecchio, ma non avevo scelta ed ero troppo stanca anche per oppormi. Chiusi soltanto gli occhi. Forse piansi, ma forse no. Là sotto ormai mi sentivo la bocca squarciata del Maggi che gridava aiuto.
Ci trovarono lì i carabinieri, qualche ora dopo, perduti nel sonno e tutti un po’ più grandi. Era l’alba che ci avrebbe cambiato per sempre. Cercàtela, ce n’è una nella vita di ognuno di noi.

- Dottoressa, se vuole andare, finiamo noi.
- No, grazie, no, tanto mio marito non è a casa. Sto qua io.
Intanto mando un messaggio a Walter, faccio tardi, scrivo.
Piano, si sta risvegliando il paziente del 22, sento il suo respiro che acquista l’irregolarità tipica della coscienza. L’infermiera mi chiede se lo conosco, annuisco, però non ho più voglia di parlare. Poi restiamo soli, io e il Maggi, mi avvicino al suo viso, da qui la vedo la cicatrice, un segno un filo più vivo salire su dalla guancia.
Non so cosa mi piglia, ho solo voglia di farlo e lo faccio: appoggio le mie labbra sulla sua guancia. Bacino passa tutto, penso.
Colgo un appena percettibile movimento della sua mano, gliela prendo e la stringo.
Magari resto ancora un po’.
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