Non ricordo di avere mai giocato con le bambole, io. Mi sono sempre trovata meglio con i ragazzi, per i boschi, a caccia di lucertole, a pescare al lago dei pioppi o in giro in bici.
Lei è un maschiaccio, diceva mia madre alle sue amiche, ai nostri parenti, al prete. Ancora non fermava gli sconosciuti per strada ma c’eravamo vicini.
D’altra parte, abitavamo in un gruppetto di case a un paio di chilometri dal paese più prossimo ed era fortemente consigliato adattarsi a giocare con chi c’era. Mentre difettavano le bambine della mia età, di maschietti tre o quattro ce n’erano e con loro stavo.
Ci sono andata a scuola, ci ho giocato, con loro ho intrecciato le prime storie di baci e d’amore e ci sono pure finita in galera con un paio. Alla fine ne ho sposato uno, pure se rimango un maschiaccio.
Stavo spesso con Walterone e il Pazzo, gli opposti di una calamita. Alto e grosso Walterone, basso e segaligno il Pazzo. Buono come una pizza margherita doppia mozzarella Walterone e perfido e incontrollabile come un cane sciolto il Pazzo.
Walterone è stato il mio primo fidanzato, il Pazzo si è preso la mia verginità. Walterone pendeva dalle mie labbra e mi seguiva in ogni azione che fosse una genialata o una stronzata superlativa.
Il Pazzo andava dove lo portava la sua testa bacata. Suo padre l’aveva messo sotto con il trattore che aveva cinque o sei anni arandogli letteralmente la testa e questa era la causa ufficiale della sua follia, anche se controprove non ce n’erano. Paolo era il nome dimenticato da tutti, troppo più comodo il Pazzo.
Rientro oggi dalle ferie, tre settimane in Sardegna. Fatemi ancorare un ombrellone in una giornata di libeccio, adesso, ma non mettetemi un bisturi in mano, questo vorrei. Non chiedo tanto, ma non è possibile.
- Dottoressa, ce ne sono solo tre oggi.
- (Solo?)
- Bardini Adelina, letto 15, tumore all’intestino. Lastrucci Camilla, la bimba del 19 con l’appendicite. E Maggi Luigi, quell’anziano del 22, quello col barbone, tumore allo stomaco.
- Bene, almeno la mattinata è variegata. Maggi Luigi… Maggi Luigi…
Il Pazzo girava con un coltello in manico d’osso, la lama gli sbucava di tre centimetri buoni dal palmo della mano.
- Guarda che roba, mi arriva dritto al cuore, Walterone fammi vedere.
E Walterone stendeva la mano per la settecentomilionesima volta.
- Anche a te Walterone, t’ammazza anche a te.
Era un coltellaccio richiudibile, il manico mezzo rovinato da un lato e tendente al verde, una lama scura e inquietante, pure per un maschiaccio come me.
- Ma perché hai quel coltello? – gli avevo chiesto la prima volta che lo sfoggiò.
- E’ di mio nonno.
- Appunto.
- Appunto cosa?
- Appunto dico, se è di tuo nonno, perché ce l’hai te?
- Ce lo volevi avere te?
- No, che c’entra, ma perché non ce l’ha tuo nonno?
- Mio nonno è rimbambito, non sa più nemmeno come si chiama, è meglio se lo tengo io.
Il Pazzo venne fuori una sera con questa storia che avremmo dovuto rapinare il Maggi e il suo negozio di ferramenta. Mi sembrò subito un’idea strampalata anche se ci avrebbero fatto comodo qualche centomila lire, dato che avevamo iniziato tutti e tre a fumare senza pausa e lo spicciolame che ci pioveva in tasca dal lato famiglia non copriva il vizio. Tutt’al più le mentine dalla Licia in piazza, giusto quelle ci potevamo permettere.
- Ma se ci servono le sigarette, rapiniamo il tabacchino.
- No.
- Perché? E’ più semplice, prendiamo direttamente le cicche, risparmiamo un passaggio.
In realtà la signora che stava al tabacchi, una vecchia baldracca ossigenata, smalto rosso e scortecciato alle unghie con ombretto celeste di serie, mi sembrava più abbordabile del Maggi.
Mi ricordo che un giorno eravamo appostati al ponticino sopra il fiume, con una carabina ad aria compressa sparavamo alle anatre nell’acqua. Quando passò il Maggi con una busta della Coop in una mano. Il Pazzo ci informò che voleva sparargli a una mano, ma da trenta centimetri.
- Pronti a telare ragazzi, quando passa di qui gli sparo alla mano.
Gliel’avrebbe spappolata pensai, forse l’avrebbe ucciso chissà. Gli sparò e lo colpì in pieno. Quello non fece mezza piega, continuò per la sua via con la sportina e la soddisfazione d’incazzarsi non ce la diede. Un duro, mi era sembrato, una specie di
Terence Hill lo chiamavano Trinità, ma più cattivo.
Ora, andare a rapinare proprio lui somigliava a un suicidio.
- No, è meglio il Maggi, ha sempre il negozio pieno, si va di sera ci si trova un sacco di soldi.
- Ci sto – dissi, che non credesse che avessi paura.
Walterone mi guarda e si convince anche lui.
- Va bene – fa, annuendo da par suo.
Passo dal 22. Il vecchio col barbone è proprio il Maggi Luigi. Alla ferramenta non ci sta più, forse ci sono i figli, forse l’ha venduta, non so.
- Come va Maggi? – chiedo.
- Come la vuole che vada? Bene no davvero. Quando si viene in questi posti…
- Ma vedrà che la si rimette a nuovo! Lasci fare a noi…
La barba è lunga, quasi incolta, la cicatrice non si vede. Forse proprio un centimetro o due, confusa in una ruga delle tante.
Dopo abbiamo attraversato la notte in una corsa forsennata nel tentativo di sfuggire ai carabinieri. Sirene, torce e pattuglie che nemmeno in Barbagia per Grazianeddu.
Il piano che avevamo stabilito era saltato subito, quando al Pazzo gli s’erano velati gli occhi, appena fuori dal negozio di ferramenta.
Io avevo ritagliato una terna di maschere col cartone rigato, mi ero messa d’impegno, mi ero ispirata ai totem dei pellerossa, le avevo persino colorate a tempera, ma il Pazzo partì per una strada diversa.
- Niente maschere, forza, si va così.
Il Maggi lo presero lui e Walterone che stava tirando giù il bandone, lo riportarono dentro e io dietro.
Poi gli eventi precipitarono prima che potessimo dire ba. Walterone reggeva il Maggi tenendogli le braccia dietro la schiena e il Pazzo lo minacciava puntandogli al viso il coltellaccio del nonno.
D’improvviso mi ritrovai a cercare con lo sguardo la mano del Maggi, quella che non l’aveva scalfita nemmeno un proiettile della carabina. Volevo capire se la lama scura del coltello di nonno poteva raggiungere il cuore del Maggi, in tutta sincerità pregavo Gesù di no, ma non mi riuscì a sbirciarla in quel tramestio.
Il Pazzo salì con un balzo sul bancone, acchiappò il Maggi per i capelli con una mano e con l’altra gli piantò la lama nella guancia, tirando poi verso la bocca e aprendogli uno squarcio enorme e rosso vivo. Il sangue gli sgorgò intenso giù lungo il collo e s’inzuppò nella camicia celeste sudata da tranviere, solo questo vidi, non certo i soldi, prima di darmela a gambe.
Corsi via veloce finché avevo fiato. Sentii dietro una bocca slabbrata urlare qualcosa di molto simile ad aiuto, poi corsi ancora e quando mi fermai, piegata sulle ginocchia, mi accorsi che i miei due compari erano lì a poche decine di metri da me.
Dieci minuti più tardi sentimmo le prime sirene, oramai eravamo ai margini del bosco e ci lasciammo inghiottire come in un incubo.
Nel mezzo della notte e del bosco, e alla fine del nostro fiato, arrivammo alla Casa del Monte, una bicocca in mattoni rossi disabitata, ma nella quale sapevamo per certo esserci dei letti. Entrammo e ci fiondammo a volo libero sui materassi spogli.
Alla fine la mattinata è scivolata via rapida che nemmeno a Stintino con un giornale e le zampette a mollo. C’è da ricucire il Maggi che non era nemmeno messo male come si pensava. Un’altra striscia di annetti dovrebbe sbobinarsela.
Mi svegliai con gli occhi del Pazzo, quelli appannati e acquosi, piantati in faccia e il suo sibilo sul collo.
- Adesso è meglio che me la fai vedere. Però stai zitta, non svegliamo Walterone.
Piuttosto che dargliela mi sarei fatta volentieri aprire da orecchio a orecchio, ma non avevo scelta ed ero troppo stanca anche per oppormi. Chiusi soltanto gli occhi. Forse piansi, ma forse no. Là sotto ormai mi sentivo la bocca squarciata del Maggi che gridava aiuto.
Ci trovarono lì i carabinieri, qualche ora dopo, perduti nel sonno e tutti un po’ più grandi. Era l’alba che ci avrebbe cambiato per sempre. Cercàtela, ce n’è una nella vita di ognuno di noi.
- Dottoressa, se vuole andare, finiamo noi.
- No, grazie, no, tanto mio marito non è a casa. Sto qua io.
Intanto mando un messaggio a Walter, faccio tardi, scrivo.
Piano, si sta risvegliando il paziente del 22, sento il suo respiro che acquista l’irregolarità tipica della coscienza.
L’infermiera mi chiede se lo conosco, annuisco, però non ho più voglia di parlare.
Poi restiamo soli, io e il Maggi, mi avvicino al suo viso, da qui la vedo la cicatrice, un segno un filo più vivo salire su dalla guancia.
Non so cosa mi piglia, ho solo voglia di farlo e lo faccio: appoggio le mie labbra sulla sua guancia.
Bacino passa tutto, penso.
Colgo un appena percettibile movimento della sua mano, gliela prendo e la stringo.
Magari resto ancora un po’.