Mi piace Michele Serra da tempi non sospetti, da molti anni prima, per intendersi, che si adagiasse sulla sua confortevole amaca.
Sono in possesso di Tutti al mare, ad esempio, un libriccino incantevole e curioso che descrive alcuni dei luoghi di villeggiatura più caratteristici (non solo per la paesaggistica) della nostra Italia, luoghi raggiunti e attraversati dal nostro nel percorso di un suo viaggio perimetral-costiero da Ventimiglia a Trieste.
Ritengo che godere di questa megavacanza pagata e in più scriverne, pagato anche per questo, possa essere annoverato tra i lavori più belli del mondo, anche preferibile all'agognato collaudo di materassi di Paolino Paperino.
Per la verità, del diario di viaggio, non mi rammento che pochissimi episodi, anzi forse uno, il fatto che si parlasse di Zanza, una volta arrivati in quel di Rimini. E per chi non sa chi è Zanza e cosa ha rappresentato per noi in quegli anni, beh non si può certo spiegare qui, in poche righe di un post che, oltretutto, parla d'altro.
Il libro mi diede modo di conoscere e apprezzare Michele Serra prima che salisse alla ribalta del grande pubblico come cofondatore di Cuore, il settimanale di resistenza umana.
Adesso mi piace la precisa acutezza di Serra e su Repubblica, quando la compro, L'amaca è il primo pezzo che leggo.
Ecco, tornando a noi e ai temi politici caldi di questi giorni, io ne L'amaca di domenica 25 mi ci sono riconosciuto in toto. Potete leggervela, servono due minuti, ad ogni modo ne seleziono anch'io delle righe.
Stamattina vado a votare perché votare mi piace moltissimo.
Questo è l'incipit. Bello forte, eh? Non siamo ai livelli di Chiamatemi Ismaele ma, cristoddìo, è un signor incipit.
...quando vado al seggio mi torna in mente la vecchia partigiana Carla che al mio debutto da elettore mi disse con gli occhi rossi "sono morti tanti ragazzi, per questo straccio di democrazia, non dimenticartelo mai..."
Anch'io ho avuto la mia partigiana Carla, era mio nonno, era mio zio, era anche il fratello di mia nonna, era mia cugina. Gente dalle mani screpolate che odoravano di terra, gente che si è fatta il mazzo per campare, per mantenere la testa alta, per lasciare ai propri figli qualcosa di più del niente che aveva. Gente coi fratelli morti in guerra. Gente che sarebbe andata a votare camminando sulle mani.
E quindi, ci vado a votare, perché in fondo mi piace e perché ho rispetto della mia gente e di ciò che mi ha trasmesso.
Alla fine, dopo dubbi e rovelli infiniti, voterò Bersani perché sono, senza possibilità di redenzione, il tipico banale di sinistra.
Fa outing Michele, non ci dice che mangia i bambini ma poco ci manca, non è redimibile nella sua banalità, nella sua pacatezza, nella sua educazione.
Se non ce l'avete avuta una partigiana Carla tutta per voi, probabile che tutto questo vi appaia melenso, e facilmente un po' fuori luogo, così, appena a valle dei Lusi, dei Fiorito o dei Maruccio, e sì, diventano comprensibili pure lo scetticismo e la nausea senza la Carla o chi per lei.
Alla fine, dopo dubbi e rovelli infiniti, ho votato Bersani perché sono, senza possibilità di redenzione, il tipico banale di sinistra che legge pure L'Amaca.
p.s. Ho votato prima della lettura del pezzo.
27 novembre 2012
21 novembre 2012
Il tempo di una minestrina
L'alzheimer si è arrampicato sulla vita di mia madre come un lento ma inarrestabile autunno alle prese con una pianta testarda.
All’inizio della stagione mia madre era ancora un albero forte e rigoglioso e, per quanto sola, pareva potersela cavare, anzi, a tratti sembrava invincibile. Ma io sapevo già che non avrei potuto arrestare il moto di rivoluzione della sua mente e l’avvicinarsi inesorabile di altre stagioni, più fredde.
Via via vedi le giornate che si fanno più corte e la tendenza in calo della luminosità si abbatte feroce sullo spirito che ti anima e lo fiacca.
L’albero dapprima si fa colorito, muta, diventa quasi più affascinante, creativo. Si veste di colori improbabili e s'imbelletta come dovesse andare in scena, ma dentro, di fatto, sta morendo. E quindi si spoglia, serenamente, perde la sua chioma, i suoi ricordi, il suo senso. Pur se non le vedi cadere le foglie, ogni giorno l’albero ne perde alcune e la sua figura contro il sole s’impoverisce fino a rassomigliare sempre più a uno scheletro affranto e defraudato della linfa.
Ed è un autunno crudele che va a conficcarsi profondo come una spada nel cuore di un inverno gelido e cupo.
La differenza con l’alternarsi delle stagioni sulla Terra sta nel fatto che l’inverno dell’Alzheimer non produrrà più alcuna primavera. Non una gemma sarà in grado di fiorire sui rami secchi di mia madre. Non una gemma.
E questa è la prima cosa che devi accettare, per non morire anche tu con lei.
La Rai sembra essersi ricordata di avere un archivio da qualche parte e in queste serate fredde passa le storiche comiche di Stanlio e Ollio. La musica che arriva dal televisore, a differenza delle immagini che mia madre non recepisce più, le viene veicolata su una frequenza balzana della sua testa che a sprazzi la riceve, e allora lei inizia una strana danza sulla sedia: ballonzola puntando i piedi a terra e lo fa a tempo di musica anche se non si accorge davvero di nessuna melodia. Gli effetti del movimento invece la fanno sorridere e confezionano un omaggio involontario e sublime alle rigorose sequenze in bianco e nero animate da Laurel e Hardy.
Sono gli occhi di mia madre che ne tradiscono l'assenza.
Dietro la corteccia del suo sguardo acquoso c'è un tronco cavo, un cervello che non timbra più il cartellino. E c'è un'anima alla deriva, dispersa dentro alle falde di una irriconoscente vita.
Mia madre si nutre come un automa portandosi alla bocca quello che si trova davanti nel piatto, ma guarda il nulla.
E sono gli stessi occhi nei quali baluginava un lampo di felicità, quando, in un'altra sua vita, inciampava in una rima e correva a vergare un verso sul suo quadernetto nero di poesie. Ci teneva a precisare che aveva fatto la quinta elementare, mia madre, e che per questo il suo scrivere era povero di vocaboli e ricco di errori. Te la vedevo arrivare, quaderno in mano, fiduciosa che le potessi aggiustare le sue sviste ortografiche.
«Mi riguardi le acche?» era la sua frase tipica, non avendo mai ben compreso quando inserire e quando no la strabenedetta lettera muta.
Sta finendo la sua minestrina, finalmente in pausa dagli ormai abitudinari sproloqui, combatte col brodo che le cola lungo il mento e lo vince, con un piccolo miracolo, asciugandolo col dorso della mano.
Stacco dal muro la cornice di legno nella quale ha incastonato una poesia che le è particolarmente cara: sono i versi che parlano della sua di madre e che stanno lì da quando è morta, o poco dopo.
La demenza senile ha colpito senza pietà in famiglia mia e l'ereditarietà ci trasferisce il gene malato con una dolcezza spietata. C’è chi con la dipartita dei suoi cari entra in possesso di castelli, ori e conti correnti svizzeri e chi, come noi, si trova al cospetto di un magnanimo notaio che aprendo il testamento legge:
«Lascio l’Alzheimer alla mia adorata progenie».
Con tristezza io ti guardo, o mamma
È scritta proprio così, con una "o" a rafforzare il vocativo, uno "o" sospirosa, una "o" che ricorre più volte nella poesia, sempre senza l'acca.
Con dolore mi si stringe il cuore
dove c'era amore ora non sai cos'è.
Parole rimaste appese per vent'anni in salotto senza un lettore attento, senza un giusto plauso, abbandonate a se stesse, pur nella loro sofisticata veste. Guardo la mia di mamme, mi rimanda un’occhiata vuota d'amore nel mancato riverbero di quei sentimenti già compresi e descritti con passione da lei stessa nelle sue mille poesie.
Parole come quelle che adesso schizzano fuori come lapilli da un vulcano. Ci sono momenti in cui per zittirla dovresti spararle. Parla e sparla, blatera e sragiona, sproloquia e sentenzia, sputa e s’inventa le parole di un personale argot che tende a tagliarci fuori dalle volute dei suoi pensieri.
Assonanze buffe e accentazioni improprie completano la creazione di sempre nuovi ed effimeri vocaboli che durano lo spazio di una frase buttata lì o del soffio lieve di una parola.
Così un "voglio andare a letto" può diventare un "Boggio dare abbento" e un "Hai mangiato?" si trasforma in "Cai mammato?" e poi friccito, leboli, stembari, gruttalo, sembio, lavarna e rundili, solo per citare quelle di stasera, assemblate nel tempo di una minestrina.
E queste sono perle capaci di regalarti pure un sorriso, anche quando la voglia di sorridere non ce l’hai più perché hai visto la volontà strappata via a morsi dalla mente di tua madre.
Dove c'era un sorriso qualche volta c'è
però non sai conoscer più le cose
Resta lì, la mia mamma, imbambolata con il cucchiaio in mano, come fosse la prima volta, lo rigira come se potesse parlarle, lo posa come se potesse da solo caricarsi di minestra e trasportargliela in bocca.
L'unica attività che ancora riesce a impegnarla per qualche minuto sono gli album di fotografie. Niente tivù, niente libri, impossibili le chiacchiere ovviamente, ma le foto le ripassa centinaia di volte avanti e indietro, le setaccia nella disperata e vana ricerca di un volto, di un nome o di uno straccio di ricordo. Marito, figli, nipoti, tutti accomunati da un non amore estremo, accarezzati da una vista assente e profanati da una memoria cattiva, capace di cancellare la vita in un minuto, come si fa col gesso dalla lavagna.
Se ti chiamo Mamma
tu mi guardi e non mi rispondi mai
non lo sai se i figli tu hai
Coll'acca, ce l'ha messa, una bella acca possessiva che segna il contrappasso tra l’avere dei figli e non essere più in grado di percepirlo.
Alla fine resta un irragionevole vuoto scavato dall’amore per un figlio che nemmeno sa di avere. Quel figlio per cui ha sofferto e corso e lottato e pianto e sperato e sbroccato e desiderato e pregato, quanto ha pregato lo sa Dio, davvero, per quel figlio, quel figlio che non ha più un posto nel suo cuore pulsante ma morto, nella sua testa bucherellata e senza speranze. Quel figlio che ha stretto forte quando piangeva, per una ferita, per un voto, per una ragazza, quel figlio che non ha più un posto tra le sue braccia. Quel figlio.
Tu che parli con lo specchio, eppure
a ripensarci, o mamma, tu sei sempre quella.
Ci ripenso alla mia mamma, alla sua lotta con la punteggiatura, perché non li ha mai capiti quei versi moderni senza un punto, senza una virgola. Come si fanno a leggere se non sai nemmeno dove prendere fiato?
«Mi riguardi le acche? E anche i punti e le virgole».
E io punteggiavo come potevo, poi inserivo o cassavo acche, alla bisogna. Ma che palle, pensavo. Quanto scriveva mia madre! E quante volte mi si parava davanti col quaderno o con un foglio strappato chissà da dove, una penna e il suo sguardo schietto. Non che implorasse un aiuto, si trattava soltanto d’una richiesta da madre a figlio. Come avrebbe potuto chiedermi dov'ero stato o cosa volevo per pranzo, eccola che arrivava, con le sue carabattole da poetessa contadina, a domandare una correzione a quel figlio fortunato che venivano a prenderlo con lo scuolabus giallo fino in culo al mondo, dove stavamo prima, per portarlo a scuola a studiare di acche e di virgole.
eppur sei come cosa che cammina
non sei più niente, o mamma.
Chissà se un giorno, il mio di figli, prendendo in mano questo scritto comprenderà il suo destino o se l'avrà magari già capito da solo. Chissà se avrà paura o se accetterà l’ineluttabile con la pacata rassegnazione e la dignità che ci passiamo in eredità, assieme al morbo. E chissà quali pensieri s’incroceranno nella sua mente, guardandomi, nel tempo di una minestrina.
il cuore mio lo sente e si tormenta
anche se cerco di non dargli retta
questa sarà la strada che mi aspetta.
Passiamo dal bagno per il tagliando serale e uscendo salutiamo quei due, la signora coi capelli grigi minuta e un po’ ingobbita che risponde al sorriso di mia madre e il ragazzone barbuto che la sorregge con le mani sotto le ascelle e sghembo sorride, anche lui.
«O, guarda chi c'è – sorriso – allora arrivederci, eh», poi saluto anch'io le due sagome dentro allo specchio e mi porto avanti coi lavori.
Quindi siamo in camera dove aiuto la mamma a cambiarsi per la notte. Mentre le tengo la giacca del pigiama, la osservo che agguanta la manica della camiciola con le dita e la tiene stretta, affinché non le scivoli su, lungo il braccio, infilando la giacca.
È una foglia dell’albero, questo gesto, una delle ultime foglie rimaste appese, e io lo so che un giorno cadrà pure questa, ma ancora no. Ancora no.
All’inizio della stagione mia madre era ancora un albero forte e rigoglioso e, per quanto sola, pareva potersela cavare, anzi, a tratti sembrava invincibile. Ma io sapevo già che non avrei potuto arrestare il moto di rivoluzione della sua mente e l’avvicinarsi inesorabile di altre stagioni, più fredde.
Via via vedi le giornate che si fanno più corte e la tendenza in calo della luminosità si abbatte feroce sullo spirito che ti anima e lo fiacca.
L’albero dapprima si fa colorito, muta, diventa quasi più affascinante, creativo. Si veste di colori improbabili e s'imbelletta come dovesse andare in scena, ma dentro, di fatto, sta morendo. E quindi si spoglia, serenamente, perde la sua chioma, i suoi ricordi, il suo senso. Pur se non le vedi cadere le foglie, ogni giorno l’albero ne perde alcune e la sua figura contro il sole s’impoverisce fino a rassomigliare sempre più a uno scheletro affranto e defraudato della linfa.
Ed è un autunno crudele che va a conficcarsi profondo come una spada nel cuore di un inverno gelido e cupo.
La differenza con l’alternarsi delle stagioni sulla Terra sta nel fatto che l’inverno dell’Alzheimer non produrrà più alcuna primavera. Non una gemma sarà in grado di fiorire sui rami secchi di mia madre. Non una gemma.
E questa è la prima cosa che devi accettare, per non morire anche tu con lei.
La Rai sembra essersi ricordata di avere un archivio da qualche parte e in queste serate fredde passa le storiche comiche di Stanlio e Ollio. La musica che arriva dal televisore, a differenza delle immagini che mia madre non recepisce più, le viene veicolata su una frequenza balzana della sua testa che a sprazzi la riceve, e allora lei inizia una strana danza sulla sedia: ballonzola puntando i piedi a terra e lo fa a tempo di musica anche se non si accorge davvero di nessuna melodia. Gli effetti del movimento invece la fanno sorridere e confezionano un omaggio involontario e sublime alle rigorose sequenze in bianco e nero animate da Laurel e Hardy.
Sono gli occhi di mia madre che ne tradiscono l'assenza.
Dietro la corteccia del suo sguardo acquoso c'è un tronco cavo, un cervello che non timbra più il cartellino. E c'è un'anima alla deriva, dispersa dentro alle falde di una irriconoscente vita.
Mia madre si nutre come un automa portandosi alla bocca quello che si trova davanti nel piatto, ma guarda il nulla.
E sono gli stessi occhi nei quali baluginava un lampo di felicità, quando, in un'altra sua vita, inciampava in una rima e correva a vergare un verso sul suo quadernetto nero di poesie. Ci teneva a precisare che aveva fatto la quinta elementare, mia madre, e che per questo il suo scrivere era povero di vocaboli e ricco di errori. Te la vedevo arrivare, quaderno in mano, fiduciosa che le potessi aggiustare le sue sviste ortografiche.
«Mi riguardi le acche?» era la sua frase tipica, non avendo mai ben compreso quando inserire e quando no la strabenedetta lettera muta.
Sta finendo la sua minestrina, finalmente in pausa dagli ormai abitudinari sproloqui, combatte col brodo che le cola lungo il mento e lo vince, con un piccolo miracolo, asciugandolo col dorso della mano.
Stacco dal muro la cornice di legno nella quale ha incastonato una poesia che le è particolarmente cara: sono i versi che parlano della sua di madre e che stanno lì da quando è morta, o poco dopo.
La demenza senile ha colpito senza pietà in famiglia mia e l'ereditarietà ci trasferisce il gene malato con una dolcezza spietata. C’è chi con la dipartita dei suoi cari entra in possesso di castelli, ori e conti correnti svizzeri e chi, come noi, si trova al cospetto di un magnanimo notaio che aprendo il testamento legge:
«Lascio l’Alzheimer alla mia adorata progenie».
Con tristezza io ti guardo, o mamma
È scritta proprio così, con una "o" a rafforzare il vocativo, uno "o" sospirosa, una "o" che ricorre più volte nella poesia, sempre senza l'acca.
Con dolore mi si stringe il cuore
dove c'era amore ora non sai cos'è.
Parole rimaste appese per vent'anni in salotto senza un lettore attento, senza un giusto plauso, abbandonate a se stesse, pur nella loro sofisticata veste. Guardo la mia di mamme, mi rimanda un’occhiata vuota d'amore nel mancato riverbero di quei sentimenti già compresi e descritti con passione da lei stessa nelle sue mille poesie.
Parole come quelle che adesso schizzano fuori come lapilli da un vulcano. Ci sono momenti in cui per zittirla dovresti spararle. Parla e sparla, blatera e sragiona, sproloquia e sentenzia, sputa e s’inventa le parole di un personale argot che tende a tagliarci fuori dalle volute dei suoi pensieri.
Assonanze buffe e accentazioni improprie completano la creazione di sempre nuovi ed effimeri vocaboli che durano lo spazio di una frase buttata lì o del soffio lieve di una parola.
Così un "voglio andare a letto" può diventare un "Boggio dare abbento" e un "Hai mangiato?" si trasforma in "Cai mammato?" e poi friccito, leboli, stembari, gruttalo, sembio, lavarna e rundili, solo per citare quelle di stasera, assemblate nel tempo di una minestrina.
E queste sono perle capaci di regalarti pure un sorriso, anche quando la voglia di sorridere non ce l’hai più perché hai visto la volontà strappata via a morsi dalla mente di tua madre.
Dove c'era un sorriso qualche volta c'è
però non sai conoscer più le cose
Resta lì, la mia mamma, imbambolata con il cucchiaio in mano, come fosse la prima volta, lo rigira come se potesse parlarle, lo posa come se potesse da solo caricarsi di minestra e trasportargliela in bocca.
L'unica attività che ancora riesce a impegnarla per qualche minuto sono gli album di fotografie. Niente tivù, niente libri, impossibili le chiacchiere ovviamente, ma le foto le ripassa centinaia di volte avanti e indietro, le setaccia nella disperata e vana ricerca di un volto, di un nome o di uno straccio di ricordo. Marito, figli, nipoti, tutti accomunati da un non amore estremo, accarezzati da una vista assente e profanati da una memoria cattiva, capace di cancellare la vita in un minuto, come si fa col gesso dalla lavagna.
Se ti chiamo Mamma
tu mi guardi e non mi rispondi mai
non lo sai se i figli tu hai
Coll'acca, ce l'ha messa, una bella acca possessiva che segna il contrappasso tra l’avere dei figli e non essere più in grado di percepirlo.
Alla fine resta un irragionevole vuoto scavato dall’amore per un figlio che nemmeno sa di avere. Quel figlio per cui ha sofferto e corso e lottato e pianto e sperato e sbroccato e desiderato e pregato, quanto ha pregato lo sa Dio, davvero, per quel figlio, quel figlio che non ha più un posto nel suo cuore pulsante ma morto, nella sua testa bucherellata e senza speranze. Quel figlio che ha stretto forte quando piangeva, per una ferita, per un voto, per una ragazza, quel figlio che non ha più un posto tra le sue braccia. Quel figlio.
Tu che parli con lo specchio, eppure
a ripensarci, o mamma, tu sei sempre quella.
Ci ripenso alla mia mamma, alla sua lotta con la punteggiatura, perché non li ha mai capiti quei versi moderni senza un punto, senza una virgola. Come si fanno a leggere se non sai nemmeno dove prendere fiato?
«Mi riguardi le acche? E anche i punti e le virgole».
E io punteggiavo come potevo, poi inserivo o cassavo acche, alla bisogna. Ma che palle, pensavo. Quanto scriveva mia madre! E quante volte mi si parava davanti col quaderno o con un foglio strappato chissà da dove, una penna e il suo sguardo schietto. Non che implorasse un aiuto, si trattava soltanto d’una richiesta da madre a figlio. Come avrebbe potuto chiedermi dov'ero stato o cosa volevo per pranzo, eccola che arrivava, con le sue carabattole da poetessa contadina, a domandare una correzione a quel figlio fortunato che venivano a prenderlo con lo scuolabus giallo fino in culo al mondo, dove stavamo prima, per portarlo a scuola a studiare di acche e di virgole.
eppur sei come cosa che cammina
non sei più niente, o mamma.
Chissà se un giorno, il mio di figli, prendendo in mano questo scritto comprenderà il suo destino o se l'avrà magari già capito da solo. Chissà se avrà paura o se accetterà l’ineluttabile con la pacata rassegnazione e la dignità che ci passiamo in eredità, assieme al morbo. E chissà quali pensieri s’incroceranno nella sua mente, guardandomi, nel tempo di una minestrina.
il cuore mio lo sente e si tormenta
anche se cerco di non dargli retta
questa sarà la strada che mi aspetta.
Passiamo dal bagno per il tagliando serale e uscendo salutiamo quei due, la signora coi capelli grigi minuta e un po’ ingobbita che risponde al sorriso di mia madre e il ragazzone barbuto che la sorregge con le mani sotto le ascelle e sghembo sorride, anche lui.
«O, guarda chi c'è – sorriso – allora arrivederci, eh», poi saluto anch'io le due sagome dentro allo specchio e mi porto avanti coi lavori.
Quindi siamo in camera dove aiuto la mamma a cambiarsi per la notte. Mentre le tengo la giacca del pigiama, la osservo che agguanta la manica della camiciola con le dita e la tiene stretta, affinché non le scivoli su, lungo il braccio, infilando la giacca.
È una foglia dell’albero, questo gesto, una delle ultime foglie rimaste appese, e io lo so che un giorno cadrà pure questa, ma ancora no. Ancora no.
19 novembre 2012
La Befana vien di notte
Solo che non ci volevo andare a letto, tutto qui.
Avevo chiesto le mie costruzioni alla Befana, ci contavo, e volevo entrarne in possesso per giocarci prima possibile.
- Non puoi aspettare la Befana.
- E perché?
- Perché passerà molto tardi, devi dormire.
- Non è vero!
Mia mamma cercava di convincermi, ma sapevo esattamente ciò che volevo.
- E poi è brutta e vecchia, ti farebbe paura.
- Non è vero!
Sarà stata pure brutta e vecchia, ma portava le mie costruzioni e il suo aspetto fisico poco avrebbe significato.
- Ma se vede la luce accesa non si ferma.
- Non è vero!
Volevo le mie cavolo di costruzioni, erano giorni che aspettavo e non ce la facevo più.
Mia mamma sospirò, non avrebbe voluto giocare sporco, ma la mia cocciutaggine non le dava scelta.
- Va bene - disse - però...
Sbarrai gli occhi, incredulo per quella che sembrava una vittoria.
- Però devi sapere che, a Roma, un bambino che voleva aspettare la Befana è stato portato in prigione.
Perfida.
Non ci avrei creduto se solo fosse stato "un bambino che voleva aspettare la Befana è stato portato in prigione", non avrei esitato a spararle in faccia l'ennesimo "Non è vero".
E invece era vero, doveva per forza essere vero, con quella precisazione logistica "a Roma" che conferiva all'episodio tutta l'autenticità necessaria.
"A Roma", "a Roma", per forza che era vero, me lo vedevo il bambino, a Roma. Nonostante non avessi nemmeno una vaga idea di come fosse Roma l'avevo sentito che esisteva, e allora pure l'ostinato bambino appostato in attesa della Befana doveva essere semplicemente reale.
Filai a letto sconfitto, rassegnato ad assemblare i miei mattoncini Plastic City (*) solo il mattino seguente.
Una bugia circostanziata è una verità assolutamente credibile.
Lo sapeva la mia mamma e lo sa bene qualche politico (leggi Renzi). E lo sai bene anche tu che, dopo una birra fuori, dici a tua moglie "sono stato a bere una birra" ma dopo una serata passata con chissà chi ti premuri di informarla così: "Sono stato a bere una birra allo Scott Duff con il Fuffa, Trippella e Zazzà. Sai Zazzà, quello che ho conosciuto in palestra che fa l'avvocato e ha due figlie, una bionda di 9 anni in quarta elementare che è la più brava della classe e una piccolina, tre anni, intollerante ai latticini, che va alla materna dalle suore, una teppistella che te la raccomando tutta..."
Ed è la perla "intolleranete ai latticini" che ti salverà il culo.
(*) Perché questo sarebbe arrivato, mica roba Lego, sgrunt!
p.s. the Befan comes by night with the shoes not all right.
Avevo chiesto le mie costruzioni alla Befana, ci contavo, e volevo entrarne in possesso per giocarci prima possibile.
- Non puoi aspettare la Befana.
- E perché?
- Perché passerà molto tardi, devi dormire.
- Non è vero!
Mia mamma cercava di convincermi, ma sapevo esattamente ciò che volevo.
- E poi è brutta e vecchia, ti farebbe paura.
- Non è vero!
Sarà stata pure brutta e vecchia, ma portava le mie costruzioni e il suo aspetto fisico poco avrebbe significato.
- Ma se vede la luce accesa non si ferma.
- Non è vero!
Volevo le mie cavolo di costruzioni, erano giorni che aspettavo e non ce la facevo più.
Mia mamma sospirò, non avrebbe voluto giocare sporco, ma la mia cocciutaggine non le dava scelta.
- Va bene - disse - però...
Sbarrai gli occhi, incredulo per quella che sembrava una vittoria.
- Però devi sapere che, a Roma, un bambino che voleva aspettare la Befana è stato portato in prigione.
Perfida.
Non ci avrei creduto se solo fosse stato "un bambino che voleva aspettare la Befana è stato portato in prigione", non avrei esitato a spararle in faccia l'ennesimo "Non è vero".
E invece era vero, doveva per forza essere vero, con quella precisazione logistica "a Roma" che conferiva all'episodio tutta l'autenticità necessaria.
"A Roma", "a Roma", per forza che era vero, me lo vedevo il bambino, a Roma. Nonostante non avessi nemmeno una vaga idea di come fosse Roma l'avevo sentito che esisteva, e allora pure l'ostinato bambino appostato in attesa della Befana doveva essere semplicemente reale.
Filai a letto sconfitto, rassegnato ad assemblare i miei mattoncini Plastic City (*) solo il mattino seguente.
Una bugia circostanziata è una verità assolutamente credibile.
Lo sapeva la mia mamma e lo sa bene qualche politico (
Ed è la perla "intolleranete ai latticini" che ti salverà il culo.
(*) Perché questo sarebbe arrivato, mica roba Lego, sgrunt!
p.s. the Befan comes by night with the shoes not all right.
15 novembre 2012
Argo vaffanculo
Abbiamo già suonato le sinfonie dell’odio su la Linea, ma stavolta andiamo oltre.
Odio vero, profondo, viscerale per te, cazzone/a, che vai al cinema disprezzando gli altri e il cinema stesso.
Arrivi all’ultimo secondo, e questo già ti qualifica.
Mi ti siedi accanto, e qui ringrazio il fato. Commenti ininterrottamente la pellicola che manco mio figlio al cospetto di Hotel Transilvania.
Ti presenti con quantità di scorte alimentari da far invidia a un rifugio antiatomico.
Tra le altre cibarie hai una busta di popcorn da 3 ettogrammi 3, in carta argentata, sfrigolante che lèvati.
Già sentirti manducare è fastidioso, ma ogni secondo subire il ravanare scricchioloso della tua mano nel sacchetto è esasperante.
È come se tu m’invadessi la Polonia.
Potrei e dovrei dirti che hai rotto i coglioni, potrei e dovrei mollarti una gomitata sul naso e lasciarti sanguinare.
Pensaci la prossima volta che ti siederai sulla poltrona vellutata rossa, o blu, del tuo fottuto cinema, sappi che potrei esserci io lì vicino pronto a mandarti in marmellata le cartilagini nasali (non ti auguro dolcemetà che lei t'ammazza proprio).
Tu non ami il cinema, maledetto, ma che ci vieni a fare?
Vattene a sfogare i tuoi istinti spritzaioli nei luoghi deputati, vattene a ciaccolare colla tua amichetta nei peggiori bar di Caracas, vattene a inquinare acusticamente i mondi dei cafoni tuoi simili, vattene a fanculo.
E scaricateli due film dalla rete, non ci vuole un ingegnere elettronico, vai su san Gugol motore martire, digiti torrent, digiti il titolo del film e poi ti guardi un po’ in giro, vedrai che qualche santo ti aiuta. Spendi anche meno.
Al cinema NON si mangia, cazzo. Le eccezioni, qualora proprio le si debbano introdurre per salvaguardare gli incassi, riguardano fruitori sotto ai dieci anni, cibi in qualche modo silenziati (ok, il bicchierone di popcorn ve lo passo), e pellicole disturbabili (*) tipo qualche cartone animato e tutti i cinepanettoni (tanto lì non vengo io).
Ti odio davvero, tu che a 30 anni suonati ancora dimostri un livello d’inciviltà pari forse solo al mio, che mi rodo dentro ma ti lascio fare.
E mi odio per veicolare il mio istinto bellicoso fino a un livello intollerabile di tolleranza.
Odio i cinema che vendono nel loro bar interno cibarie rumorose. Gestori, vi prego, riciclatevi, aprite un ristorante ché tanto quelli son sempre pieni mentre le sale cinematografiche piangon miseria e potete solo rimetterci.
Per oziosa cronaca eravamo a vedere Argo, un gran bel film, ma solo dalla mezz’ora in poi, da quando son finiti i tuoi, francamente spero avvelenati, popcorn.
p.s. E sulla stirabilità dei film sapete già tutto?
Odio vero, profondo, viscerale per te, cazzone/a, che vai al cinema disprezzando gli altri e il cinema stesso.
Arrivi all’ultimo secondo, e questo già ti qualifica.
Mi ti siedi accanto, e qui ringrazio il fato. Commenti ininterrottamente la pellicola che manco mio figlio al cospetto di Hotel Transilvania.
Ti presenti con quantità di scorte alimentari da far invidia a un rifugio antiatomico.
Tra le altre cibarie hai una busta di popcorn da 3 ettogrammi 3, in carta argentata, sfrigolante che lèvati.
Già sentirti manducare è fastidioso, ma ogni secondo subire il ravanare scricchioloso della tua mano nel sacchetto è esasperante.
È come se tu m’invadessi la Polonia.
Potrei e dovrei dirti che hai rotto i coglioni, potrei e dovrei mollarti una gomitata sul naso e lasciarti sanguinare.
Pensaci la prossima volta che ti siederai sulla poltrona vellutata rossa, o blu, del tuo fottuto cinema, sappi che potrei esserci io lì vicino pronto a mandarti in marmellata le cartilagini nasali (non ti auguro dolcemetà che lei t'ammazza proprio).
Tu non ami il cinema, maledetto, ma che ci vieni a fare?
Vattene a sfogare i tuoi istinti spritzaioli nei luoghi deputati, vattene a ciaccolare colla tua amichetta nei peggiori bar di Caracas, vattene a inquinare acusticamente i mondi dei cafoni tuoi simili, vattene a fanculo.
E scaricateli due film dalla rete, non ci vuole un ingegnere elettronico, vai su san Gugol motore martire, digiti torrent, digiti il titolo del film e poi ti guardi un po’ in giro, vedrai che qualche santo ti aiuta. Spendi anche meno.
Al cinema NON si mangia, cazzo. Le eccezioni, qualora proprio le si debbano introdurre per salvaguardare gli incassi, riguardano fruitori sotto ai dieci anni, cibi in qualche modo silenziati (ok, il bicchierone di popcorn ve lo passo), e pellicole disturbabili (*) tipo qualche cartone animato e tutti i cinepanettoni (tanto lì non vengo io).
Ti odio davvero, tu che a 30 anni suonati ancora dimostri un livello d’inciviltà pari forse solo al mio, che mi rodo dentro ma ti lascio fare.
E mi odio per veicolare il mio istinto bellicoso fino a un livello intollerabile di tolleranza.
Odio i cinema che vendono nel loro bar interno cibarie rumorose. Gestori, vi prego, riciclatevi, aprite un ristorante ché tanto quelli son sempre pieni mentre le sale cinematografiche piangon miseria e potete solo rimetterci.
Per oziosa cronaca eravamo a vedere Argo, un gran bel film, ma solo dalla mezz’ora in poi, da quando son finiti i tuoi, francamente spero avvelenati, popcorn.
p.s. E sulla stirabilità dei film sapete già tutto?
12 novembre 2012
BEI TEMPI
Quando trovi in posta una mail da "Gigi Riva" ti può pigliare 'na certa ansia. A me sì, ecco.
E adesso sto scrivendo queste righe prima d'averla letta.
Potreste averla tutti, in effetti, bastava mandare a Gigi gli auguri di compleanno attraverso il suo sito.
Io l'ho fatto, grazie anche a Pesa, non che non mi ricordassi, che diamine, ma niente, forse serviva una spintina per realizzarla 'sta cosa, poi quest'anno, complici anche un po' tutte le storie raccontate sul blog in materia giggirriva, ecco che mi è venuto di scrivergli due righe...
Adesso però non ce la faccio più, vado ad aprire la mail, aspettatemi qui...
...
Eccomi, mi batte il cuoricione, a dirlo a voi.
Questo è ciò che gli avevo scritto io, il 7 novembre scorso:
"Auguri da un bambino degli anni ’70, uno di quelli che hai fatto sognare e che andava al campino con una maglia bianca e un numero 11 disegnato a pennarello sulla schiena."
Questo, invece, testuale e copiaincollato, il testo in risposta:
"CIAO FURIO. BEI TEMPI.GIGI"
Sì, vabbè, direte voi, sarà una risposta standard, o buttata giù dal webmaster o da chi ne cura il sito (il figlio Mauro), eppure mi piace pensare di no.
Mi piace pensare che sia stato il buon vecchio Gigi a scrivere 'ste 5 parole 5.
Intanto c'è il mio nome nel testo, anche se un buon programma avrebbe potuto recuperarlo in automatico dalla mail.
Poi perché son maiuscole ed è un po' una spia di chi non è avvezzo all'uso della comunicazione digitale da mail e da chat, un caps lock che dovrebbe rappresentare un urlo ma che non ha senso nel concepimento della frase e che, quindi, può solo essere il segnale di una scarsa dimestichezza con la netiquette (nessuno te lo chiede, Gigi, continua a fare il tuo, tranquillo, scrivi pure in cirillico se vuoi).
E poi quel mancato spazio dopo il secondo punto, quella è una prova da portare a giudizio: mai una risposta standard preconfezionata potrebbe contenere quel mancato spazio che, invece, dà proprio il senso di una cosa fatta in fretta. Precisamente sabato sera alle 19:06.
Sherlock Holmes a questo punto farebbe notare che a quell'ora sul campo di Is Arenas stava giocando il suo Cagliari, è pensabile che Gigi sminestrasse la posta mentre Cossu e compagni cercavano di abbattere il Catania? Secondo me sì, dai, magari era uno strascico di un'attività iniziata nell'intervallo (rispondere ai
cazzosi auguri dei fan residuali) e comunque la noiosità della partita è un altro punto a favore della veridicità della risposta.
Io me lo vedo Gigi, sul divano col portatile sulle ginocchia, pigiare su quei tasti con il dito giallo-nicotina.
Penserete che sono stupido, ma mi sa che dovete pigliarmi così.
Grazie Gigi
E adesso sto scrivendo queste righe prima d'averla letta.
Potreste averla tutti, in effetti, bastava mandare a Gigi gli auguri di compleanno attraverso il suo sito.
Io l'ho fatto, grazie anche a Pesa, non che non mi ricordassi, che diamine, ma niente, forse serviva una spintina per realizzarla 'sta cosa, poi quest'anno, complici anche un po' tutte le storie raccontate sul blog in materia giggirriva, ecco che mi è venuto di scrivergli due righe...
Adesso però non ce la faccio più, vado ad aprire la mail, aspettatemi qui...
...
Eccomi, mi batte il cuoricione, a dirlo a voi.
Questo è ciò che gli avevo scritto io, il 7 novembre scorso:
"Auguri da un bambino degli anni ’70, uno di quelli che hai fatto sognare e che andava al campino con una maglia bianca e un numero 11 disegnato a pennarello sulla schiena."
Questo, invece, testuale e copiaincollato, il testo in risposta:
"CIAO FURIO. BEI TEMPI.GIGI"
Sì, vabbè, direte voi, sarà una risposta standard, o buttata giù dal webmaster o da chi ne cura il sito (il figlio Mauro), eppure mi piace pensare di no.
Mi piace pensare che sia stato il buon vecchio Gigi a scrivere 'ste 5 parole 5.
Intanto c'è il mio nome nel testo, anche se un buon programma avrebbe potuto recuperarlo in automatico dalla mail.
Poi perché son maiuscole ed è un po' una spia di chi non è avvezzo all'uso della comunicazione digitale da mail e da chat, un caps lock che dovrebbe rappresentare un urlo ma che non ha senso nel concepimento della frase e che, quindi, può solo essere il segnale di una scarsa dimestichezza con la netiquette (nessuno te lo chiede, Gigi, continua a fare il tuo, tranquillo, scrivi pure in cirillico se vuoi).
E poi quel mancato spazio dopo il secondo punto, quella è una prova da portare a giudizio: mai una risposta standard preconfezionata potrebbe contenere quel mancato spazio che, invece, dà proprio il senso di una cosa fatta in fretta. Precisamente sabato sera alle 19:06.
Sherlock Holmes a questo punto farebbe notare che a quell'ora sul campo di Is Arenas stava giocando il suo Cagliari, è pensabile che Gigi sminestrasse la posta mentre Cossu e compagni cercavano di abbattere il Catania? Secondo me sì, dai, magari era uno strascico di un'attività iniziata nell'intervallo (rispondere ai
cazzosi auguri dei fan residuali) e comunque la noiosità della partita è un altro punto a favore della veridicità della risposta.
Io me lo vedo Gigi, sul divano col portatile sulle ginocchia, pigiare su quei tasti con il dito giallo-nicotina.
Penserete che sono stupido, ma mi sa che dovete pigliarmi così.
Grazie Gigi
10 novembre 2012
Destra Sinistra Allegria Macarena
Essere di sinistra è per connotazione naturale essere contro.
Anche a livello di mano/piede di prioritario uso, chi preferisce servirsi dei suoi arti mancini sta nella minoranza, in un'elite, peraltro, di cui si dice un gran bene a livello intellettivo, per esempio, o anche sportivo.
E non vi ammorberò con le gesta di Leonardo da Vinci, di Gigi Riva o di John McEnroe.
Anche a livello di pensiero, essere di sinistra è sempre stato un po' contro, per quanto il significato del concetto sia molto discusso è discutibile negli ultimi anni. E Rokko Smithersons l'aveva ampiamente preconizzato.
Ad ogni buon conto, a sinistra si è alternativi per storia, alla DC, alla destra, a Berlusconi.
Ma quando l’alternativa cessa di essere il frutto di un'ispirazione alta da opporre alla stupidità, alla grettezza e alla prepotenza, quando l'alternativa diventa un dogma, una sorta di autoimposizione, un pensiero di cui si è quasi schiavi, in quel momento a sinistra ci si perde.
Quando c'è qualcosa di chiaro e definito cui opporsi la sinistra si oppone, come da suo DNA; anche se non sempre con la stessa efficacia, ma è in grado di fare da contrappeso. Quando il nemico sfuma, però, disperso nel nebbione, quando a sinistra ci si trova improvvisamente a fare l'andatura in quel gruppo che per anni ci ha visto inseguire, quando la stessa ragion d'essere dell'alternativa non è sul campo di battaglia la sinistra riesce, con un'evoluzione acrobatica, a restare alternativa, nella peggior deriva che il termine incarna: alternativa a se stessa.
Per l'uomo che si crogiola nell'illusione della minoranza che ha ragione, un fenomeno è carino, perseguibile, amabile e esemplare solo se appartiene a pochi, ma quando l'apprezzamento di molti (di troppi) lo massifica, perde d'un colpo rilevanza e nasce l'esigenza di un'ulteriore è più potente alternativa.
Finché non riusciremo a comprendere che c’è una stategia da applicare per rincorrere e inseguire e un’altra molto differente per guidare, non andremo da nessuna parte.
La parabola bertinottiana, in tal senso, è illuminante.
La sinistra è snob, irrimediabilmente.
Tutta 'sta pappardella fuori dai canoni Lineari di fuffa e brevità, per dire che sul Ground Zero della destra politica italiana di questo periodo svetta una sinistra apparentemente forte. C'è un collaudato Bersani, che però è un po' troppo classico diciamolo, fin troppo moderato e carino, ma potrebbe bastare. Eppure no, comincia a piacere a troppi e allora si punta Vendola, che è più nuovo, sarà più puro, di sicuro è più alternativo.
Ma la strada è ancora lunga perché all'orizzonte spunta Laura Puppato, massimo rispetto, bravissima persona, ma chi se la cagava fino a due mesi fa? Dove stava? Però adesso c'è, ha tutto il diritto per esserci, poi è donna, è intelligente, ed è di nicchia! E allora tutti a guardare verso la Puppato. Peccarità, va bene, che non va bene?
Finché arriverà l'ennesimo signor nessuno che farà capolino dall'angolo sinistro e, basterà che alzi la mano, sarà investito come fresca alternativa alla Puppato.
Alternativi a noi stessi. Hasta la muerte.
Anche a livello di mano/piede di prioritario uso, chi preferisce servirsi dei suoi arti mancini sta nella minoranza, in un'elite, peraltro, di cui si dice un gran bene a livello intellettivo, per esempio, o anche sportivo.
E non vi ammorberò con le gesta di Leonardo da Vinci, di Gigi Riva o di John McEnroe.
Anche a livello di pensiero, essere di sinistra è sempre stato un po' contro, per quanto il significato del concetto sia molto discusso è discutibile negli ultimi anni. E Rokko Smithersons l'aveva ampiamente preconizzato.
Ad ogni buon conto, a sinistra si è alternativi per storia, alla DC, alla destra, a Berlusconi.
Ma quando l’alternativa cessa di essere il frutto di un'ispirazione alta da opporre alla stupidità, alla grettezza e alla prepotenza, quando l'alternativa diventa un dogma, una sorta di autoimposizione, un pensiero di cui si è quasi schiavi, in quel momento a sinistra ci si perde.
Quando c'è qualcosa di chiaro e definito cui opporsi la sinistra si oppone, come da suo DNA; anche se non sempre con la stessa efficacia, ma è in grado di fare da contrappeso. Quando il nemico sfuma, però, disperso nel nebbione, quando a sinistra ci si trova improvvisamente a fare l'andatura in quel gruppo che per anni ci ha visto inseguire, quando la stessa ragion d'essere dell'alternativa non è sul campo di battaglia la sinistra riesce, con un'evoluzione acrobatica, a restare alternativa, nella peggior deriva che il termine incarna: alternativa a se stessa.
Per l'uomo che si crogiola nell'illusione della minoranza che ha ragione, un fenomeno è carino, perseguibile, amabile e esemplare solo se appartiene a pochi, ma quando l'apprezzamento di molti (di troppi) lo massifica, perde d'un colpo rilevanza e nasce l'esigenza di un'ulteriore è più potente alternativa.
Finché non riusciremo a comprendere che c’è una stategia da applicare per rincorrere e inseguire e un’altra molto differente per guidare, non andremo da nessuna parte.
La parabola bertinottiana, in tal senso, è illuminante.
La sinistra è snob, irrimediabilmente.
Tutta 'sta pappardella fuori dai canoni Lineari di fuffa e brevità, per dire che sul Ground Zero della destra politica italiana di questo periodo svetta una sinistra apparentemente forte. C'è un collaudato Bersani, che però è un po' troppo classico diciamolo, fin troppo moderato e carino, ma potrebbe bastare. Eppure no, comincia a piacere a troppi e allora si punta Vendola, che è più nuovo, sarà più puro, di sicuro è più alternativo.
Ma la strada è ancora lunga perché all'orizzonte spunta Laura Puppato, massimo rispetto, bravissima persona, ma chi se la cagava fino a due mesi fa? Dove stava? Però adesso c'è, ha tutto il diritto per esserci, poi è donna, è intelligente, ed è di nicchia! E allora tutti a guardare verso la Puppato. Peccarità, va bene, che non va bene?
Finché arriverà l'ennesimo signor nessuno che farà capolino dall'angolo sinistro e, basterà che alzi la mano, sarà investito come fresca alternativa alla Puppato.
Alternativi a noi stessi. Hasta la muerte.
6 novembre 2012
Facciamo finta che me piace Re'
Sì, facciamo finta che mi piaccia Renzi, e vediamo cosa ne viene fuori.
Facciamo che tra gli oppositori i posti eran finiti e mi son seduto dalla parte dei fan di Matteino.
Intanto sono cresciuto in una famiglia contadino/operaio/partigiana delle campagne fiorentine e sono di sinistra, forse crescendo a Latina sarei stato di destra e crescendo a Mimongo un carciofo, ma tant'è, sono di sinistra e andrò a votare alle primarie di coalizione. E verserò il mio obolo, 1 o 2 euri che siano, nella speranza che non se l'inguatti qualcuno.
Alle primarie NON voterò Renzi. Però, però...
Devo confessare che Renzi esercita su di me un certo fascino e vorrei qui immedesimarmi in un suo sostenitore convinto affinché qualcuno di voi mi smonti e mi mandi a votare senza tentennamenti.
Una simulazione, io chiudo gli occhi e prendo le parti di Renzi, voi me li aprite.
È una novità. Non che il nuovo sia per forza positivo, ma conoscendo il vecchio - e purtroppo le occasioni non sono mancate ultimamente - conoscendo il vecchio, la novità, certo così negativa non può essere.
Non se la sta cavando male a Firenze, molto attento agli aspetti turistico-culturali della città, disponibile con la gente, presente.
Comunicatore abile e preparato, innovativo, trasparente.
Ha un programma vero, copiato/non copiato, è un programma concreto.
Se gli fai una domanda risponde, non con la fuffa politichese dei D'Alema, dei Fini, delle Bindi ma con argomentazioni comprensibili e senza giri di parole (ok, qui fate un po' finta anche voi).
Ha quella patina di arrogante autorità necessaria, non tanto per vincere le primarie del centrosinistra, ma per eventualmente governare dopo.
Non ha paura di raffrontarsi dialetticamente con nessuno.
Dobbiamo confrontarlo con quello che c'è in giro, non bisogna fare l'errore di pensare che si possa poi eleggere Berlinguer, el Che o Jim Morrison, chessò.
Perderà? Non vuole altri incarichi, non vuole premi di consolazione. Vi sembra poco?
Tifa Fiorentina.
Facciamo finta che... i giovani abbian sempre un'occasione - (Ombretta Colli)
p.s. sarei andato a votare alle primarie pure se ero(*) un carciofo.
(*) Aut. Min. Conc.
Facciamo che tra gli oppositori i posti eran finiti e mi son seduto dalla parte dei fan di Matteino.
Intanto sono cresciuto in una famiglia contadino/operaio/partigiana delle campagne fiorentine e sono di sinistra, forse crescendo a Latina sarei stato di destra e crescendo a Mimongo un carciofo, ma tant'è, sono di sinistra e andrò a votare alle primarie di coalizione. E verserò il mio obolo, 1 o 2 euri che siano, nella speranza che non se l'inguatti qualcuno.
Alle primarie NON voterò Renzi. Però, però...
Devo confessare che Renzi esercita su di me un certo fascino e vorrei qui immedesimarmi in un suo sostenitore convinto affinché qualcuno di voi mi smonti e mi mandi a votare senza tentennamenti.
Una simulazione, io chiudo gli occhi e prendo le parti di Renzi, voi me li aprite.
È una novità. Non che il nuovo sia per forza positivo, ma conoscendo il vecchio - e purtroppo le occasioni non sono mancate ultimamente - conoscendo il vecchio, la novità, certo così negativa non può essere.
Non se la sta cavando male a Firenze, molto attento agli aspetti turistico-culturali della città, disponibile con la gente, presente.
Comunicatore abile e preparato, innovativo, trasparente.
Ha un programma vero, copiato/non copiato, è un programma concreto.
Se gli fai una domanda risponde, non con la fuffa politichese dei D'Alema, dei Fini, delle Bindi ma con argomentazioni comprensibili e senza giri di parole (ok, qui fate un po' finta anche voi).
Ha quella patina di arrogante autorità necessaria, non tanto per vincere le primarie del centrosinistra, ma per eventualmente governare dopo.
Non ha paura di raffrontarsi dialetticamente con nessuno.
Dobbiamo confrontarlo con quello che c'è in giro, non bisogna fare l'errore di pensare che si possa poi eleggere Berlinguer, el Che o Jim Morrison, chessò.
Perderà? Non vuole altri incarichi, non vuole premi di consolazione. Vi sembra poco?
Facciamo finta che... i giovani abbian sempre un'occasione - (Ombretta Colli)
p.s. sarei andato a votare alle primarie pure se ero(*) un carciofo.
(*) Aut. Min. Conc.
3 novembre 2012
Lingue e Letterature Straniere
Càpita in libreria che per darmi in tono mi soffermi nel reparto volumi in lingua straniera, inglese per lo più, e inizi a sfogliarne qualcuno. Ho provato con The Corrections di Franzen ma niente, del primo paragrafo ho compreso solo poche parole sparse e certo non il senso delle frasi.
Poi ne ho preso in mano un altro, assai accattivante a vedersi e a toccarsi (una copertina simil pergamenata), e mi supplicava di possederlo. Non so se capita anche a voi, ma io in quei luoghi sento le voci, dei libri.
Aggiungiamo che, leggendo qua e là, qualcosa capivo ed ecco che ho fatto il mio 3° acquisto di un libro in inglese della mia vita.
Il primo fu The Catcher in the Rye che presi e lessi subito dopo aver divorato la versione in italiano e che, grazie a ciò, compresi discretamente. O almeno pensai. La lettura in lingua originale, tra l'altro mi svelò che gran parte delle locuzioni "e compagnia bella" "e tutto quanto" "e via discorrendo" che tanto mi avevano affascinato nella lettura del romanzo altro non erano che una licenza, discutibile? apprezzabile?, della traduttrice Adriana Motti, in quanto, il vecchio Salinger, in chiusura a tanti periodi della storia, altro non aveva scritto che "at all".
Il secondo, acquistato a Londra quest'anno, è una raccolta di proverbi e s'intitola An apple a day, di Caroline Taggart, lo leggo a sprazzi la sera a letto, quando ho troppo sonno per concentrarmi su fasci di parole che sviluppano una trama.
Ma eccoci al terzo, è quello della foto ed è un manuale d'insulti, insulti raccolti per categoria, dalla letteratura al cinema, dalla tivù alla politica, dallo sport al lavoro, dall'amore all'odio.
Insomma, non fatevi ingannare dalle apparenze, è zeppo di materiale sfizioso, può piacere.
E poi, nel caso, potete anche solo accarezzarlo.
Un estratto:
Don't hesitate to speak your mind... you have nothing to lose.
Don't hate me because I'm beautiful... hate me because your boyfriend thinks I'm beautiful.
Of all the people I've meet... you're certainly one of them.
Some folks seems to have descended from the chimpanzee later than others.
Poi ne ho preso in mano un altro, assai accattivante a vedersi e a toccarsi (una copertina simil pergamenata), e mi supplicava di possederlo. Non so se capita anche a voi, ma io in quei luoghi sento le voci, dei libri.
Aggiungiamo che, leggendo qua e là, qualcosa capivo ed ecco che ho fatto il mio 3° acquisto di un libro in inglese della mia vita.
Il primo fu The Catcher in the Rye che presi e lessi subito dopo aver divorato la versione in italiano e che, grazie a ciò, compresi discretamente. O almeno pensai. La lettura in lingua originale, tra l'altro mi svelò che gran parte delle locuzioni "e compagnia bella" "e tutto quanto" "e via discorrendo" che tanto mi avevano affascinato nella lettura del romanzo altro non erano che una licenza, discutibile? apprezzabile?, della traduttrice Adriana Motti, in quanto, il vecchio Salinger, in chiusura a tanti periodi della storia, altro non aveva scritto che "at all".
Il secondo, acquistato a Londra quest'anno, è una raccolta di proverbi e s'intitola An apple a day, di Caroline Taggart, lo leggo a sprazzi la sera a letto, quando ho troppo sonno per concentrarmi su fasci di parole che sviluppano una trama.
Ma eccoci al terzo, è quello della foto ed è un manuale d'insulti, insulti raccolti per categoria, dalla letteratura al cinema, dalla tivù alla politica, dallo sport al lavoro, dall'amore all'odio.
Insomma, non fatevi ingannare dalle apparenze, è zeppo di materiale sfizioso, può piacere.
E poi, nel caso, potete anche solo accarezzarlo.
Un estratto:
Don't hesitate to speak your mind... you have nothing to lose.
Don't hate me because I'm beautiful... hate me because your boyfriend thinks I'm beautiful.
Of all the people I've meet... you're certainly one of them.
Some folks seems to have descended from the chimpanzee later than others.
1 novembre 2012
Voti di corridoio
Le elezioni politiche si avvicinano a grandi passi e, nonostante la disaffezione conclamata del popolo votante verso la politica e chi la incarna in questo frangente storico, nessuno c'impedirà di tornare alle urne nel 2013.
La legge elettorale ha quasi 7 anni, s'è capito subito ch'era penosa e sono già 6 anni e mezzo che colui che la scrisse, che per rispetto di tutti eviterò di nominare, l'ha definita una porcata.
Da allora tutti (TUTTI) a infamarla e a moralmente rigettarla. Il porcellum qui, il porcellum là, non si può votare col porcellum e non si può rivotare col porcellum.
Ma proprio tutti eh, un rifiuto bipartisan, tripartisan e tutte le partisan che riuscite a immaginare.
Ricapitolando, 6 anni e mezzo che si pensa di cambiarla, tra sei mesi si vota e ancora non siamo a nulla.
Oltretutto, e qui siamo alla fantascienza pura che tra un poco ci compra la Disney pure a noi, chi è in bazzica a riscriverla? Il solito di prima. Giuro. Ma non ci credo. Nanni Loy esci fuori!
Siamo alle porte coi sassi e ancora non si vede la luce in fondo al tunnel della legge elettorale. Pure la famigerata ripresa rischia davvero di arrivare prima della legge elettorale nuova.
E affidare la riscrittura della legge elettorale al solito leghista lì sarebbe un po' come affidarsi per l'uscita della crisi alla Lehman Brothers.
Non so quanti di voi abbiano avuto la fortuna di percorrere il camminamento del Corridoio Vasariano agli Uffizi di Firenze, o quanti comunque l'abbiano potuto ammirare anche da fuori. Beh, sappiate che per realizzarlo, il Corridoio Vasariano non un capanno degli attrezzi in mezzo a un campo, ci son voluti ben cinque mesi.
Cinque lunghissimi mesi.
Qualcuno si può mettere giù di buzzo buono e imbrattare 'ste due carte prima del voto? Alle brutte può bastare anche un copia incolla dalla legge di uno Stato estero qualsiasi, difficile pescare peggio.
Con un Trova Sostituisci "Stato estero qualsiasi" con "Italia" ve la dovreste cavare.
Non vi si chiede di replicare un'opera grandiosa come il Vasariano, anche perché capaci che poi la tirate su a cazzo giusto per poterla condonare subito dopo, ma di scrivere un testo decente, quello che un liceale potrebbe elaborare in una mattinata durante un compito in classe, gratis.
E rispetto al Vasari vi avanza pure un mese.
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