- Fai ancora la raccolta delle figurine calciatori, ma adesso completi l’album;
- La tua donna ideale ha 40 anni;
- Scansi come la peste l’ultimo spettacolo al cine;
- Tendi a ripeterti;
- Ti piglia una fissa per corsa o nuoto o bici o palestra;
- Prendi finalmente coscienza che non potrai più diventare campione del mondo, di nulla;
- Tendi a ripeterti;
- Di sabato ti svegli alle 7 e non ti riaddormenti;
- Rivaluti zuppe e minestre tendenzialmente liquide;
- Ti commuovi al pensiero di Ben Turpin e Harold Lloyd;
- Tendi a ripeterti.
31 marzo 2014
10 indizi (più uno) che hai superato i 50
27 marzo 2014
Medaglia di legno
Della serie: La pol'esse pure di tecche, ma di legno la rimane.
Nel senso che ho fatto quarto e che premiavano i primi tre. Insomma sì, la soddisfazione resta tutta ma un po' di vil pecunia non avrebbe guastato, magari mi sarei potuto accattare una Underwood nuova, e invece nisba.
Lo conoscete il concorso? È carino se vi piace scrivere in giallo o se anche solo vi volete cimentare per la prima volta.
Sulla rivista Il Carabiniere, sul numero del prossimo aprile, uscirà il mio racconto, titolo: Parole Crociate.
Queste le note della giuria in merito:
Immediatamente nei pressi del podio troviamo invece Parole crociate. Si tratta di una storia tragica, un dramma familiare in cui un militare dell'Arma dovrà indagare su uno dei delitti che più turbano le nostre coscienze: la pedofilia.
Bon, niente, se vi va di partecipare qui trovate il bando, svelti, scade il 15 aprile.
E questo è l'incipit di Parole Crociate:
Il borro di Fontenova scorre in una piccola valle che da Ponte al Drago risale verso la zona collinare ed è costeggiato da una stradella dal fondo acciottolato, poi erboso e poi battuto di terra argillosa, fino alla pescaia del pioppo, quindi prosegue dall’altro lato, dopo l’attraversamento di un ponticino in tavole di legno.
Percorrono il sentiero camminatori e podisti, padroni e cani e, a seconda della stagione, fungaioli e cacciatori.
Dino Cioncolini è un cacciatore, cammina di buon passo lungo la stradella, fucile in spalla scarico, animo sereno e ben disposto verso il mondo, come si confà in questa soleggiata e calda giornata di fine settembre.
Va al capanno a tirare ai tordi o, come spesso capita quando si muove di pomeriggio, a non tirare ai tordi né a nient’altro, ma intanto esce da casa, respira del buono e svuota la mente dai pensieri.
Dino lascia il borro e risale un viottolo sul costone a solatìo verso il capanno, la struttura di legno e frasche tirata su da lui stesso assieme ad altri compagni di caccia. Nel versante opposto della valletta, a bacìo, sul limitare dei campi prende vigore un bosco, e da lì inizia la riserva di caccia.
Giunto a una ventina di metri dal capanno, Dino s’addossa a una macchia di rovi per la pisciata rituale prima d’infrattarsi alla vista delle prede volatili. È lì che gli pare di sentire un rumore, forse la porta del capanno scossa dal vento, o un frusciare più forte di fronde, niente però che lo induca a interrompere la minzione. Così finisce e va.
In effetti, la porticina del capanno è socchiusa, nota arrivando...
Manco a dirlo, un sentito grazie va al mio Gordon Lish di riferimento: TuttiNoiSappiamoChi.
Nel senso che ho fatto quarto e che premiavano i primi tre. Insomma sì, la soddisfazione resta tutta ma un po' di vil pecunia non avrebbe guastato, magari mi sarei potuto accattare una Underwood nuova, e invece nisba.
Lo conoscete il concorso? È carino se vi piace scrivere in giallo o se anche solo vi volete cimentare per la prima volta.
Sulla rivista Il Carabiniere, sul numero del prossimo aprile, uscirà il mio racconto, titolo: Parole Crociate.
Queste le note della giuria in merito:
Immediatamente nei pressi del podio troviamo invece Parole crociate. Si tratta di una storia tragica, un dramma familiare in cui un militare dell'Arma dovrà indagare su uno dei delitti che più turbano le nostre coscienze: la pedofilia.
Bon, niente, se vi va di partecipare qui trovate il bando, svelti, scade il 15 aprile.
E questo è l'incipit di Parole Crociate:
Il borro di Fontenova scorre in una piccola valle che da Ponte al Drago risale verso la zona collinare ed è costeggiato da una stradella dal fondo acciottolato, poi erboso e poi battuto di terra argillosa, fino alla pescaia del pioppo, quindi prosegue dall’altro lato, dopo l’attraversamento di un ponticino in tavole di legno.
Percorrono il sentiero camminatori e podisti, padroni e cani e, a seconda della stagione, fungaioli e cacciatori.
Dino Cioncolini è un cacciatore, cammina di buon passo lungo la stradella, fucile in spalla scarico, animo sereno e ben disposto verso il mondo, come si confà in questa soleggiata e calda giornata di fine settembre.
Va al capanno a tirare ai tordi o, come spesso capita quando si muove di pomeriggio, a non tirare ai tordi né a nient’altro, ma intanto esce da casa, respira del buono e svuota la mente dai pensieri.
Dino lascia il borro e risale un viottolo sul costone a solatìo verso il capanno, la struttura di legno e frasche tirata su da lui stesso assieme ad altri compagni di caccia. Nel versante opposto della valletta, a bacìo, sul limitare dei campi prende vigore un bosco, e da lì inizia la riserva di caccia.
Giunto a una ventina di metri dal capanno, Dino s’addossa a una macchia di rovi per la pisciata rituale prima d’infrattarsi alla vista delle prede volatili. È lì che gli pare di sentire un rumore, forse la porta del capanno scossa dal vento, o un frusciare più forte di fronde, niente però che lo induca a interrompere la minzione. Così finisce e va.
In effetti, la porticina del capanno è socchiusa, nota arrivando...
Manco a dirlo, un sentito grazie va al mio Gordon Lish di riferimento: TuttiNoiSappiamoChi.
26 marzo 2014
Come vedere Fiorentina Milan in streaming
No, perché mica lo so, è solo che mi fanno impazzire i titoli del genere lanciati da Il Post, e allora vuoi vedere che questi stanno in vetta alle classifiche dei blog perché sono un po' paraculi?
Venghino signori venghino!E voi che passate di qui perché speravate di vedere a scrocco uno stop di Borja Valero e una simulazione di Balotelli, sappiate che La Linea non può offrire questi servigi, anche perché si andrebbe su i' penale.
Però, oramai che ci siete, approfittatene e fatevi un giro: è gratis!
24 marzo 2014
Tristano e Isotta al Comunale: PAZZESCO!
Premetto che parlo dalle abissali profondità della mia ignoranza in materia, cionondimeno mi sento in dovere di rompere il muro di omertà creatosi attorno a quest'evento.
Tira via un adulto, un adulto ce la può fare a resistere, dall'alto del suo spessore socio-razional-rispettoso, alla palla mortale wagneriana propinata come anteprima del Maggio Musicale Fiorentino al Comunale di Firenze nello scorso weekend, ma un bambino no, non venitemelo proprio a raccontare!
E allora non la si può presentare, quest'opera, come "IDEATA PER I RAGAZZI DELLE SCUOLE", si tratta di pubblicità ingannevole se non anche di circonvenzione d'incapaci: le povere famiglie incapaci di rinunciare alla cospicua badilata di cultura a buon mercato.
Persino il titolo "La fiaba di Tristano e Isotta" è indegnamente fuorviante.
Al di là della riuscita c'è uno spunto educativo forte, diranno i nostri attempati lettori, verso la cultura in generale e l'opera in particolare. Sì, certo, ma si tratta della deriva siberiana dell'educazione: educazione a delinquere, verso Wagner tendenzialmente.
Seriamente, la scelta dell'opera non è azzeccata e non traspare nessun adattamento della stessa per agevolarne la fruizione al giovane pubblico. Gli unici che probabilmente ne porteranno un buon ricordo sono i ragazzi coinvolti direttamente nella recitazione.
Niente da dire, anzi di gran pregio, scenografia e costumi, ma troppo poco per sperare che da soli potessero tenere desto l'interesse della giovane platea per due ore.
Mi sono annoiato a morte e poi mi sono pure schifato per certi commenti di piaggeria pura che mi sono dovuto sorbire dopo.
Esemplare, manco a dirlo, il comportamento di dolcemetà. E dire che essendo la promotrice dell'evento nella nostra cerchia ne avrebbe avuti di motivi per tentare di salvare la serata addolcendo il giudizio sulla rappresentazione. E invece a dieci minuti dalla fine mi s'è avvicinata all'orecchio e in un fiotto di sincerità spaventoso mi ha sillabato, con l'intonazione di Alan Arkin in Argo: WA-GNER VAF-FAN-CU-LO!
Da lì in poi il riso ci ha sopraffatto e anche se non abbiamo avuto il coraggio di alzarsi in piedi e gridarlo a gran voce (sarebbe crollato il teatro in un'ovazione liberatoria degna della fantozziana proiezione della Corazzata Potëmkin!) la serata si è riaperta al buonumore.
Tira via un adulto, un adulto ce la può fare a resistere, dall'alto del suo spessore socio-razional-rispettoso, alla palla mortale wagneriana propinata come anteprima del Maggio Musicale Fiorentino al Comunale di Firenze nello scorso weekend, ma un bambino no, non venitemelo proprio a raccontare!
E allora non la si può presentare, quest'opera, come "IDEATA PER I RAGAZZI DELLE SCUOLE", si tratta di pubblicità ingannevole se non anche di circonvenzione d'incapaci: le povere famiglie incapaci di rinunciare alla cospicua badilata di cultura a buon mercato.
Persino il titolo "La fiaba di Tristano e Isotta" è indegnamente fuorviante.
Al di là della riuscita c'è uno spunto educativo forte, diranno i nostri attempati lettori, verso la cultura in generale e l'opera in particolare. Sì, certo, ma si tratta della deriva siberiana dell'educazione: educazione a delinquere, verso Wagner tendenzialmente.
Seriamente, la scelta dell'opera non è azzeccata e non traspare nessun adattamento della stessa per agevolarne la fruizione al giovane pubblico. Gli unici che probabilmente ne porteranno un buon ricordo sono i ragazzi coinvolti direttamente nella recitazione.
Niente da dire, anzi di gran pregio, scenografia e costumi, ma troppo poco per sperare che da soli potessero tenere desto l'interesse della giovane platea per due ore.
Mi sono annoiato a morte e poi mi sono pure schifato per certi commenti di piaggeria pura che mi sono dovuto sorbire dopo.
Esemplare, manco a dirlo, il comportamento di dolcemetà. E dire che essendo la promotrice dell'evento nella nostra cerchia ne avrebbe avuti di motivi per tentare di salvare la serata addolcendo il giudizio sulla rappresentazione. E invece a dieci minuti dalla fine mi s'è avvicinata all'orecchio e in un fiotto di sincerità spaventoso mi ha sillabato, con l'intonazione di Alan Arkin in Argo: WA-GNER VAF-FAN-CU-LO!
Da lì in poi il riso ci ha sopraffatto e anche se non abbiamo avuto il coraggio di alzarsi in piedi e gridarlo a gran voce (sarebbe crollato il teatro in un'ovazione liberatoria degna della fantozziana proiezione della Corazzata Potëmkin!) la serata si è riaperta al buonumore.
22 marzo 2014
Fonzie non si nasce, si diventa
Sì, ritengo proprio che il buon Arthur Fonzarelli alla materna possa averne buscate da qualche bullo e che alle elementari si sia dovuto ingoiare il rospo per l'amichetto che gli aveva ladrato le figurine o la merenda. Ma poi, e forse anche per merito di tali intoppi, col passare del tempo, finisce che diventa Fonzie in barba a tutti i pivelli del Wisconsin.
Diventa Fonzie: conquista le ragazze con uno snap delle dita e fa partire il jukebox con un pugno.
È andata che la lavatrice di casa ha inopinatamente cominciato a fare le bizze dopo appena una decina d'anni, e millemila calzini divorati, di onorata carriera. Non parte più per farla breve. A meno che...
A meno che non le assesti un pugno fonziano.
C'è quel pispolo che chiude l'oblò, beh non chiedetemi perché e per come, ma pare che debba entrare in contatto con non so cosa per garantire l'accensione dell'apparecchio; fatto sta che è un po' piegato, forse, per l'usura o boh, insomma serri l'oblò ma lui non chiude il circuito come dovrebbe.
E allora le devi mollare un cazzottone alla tipa lì, alla lavatrice.
Sono mesi ormai e ho imparato perfettamente il punto dove colpire (sulla cornice dell'oblò in direttrice sud-est), con che intensità colpire (vivace con brio) e con che inclinazione del pugno (33°).
E niente, Fonzie lo piglio di tacco: datemi un jukebox e con un colpo vi faccio saltare fuori direttamente Bob Dylan con l'armonica.
Tutto questo rischiava di deprimere dolcemetà che, trovandosi nella necessità di far partire l'aggeggio, aveva preso a sferrare delle vere gragnuole di colpi un po' a casaccio che ricordavano molto quelle del povero Foreman a caccia di Alì sul ring di Kinshasa.
Il fatto che io arrivassi sul posto e che con un solo unico pugno fossi in grado di dare il via all'elettrodomestico ribelle non era poi certo un buon viatico per la stabilità della coppia.
Ma a furia di mollichine di pane sono riuscito a trasmettere la conoscenza e in questi sabati pregni di lavatrici da far andare, mentre io son di qua che scribacchio queste righe per voi, ben conscio di quanto mi costeranno quando magari tra qualche anno le capiteranno sotto gli occhi (a seguito di una delazione incontrollata), è un vero piacere ascoltarla mentre fa partire il lavaggio, senza più bestemmiare, con un singolo pugno. E se proprio le va male, due.
Diventa Fonzie: conquista le ragazze con uno snap delle dita e fa partire il jukebox con un pugno.
È andata che la lavatrice di casa ha inopinatamente cominciato a fare le bizze dopo appena una decina d'anni, e millemila calzini divorati, di onorata carriera. Non parte più per farla breve. A meno che...
A meno che non le assesti un pugno fonziano.
C'è quel pispolo che chiude l'oblò, beh non chiedetemi perché e per come, ma pare che debba entrare in contatto con non so cosa per garantire l'accensione dell'apparecchio; fatto sta che è un po' piegato, forse, per l'usura o boh, insomma serri l'oblò ma lui non chiude il circuito come dovrebbe.
E allora le devi mollare un cazzottone alla tipa lì, alla lavatrice.
Sono mesi ormai e ho imparato perfettamente il punto dove colpire (sulla cornice dell'oblò in direttrice sud-est), con che intensità colpire (vivace con brio) e con che inclinazione del pugno (33°).
E niente, Fonzie lo piglio di tacco: datemi un jukebox e con un colpo vi faccio saltare fuori direttamente Bob Dylan con l'armonica.
Tutto questo rischiava di deprimere dolcemetà che, trovandosi nella necessità di far partire l'aggeggio, aveva preso a sferrare delle vere gragnuole di colpi un po' a casaccio che ricordavano molto quelle del povero Foreman a caccia di Alì sul ring di Kinshasa.
Il fatto che io arrivassi sul posto e che con un solo unico pugno fossi in grado di dare il via all'elettrodomestico ribelle non era poi certo un buon viatico per la stabilità della coppia.
Ma a furia di mollichine di pane sono riuscito a trasmettere la conoscenza e in questi sabati pregni di lavatrici da far andare, mentre io son di qua che scribacchio queste righe per voi, ben conscio di quanto mi costeranno quando magari tra qualche anno le capiteranno sotto gli occhi (a seguito di una delazione incontrollata), è un vero piacere ascoltarla mentre fa partire il lavaggio, senza più bestemmiare, con un singolo pugno. E se proprio le va male, due.
18 marzo 2014
Noti nulla?
Dopo la madre di tutte le domande, della quale abbiamo già a suo tempo disquisito, è senz'altro questo l'interrogativo più infido che una donna ti può porre.
Solitamente quando lei chiede "Noti nulla?" è già tardi perché tu sei rientrato da fuori ma non hai commentato in alcun modo la novità che, se ne deduce, ti è sfuggita.
Nel 90% dei casi si tratta dei capelli, è cosa nota, e questo agevola un tentativo di rimedio al quale la tua lei, solo e se folgorata da un lampo di magnanimità, fingerà di credere.
Nell'altro 10% dei casi diventa tutto molto complicato e gli errori tragici cui vai incontro sono due, di segno opposto seppure entrambi gravi: anotismo e ipernotismo.
In caso di anotismo continui a non accorgerti di un fico secco e al termine di uno screening velocissimo in cui scansioni in un paio di secondi la STANZA - mobili, soprammobili, tende - LEI - vestiti, scarpe, capelli - lo status PULIZIA della casa - polvere, fughe tra le mattonelle, ditate sul televisore - ti conviene senza indugio arrenderti e rimetterti alla clemenza della corte.
Il caso dell'ipernotismo però, che tra l'altro il vostro istinto di sopravvivenza vi spinge a cavalcare anche perché in quei momenti non siete in grado di farvi guidare da un pensiero razionale, può portare a conseguenze indefinibili a priori e di livello altissimo.
L'ipernotismo si conclama con l'avventata proposizione di tutta una serie d'ipotesi che dire campata in aria è volerle molto bene.
«Ah sì, i capelli... più corti?»«Naaa».
«Più chiari?»
«Naaa».
«Più mossi?»
«Naaa. Niente capelli».
«Orpo, niente capelli... sei più abbronzata, ecco, lampada?»
«Macché!»
«Sei dimagrita!»«Prendi per il culo?»
Qui anche l'ipernotista ha esaurito gli specchi cui abbarbicarsi e può soltanto innalzare una bandiera bianca immacolata di fronte all'ineluttabile disfatta delle sue miserabili tesi.
«Comunque, ho cambiato la lampada della piantana, l'ho messa a led».
Nel caso si aspiri a una sorta di riabilitazione postuma, tipo questa: «Ecco sì, in effetti c'è una luce diversa, è per quello che i capelli...» è meglio mantenersi a distanza di sicurezza.
14 marzo 2014
Colpa inconfessata corca perdonata
Avete presente quei tarli che ti s'annidano dentro e lavorano grattando e rosicando la tua coscienza giorno dopo giorno fino a che arriva il momento, di solito in punto di morte, e te ne devi liberare sennò schiatti, ecco. Non sto ancora morendo (nel caso lo faccio a mia insaputa) però volevo scusarmi con una decina di persone pubblicamente.
Confido anche vivamente che nessuno di costoro legga queste righe, ma questo è praticamente certo.
Il tragitto in auto, alla guida della mia Fiat 500 rossa, era spesso percorso in una sorta di trance mediata tra il sonno leggero e il coma vigile, tuttavia il rischio d'incidenti era minimo considerando che parecchi fiorentini stavano a nanna a quell'ora (mica grulli!).
Fatto sta che una sera in via Ponte alle Riffe, una strada stretta con una fila di auto parcheggiate lungo strada a destra e un'altra fila a sinistra, mi sono appisolato, ma solo un attimo, quel tanto sufficiente a strisciare soavemente la fiancata di una decina di veicoli fermi a filo strada (saranno stati due o tre in realtà, ma chi può dirlo con esattezza?).
Lo sfregamento delle lamiere in ogni caso mi ha svegliato procurando anche a me un certo fastidio. Bon, va da sé che non ce l'ho fatta a fermarmi per lasciare il mio numero di telefono sotto al tergicristallo di quei poveri cristi.
Scusa, vabbene? SCUSA.
Uffa.
E voi, avete una colpa incoffessata? Lasciatela nel commentario e vi sarà corca perdonata.
11 marzo 2014
R.i.g.o.e.c. - epilogo
(leggi il capitolo 1)
(leggi il capitolo 2)
«Dunque esiste una lettera cifrata che testimonia il coinvolgimento del qui presente Federico da Montefeltro, meglio noto come il Duca d'Urbino, nella Congiura de' Pazzi. Ma è un ritrovamento recente, neppure Lorenzo de' Medici ha mai sospettato di lui, a suo tempo».
Schiattarella e Fringuelli annuiscono al commissario senza sapere dove voglia andare a parare. Capitava che li chiamasse da lui quando doveva riflettere, a voce alta gli veniva meglio. A voce alta, quando dico una cazzata la sento e me ne accorgo, diceva.
«E non lo trovi nelle guide degli Uffizi, neppure in questa che è il top».
Un fiotto d'acidità allo stomaco gli ricorda che non l'ha pagata la guida presa a prestito il mese scorso e nemmeno l'ha restituita, del resto l'opuscolo risulta carente d'informazioni vitali.
«Vogliamo riaprire il caso? Famiglia Medici contro Duca d'Urbino? Un vero e proprio Cold Case» ironizzò il vice ispettore.
«Tu guardi troppa televisione, Schiattarella, dovresti documentarti sulla storia della città che ti ha accolto, invece».
«Certo!» fa Schiattarella buttando gli occhi al cielo in una diagonale percepibile solo a Fringuelli.
«Lo sapete della congiura dei Pazzi, sì? L'avete sentita almeno rammentare?»
«Certo!»
«Come no!»
Li conosceva bene, quando facevano così in primo luogo non ne sapevano una beata e in secondo volevano essere congedati prima possibile.
«I vostri figli la studieranno a scuola, allora forse ve ne parleranno».
«Certo!»
«Come no!»
«Anche se dubito che i libri di storia siano aggiornati, anzi, di sicuro no».
Sospirando continua la sua riflessione amara.
«Cioè, questo muso di ciuco qui, col suo naso smartellato dal cerusico, ce lo teniamo esposto come un santo, e l'hai visto anche te che popò di sala gli abbiamo riservato a lui e a sua moglie, la poveretta che poi è morta di polmonite a 27 anni. I due sono un vero e proprio vanto della Galleria degli Uffizi e quindi di Firenze... ma guarda caso il duca è un traditore. Uno che, cazzo, non aspettava altro che gli facessero fuori i Medici per trotterellare bello bello col suo esercito di seicento soldatini da Montefeltro alla conquista di Firenze. E senza sporcarsi le mani!»
S'accalora come forse solo l'avvocato del Magnifico potrebbe.
«Vabbè non è che...» Schiattarella vorrebbe sbobinare una serie di pensieri che gli si vanno aggrovigliando in testa, su come le rappresentazioni artistiche in generale non è che vadano ad identificare dei meriti e che quindi, spesso e volentieri, quadri e statue ritraggono anche dei veri coglioni, o degli assassini, personaggi tutt'altro che positivi insomma, ma un po' perché non è convinto del tutto della teoria né del fatto di poterla descrivere con chiarezza e un po' perché gli fa davvero fatica esporre un concetto che poi potrebbe alimentare repliche d'incontrollabile prolissità e noia, si cheta preferendo darsi una più comoda grattata al pizzetto.
«Questo giuda ce lo teniamo incorniciato e appeso manco fosse gesuccristo risorto... ma nella sala dei Crocifissi ci siete stati? L'avete viste le pale di Duccio, Giotto e Cimabue?»
«Certo!»
«Come no!»
«C'è per caso una pala che ritrae Giuda impiccato?»
(Certo)
(Come no)
«Non esiste, ve lo dico io. E se ci fosse sarebbe rinvoltata in una balla e nascosta per bene nel buio della cantina».
Così dicendo si alza e va alla finestra, quella finestra che dà su una Firenze quasi anonima, seppur bellissima, la Basilica di Santa Maria del Carmine a svettare sui tetti rossi e i vicoli ombrosi del quartiere di Pratolini. Tutte le icone della città stanno dall'altra parte del palazzo.
«Schiattarella vedi se riesci a farmi trasferire sul lato nord, ché t'affacci da qui e sembra di stare a Urbino».
7 marzo 2014
Ritratto in giallo ocra e carboncino - (2)
(leggi il capitolo 1)
La mattina successiva il commissario arrivò in ufficio e Schiattarella lo informò che era passata una tipa, una certa Monica Magliabechi, per dettare un identikit.
«Ha chiesto anche di lei commissario, ma aveva fretta».
«Figlia di buona donna! Ma l’ha disegnato lei?»
«No, l’ha dettato a Fringuelli».
«Bene lo stesso, dai. Mandami Fringuelli, che aspetti?»
Il mago dell’identikit Fringuelli, che tanto per chiarire non usava nemmeno una punta di giallo ocra, arrivò con aria soddisfatta e gli porse l’opera.
«Ma… che ti ha dettato un identikit di uno di profilo?»
«Dice che l’ha sempre e solo visto così».
«E poi scusa ma questo tizio l’ho bell’e visto, sta agli Uffizi».
«Chi è, un custode? Sarà un custode» intervenne Schiattarella.
«Macché, sta appeso. È incorniciato».
Ci andarono insieme alla Galleria, Fantechi e Schiattarella, a guardarsi Federico II da Montefeltro, il duca d’Urbino. Schiattarella, che ormai s’era fissato, proseguì interrogando una decina di custodi, quelli che secondo lui puntavano un po’ troppo morbosamente le guide al lavoro. Erano tutte ragazze queste affabulatrici dell’arte e tutte portavano un nastrino nero legato al braccio destro.
Il commissario scese allo shop e si fece prestare una guida dove cercò i più bei volti di donna del museo. Un quarto d’ora dopo beccò Monica davanti all’ Eleonora di Toledo del Bronzino.
Lei lo vide arrivare e i loro sguardi s’incontrarono per un attimo, ma non smise di disegnare.
«Cos’era uno scherzo quello dell’identikit?»
«Ha iniziato a guardare oltre al suo naso, commissario, o sta sempre cercando il fidanzato di Camilla?»
Il cervello di Fantechi strapazzava ipotesi come un frullino. Nei due minuti di silenzio che seguirono fece avvelenare la povera Camilla, nell’ordine, da un fidanzato segreto venuto dal Maine, dal custode quello devastato dalle occhiaie nella sala dei Crocifissi, da un vicino di casa delle Cure pazzo, da una guida invidiosa del suo sapere, da un giapponese conosciuto davanti al Tondo Doni a cui aveva presumibilmente intimato l’ennesimo No Photo, dalla madonnara Magliabechi in persona, dal nipote alle medie di Schiattarella e, in ultimo, da se stesso in un ineluttabile sdoppiamento di personalità.
«Lo sa che il duca d’Urbino era guercio da un occhio? L’aveva perso in una giostra, per questo spesso si faceva ritrarre di profilo».
Non lo sapeva.
«E che quel naso lì se l’è fatto spaccare a martellate, o se l’è fatto segare, ma in ogni caso di proposito, per poter avere una visuale anche dal lato cieco sul campo di battaglia, lo sa?»
Non lo sapeva, perdìo!
«Poi però c’è chi ne ha due di occhi ma ne usa uno solo, o forse nemmeno».
Ormai aveva compreso che Monica Magliabechi si riferiva a lui e a qualcosa che gli stava sotto gli occhi, forse la soluzione, ma che non riusciva proprio a scorgere.
«E del suo amore per la moglie, lo sapeva? È stato al loro cospetto? Quella che gli sta di fronte, la Battista Sforza, è sua moglie, lo sa? E lo sa che li ha richiesti proprio il Duca d’Urbino i ritratti di profilo, affinché lui e la moglie si potessero guardare per l’eternità, non è una storia straordinaria?»
Non lo sapeva, non sapeva un cazzo di questo Duca dal naso tarpato.
«E il ritratto alla moglie? Lo sapeva che Piero della Francesca gliel’ha fatto ch’era morta?»
Che l’accecassero, ma non sapeva nemmeno questo. Decise di tenersi la guida che s’era fatto prestare e mettersi a studiare sul serio.
«E a Camilla lucevano gli occhi quando portava il suo gruppo davanti al Duca d’Urbino e a sua moglie. Se lei volesse andare a Tokyo a ricercare un giapponese che ha fatto la visita alla Galleria con Camilla e che è stato trascinato dai Giotto e dai Cimabue, dai Leonardo e dai Michelangelo, sa cosa ricorderebbe il giapponese?»
«Questo lo so: i duchi d’Urbino!»
«Già i duchi, l’amore del duca per sua moglie e il suo naso rotto a martellate. Perché Camilla era così, era capace di trasportarti via con sé con le sue parole. O con i suoi silenzi».
«E quindi non lo devo cercare un fidanzato?»
«No».
«Ma un amore sì?»
Non rispose, gli apparve sfinita.
«Anche se nella fissità di un'opera d'arte è tutto più facile» continuò Monica con una bava di voce «ma Camilla non era un quadro, non era un viso dipinto con lo sguardo fisso negli occhi fissi d’un altro quadro e di un altro viso, oh no».
Sospirò più volte e il commissario temette che non avrebbe più aggiunto una sola parola.
«E di sicuro nel palazzo ducale di Urbino non c’era né un bar sulla terrazza dell’ultimo piano, né una stronza barista bionda in fuseaux neri e camicetta bianca», la voce di Monica adesso era incrinata e incerta.
Si alzò asciugandosi gli occhi con la manica della camicia, aprì il blocco qualche pagina indietro e ne strappò un foglio lasciandolo cadere lì, ai piedi indifferenti di Eleonora di Toledo e del figlio Giovannino de’ Medici.
Il commissario lo raccolse da terra proprio mentre veniva raggiunto dal vice ispettore Schiattarella reduce dal giro custodi.
«Non ho cavato un ragno dal buco da queste salme, sono omertosi peggio dei Corleone… ehi, ehi, fai un po’ vedere!»
Fantechi gli diede il disegno ocra e carboncino, il difficile veniva adesso.
«Ma perché te ne vai in giro con un disegno di Camilla morta? Non è più comodo se ti porti una foto?»
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Il testo partecipa all' Eds in giallo de La Donna Camèl, con anche:
Bitols - Dario
Il numero 97 - Melusina
N. 2 - Giallo canarino - Angela
La mattina successiva il commissario arrivò in ufficio e Schiattarella lo informò che era passata una tipa, una certa Monica Magliabechi, per dettare un identikit.
«Ha chiesto anche di lei commissario, ma aveva fretta».
«Figlia di buona donna! Ma l’ha disegnato lei?»
«No, l’ha dettato a Fringuelli».
«Bene lo stesso, dai. Mandami Fringuelli, che aspetti?»
Il mago dell’identikit Fringuelli, che tanto per chiarire non usava nemmeno una punta di giallo ocra, arrivò con aria soddisfatta e gli porse l’opera.
«Ma… che ti ha dettato un identikit di uno di profilo?»
«Dice che l’ha sempre e solo visto così».
«E poi scusa ma questo tizio l’ho bell’e visto, sta agli Uffizi».
«Chi è, un custode? Sarà un custode» intervenne Schiattarella.
«Macché, sta appeso. È incorniciato».
Ci andarono insieme alla Galleria, Fantechi e Schiattarella, a guardarsi Federico II da Montefeltro, il duca d’Urbino. Schiattarella, che ormai s’era fissato, proseguì interrogando una decina di custodi, quelli che secondo lui puntavano un po’ troppo morbosamente le guide al lavoro. Erano tutte ragazze queste affabulatrici dell’arte e tutte portavano un nastrino nero legato al braccio destro.
Il commissario scese allo shop e si fece prestare una guida dove cercò i più bei volti di donna del museo. Un quarto d’ora dopo beccò Monica davanti all’ Eleonora di Toledo del Bronzino.
Lei lo vide arrivare e i loro sguardi s’incontrarono per un attimo, ma non smise di disegnare.
«Cos’era uno scherzo quello dell’identikit?»
«Ha iniziato a guardare oltre al suo naso, commissario, o sta sempre cercando il fidanzato di Camilla?»
Il cervello di Fantechi strapazzava ipotesi come un frullino. Nei due minuti di silenzio che seguirono fece avvelenare la povera Camilla, nell’ordine, da un fidanzato segreto venuto dal Maine, dal custode quello devastato dalle occhiaie nella sala dei Crocifissi, da un vicino di casa delle Cure pazzo, da una guida invidiosa del suo sapere, da un giapponese conosciuto davanti al Tondo Doni a cui aveva presumibilmente intimato l’ennesimo No Photo, dalla madonnara Magliabechi in persona, dal nipote alle medie di Schiattarella e, in ultimo, da se stesso in un ineluttabile sdoppiamento di personalità.
«Lo sa che il duca d’Urbino era guercio da un occhio? L’aveva perso in una giostra, per questo spesso si faceva ritrarre di profilo».
Non lo sapeva.
«E che quel naso lì se l’è fatto spaccare a martellate, o se l’è fatto segare, ma in ogni caso di proposito, per poter avere una visuale anche dal lato cieco sul campo di battaglia, lo sa?»
Non lo sapeva, perdìo!
«Poi però c’è chi ne ha due di occhi ma ne usa uno solo, o forse nemmeno».
Ormai aveva compreso che Monica Magliabechi si riferiva a lui e a qualcosa che gli stava sotto gli occhi, forse la soluzione, ma che non riusciva proprio a scorgere.
«E del suo amore per la moglie, lo sapeva? È stato al loro cospetto? Quella che gli sta di fronte, la Battista Sforza, è sua moglie, lo sa? E lo sa che li ha richiesti proprio il Duca d’Urbino i ritratti di profilo, affinché lui e la moglie si potessero guardare per l’eternità, non è una storia straordinaria?»
Non lo sapeva, non sapeva un cazzo di questo Duca dal naso tarpato.
«E il ritratto alla moglie? Lo sapeva che Piero della Francesca gliel’ha fatto ch’era morta?»
Che l’accecassero, ma non sapeva nemmeno questo. Decise di tenersi la guida che s’era fatto prestare e mettersi a studiare sul serio.
«E a Camilla lucevano gli occhi quando portava il suo gruppo davanti al Duca d’Urbino e a sua moglie. Se lei volesse andare a Tokyo a ricercare un giapponese che ha fatto la visita alla Galleria con Camilla e che è stato trascinato dai Giotto e dai Cimabue, dai Leonardo e dai Michelangelo, sa cosa ricorderebbe il giapponese?»
«Questo lo so: i duchi d’Urbino!»
«Già i duchi, l’amore del duca per sua moglie e il suo naso rotto a martellate. Perché Camilla era così, era capace di trasportarti via con sé con le sue parole. O con i suoi silenzi».
«E quindi non lo devo cercare un fidanzato?»
«No».
«Ma un amore sì?»
Non rispose, gli apparve sfinita.
«Anche se nella fissità di un'opera d'arte è tutto più facile» continuò Monica con una bava di voce «ma Camilla non era un quadro, non era un viso dipinto con lo sguardo fisso negli occhi fissi d’un altro quadro e di un altro viso, oh no».
Sospirò più volte e il commissario temette che non avrebbe più aggiunto una sola parola.
«E di sicuro nel palazzo ducale di Urbino non c’era né un bar sulla terrazza dell’ultimo piano, né una stronza barista bionda in fuseaux neri e camicetta bianca», la voce di Monica adesso era incrinata e incerta.
Si alzò asciugandosi gli occhi con la manica della camicia, aprì il blocco qualche pagina indietro e ne strappò un foglio lasciandolo cadere lì, ai piedi indifferenti di Eleonora di Toledo e del figlio Giovannino de’ Medici.
Il commissario lo raccolse da terra proprio mentre veniva raggiunto dal vice ispettore Schiattarella reduce dal giro custodi.
«Non ho cavato un ragno dal buco da queste salme, sono omertosi peggio dei Corleone… ehi, ehi, fai un po’ vedere!»
Fantechi gli diede il disegno ocra e carboncino, il difficile veniva adesso.
«Ma perché te ne vai in giro con un disegno di Camilla morta? Non è più comodo se ti porti una foto?»
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Il testo partecipa all' Eds in giallo de La Donna Camèl, con anche:
Bitols - Dario
Il numero 97 - Melusina
N. 2 - Giallo canarino - Angela
6 marzo 2014
Ritratto in giallo ocra e carboncino - (1)
Il commissario Dario Fantechi si faceva un cruccio di non avere né un patronimico altisonante né un hobby o una mania per cui ci si potesse appassionare a lui e alle sue indagini: troppo scontato nelle abitudini e ordinario sulla carta d’identità.
Un tempo aveva collezionato bustine di zucchero, ma era stata la moda di una stagione, niente a che vedere con le passioni di Nero Wolfe, per dire.
Certo, aveva sempre desiderato un gatto, quello sì, uno di razza Maine Coon, il gatto più grosso e peloso che avesse mai visto, una sorta di lince domestica. Chissà se qualcuno degli imbrattacarte patentati che sgomitavano ai corsi di scrittura creativa della città di Dante, un giorno si sarebbe ispirato a lui se avesse posseduto un Maine Coon, ci sta che diventasse il commissario col gattone.
Farsi un giro pomeridiano per gli Uffizi era condizione ambientale decisamente più gradevole rispetto alla tappa forzata a casa della vittima, dov’era stato al mattino.
La ragazza morta, molto probabilmente assassinata, si chiamava Camilla, 35 anni, guida turistica, era la figlia di una sua ex-professoressa del liceo e la tragedia assumeva dei tratti particolarmente seccanti e quasi personali.
Al mattino il padre di Camilla non aveva quasi aperto bocca, gingillandosi tutto il tempo con le robe della cucina, tazzine, mestoli, spugnette, caffè; ma la sua vecchia profe, la madre della ragazza, gli s’era affidata completamente, in preda a un dolore forse ancora soltanto abbozzato, ma capace di offuscare il futuro come una nube tossica.
Lui aveva insistito principalmente sui fidanzati presenti e passati, tanto lì si va a cascare, ma al di là di un filarino a venti anni Camilla, che già da una decina d’anni viveva da sola in un altro quartiere, pareva essersi dedicata quasi esclusivamente alle amiche, per viaggi, cinema, cene fuori e quelle cose lì che si fanno da giovani.
Aveva già richiesto l’analisi del traffico del telefono cellulare di Camilla. Se volete davvero ammazzare qualcuno evitate di telefonargli nei dieci anni precedenti l’assassinio, almeno, pensava Fantechi.
La ragazza non aveva un profilo facebook, a quanto pareva, e nemmeno un computer del resto.
Dai vicini di casa della vittima, in zona Cure, ci aveva mandato il vice ispettore Schiattarella, lui sì che con un nome così poteva diventare fonte d'ispirazione per un giallista, certo l'acume era quello che era, povero Schiattarella, però aveva metodo, era ostinato come un trapano mandato a martello, anche se le orchidee no, non le coltivava nemmeno lui.
Agli Uffizi, dai finestroni affacciati sul lungarno filtrava un sole basso e appena tiepido ma capace di riscaldarsi nella rifrazione sulla vetrata.
I custodi potrebbero essere parte essi stessi di una delle performance avanguardiste messe in scena da artisti scafati e fuori di testa, se solo fossimo alla Tate. Ma siamo agli Uffizi e per adesso rimangono custodi.
Fa qualche domanda di rito e ne esce, com’era logico, che tutti bene o male conoscevano Camilla, la quale negli ultimi sei mesi come guida aveva praticamente lavorato solo per gli Uffizi.
Nella sala della Primavera, la custode tracagnotta dal capello corto e tinto di un grigio troppo grigio, gli dice che magari può chiedere anche alla pittrice là, quella per terra, lei la conosceva meglio.
Il commissario l’aveva già notata attraversando la sala una mezz’ora prima: seduta a terra all’indiana, pantalone largo a fiori, camiciona scura e gilet peruviano, capello lungo, riccio e nero. Una madonna forse o una madonnara.
Dipingeva il viso della Venere, era mancina e vedere ciò che andava schizzando sull’album era impresa delicata. Usava solo del carboncino e un giallo ocra a sfumare capace di rendere il tutto più antico ma irragionevolmente più vivo.
Il volto della Venere era armonioso e seducente, quasi meglio dell'originale, con tutto il rispetto per Botticelli.
Le chiese se la conosceva Camilla.
«Certo» gli rispose, era lei che la riforniva di permessi speciali per gli ingressi, gli spiegò la madonna madonnara.
Il commissario le chiese dei suoi lavori a carboncino e lei gli spiegò che si stava laureando in Storia dell’arte e che i bozzetti le servivano per la sua tesi: Le dame agli Uffizi.
La guardò ancora per qualche minuto, rapito, mentre traslava l’estasi dell’opera sulla carta, strusciando e picchiettando, sbaffando e ripassando.
«Hai visto se frequentava assiduamente qualche ragazzo? Qualcuno più di altri? Ti è sembrato che avesse una storia o qualcosa di simile… magari te ne ha parlato, magari hai sentito qualcosa. Uno che la importunava…», gli venne naturale darle del tu.
«Ragazzo? No, direi di no».
«Un turista intraprendente, uno straniero, qualcuno che veniva a prenderla, o qualcuno con cui magari restava a parlare un po’ di più. Un custode forse?»
«Uhm».
Non aveva tutta questa voglia di raccontare, la ragazza.
Il commissario le chiese il nome, Monica si chiamava.
«Se ti viene in mente un particolare di qualcosa o qualcuno, magari passi da me in Questura, c’è un ragazzo bravo con gli identikit, se non lo vuoi fare direttamente tu…» così dicendo allargò le braccia e ammiccò verso l’album dei ritratti di dame, o quello che erano.
Prima di tornare al commissariato, Fantechi fece un salto al bar sulla terrazza del museo, proprio sopra alla Loggia dei Lanzi. Lo spettacolo che si godeva da lì non aveva eguali: il Palazzo Vecchio e Piazza della Signoria erano a completo servizio di lussuriose fotocamere e di occhi golosi come i suoi.
Ordinò un aperitivo analcolico a una fata platinata che si muoveva tra i tavoli come uno sciatore tra i pali stretti.
She loves you riecheggiava nell’aria brunita che avvolgeva quello sprazzo di Rinascimento, classico tra i classici. Avrebbe potuto viverci lì, anzi avrebbe dovuto, pensò.
Tornò la cameriera bionda carina con il cocktail mentre il coro dei fab four illudeva il commissario Fantechi con lo She loves you, yeah yeah yeah, Lei ti ama, sì sì sì… Magari.
In commissariato si vide con Schiattarella, di ritorno dalle Cure, dove aveva torchiato il vicinato di Camilla ma davvero aveva raccolto poco più di niente. Schiattarella lo ragguagliò, però, sull’esito dei primi esami del medico legale sulla ragazza morta: il risultato formale ancora non era disponibile, ma come già sospettavano, Camilla era stata avvelenata.
Sulla scrivania stavano sparpagliate le foto della scena del delitto della sera prima, una cena per due finita in tragedia.
C’era solo da trovare il secondo, l’invitato, quello che aveva alterato la bottiglia di Castello di Pomino siringando giù il veleno attraverso il tappo.
«Quanto al veleno, non ci aiuta» chiosò il vice ispettore «se lo poteva procurare anche mio nipote delle medie. Si tratta di estratto di oleandro bianco, un infuso, una sorta di tisana fatta bollire un paio d’ore e capace di farti dormire sì, ma per sempre».
«Bisogna trovarlo ‘sto cristo».
(continua...)
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Il testo partecipa all' Eds in giallo de La Donna Camèl, con anche:
Bitols - Dario
Il numero 97 - Melusina
N. 2 - Giallo canarino - Angela
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Un tempo aveva collezionato bustine di zucchero, ma era stata la moda di una stagione, niente a che vedere con le passioni di Nero Wolfe, per dire.
Certo, aveva sempre desiderato un gatto, quello sì, uno di razza Maine Coon, il gatto più grosso e peloso che avesse mai visto, una sorta di lince domestica. Chissà se qualcuno degli imbrattacarte patentati che sgomitavano ai corsi di scrittura creativa della città di Dante, un giorno si sarebbe ispirato a lui se avesse posseduto un Maine Coon, ci sta che diventasse il commissario col gattone.
Farsi un giro pomeridiano per gli Uffizi era condizione ambientale decisamente più gradevole rispetto alla tappa forzata a casa della vittima, dov’era stato al mattino.
La ragazza morta, molto probabilmente assassinata, si chiamava Camilla, 35 anni, guida turistica, era la figlia di una sua ex-professoressa del liceo e la tragedia assumeva dei tratti particolarmente seccanti e quasi personali.
Al mattino il padre di Camilla non aveva quasi aperto bocca, gingillandosi tutto il tempo con le robe della cucina, tazzine, mestoli, spugnette, caffè; ma la sua vecchia profe, la madre della ragazza, gli s’era affidata completamente, in preda a un dolore forse ancora soltanto abbozzato, ma capace di offuscare il futuro come una nube tossica.
Lui aveva insistito principalmente sui fidanzati presenti e passati, tanto lì si va a cascare, ma al di là di un filarino a venti anni Camilla, che già da una decina d’anni viveva da sola in un altro quartiere, pareva essersi dedicata quasi esclusivamente alle amiche, per viaggi, cinema, cene fuori e quelle cose lì che si fanno da giovani.
Aveva già richiesto l’analisi del traffico del telefono cellulare di Camilla. Se volete davvero ammazzare qualcuno evitate di telefonargli nei dieci anni precedenti l’assassinio, almeno, pensava Fantechi.
La ragazza non aveva un profilo facebook, a quanto pareva, e nemmeno un computer del resto.
Dai vicini di casa della vittima, in zona Cure, ci aveva mandato il vice ispettore Schiattarella, lui sì che con un nome così poteva diventare fonte d'ispirazione per un giallista, certo l'acume era quello che era, povero Schiattarella, però aveva metodo, era ostinato come un trapano mandato a martello, anche se le orchidee no, non le coltivava nemmeno lui.
Agli Uffizi, dai finestroni affacciati sul lungarno filtrava un sole basso e appena tiepido ma capace di riscaldarsi nella rifrazione sulla vetrata.
I custodi potrebbero essere parte essi stessi di una delle performance avanguardiste messe in scena da artisti scafati e fuori di testa, se solo fossimo alla Tate. Ma siamo agli Uffizi e per adesso rimangono custodi.
Fa qualche domanda di rito e ne esce, com’era logico, che tutti bene o male conoscevano Camilla, la quale negli ultimi sei mesi come guida aveva praticamente lavorato solo per gli Uffizi.
Nella sala della Primavera, la custode tracagnotta dal capello corto e tinto di un grigio troppo grigio, gli dice che magari può chiedere anche alla pittrice là, quella per terra, lei la conosceva meglio.
Il commissario l’aveva già notata attraversando la sala una mezz’ora prima: seduta a terra all’indiana, pantalone largo a fiori, camiciona scura e gilet peruviano, capello lungo, riccio e nero. Una madonna forse o una madonnara.
Dipingeva il viso della Venere, era mancina e vedere ciò che andava schizzando sull’album era impresa delicata. Usava solo del carboncino e un giallo ocra a sfumare capace di rendere il tutto più antico ma irragionevolmente più vivo.
Il volto della Venere era armonioso e seducente, quasi meglio dell'originale, con tutto il rispetto per Botticelli.
Le chiese se la conosceva Camilla.
«Certo» gli rispose, era lei che la riforniva di permessi speciali per gli ingressi, gli spiegò la madonna madonnara.
Il commissario le chiese dei suoi lavori a carboncino e lei gli spiegò che si stava laureando in Storia dell’arte e che i bozzetti le servivano per la sua tesi: Le dame agli Uffizi.
La guardò ancora per qualche minuto, rapito, mentre traslava l’estasi dell’opera sulla carta, strusciando e picchiettando, sbaffando e ripassando.
«Hai visto se frequentava assiduamente qualche ragazzo? Qualcuno più di altri? Ti è sembrato che avesse una storia o qualcosa di simile… magari te ne ha parlato, magari hai sentito qualcosa. Uno che la importunava…», gli venne naturale darle del tu.
«Ragazzo? No, direi di no».
«Un turista intraprendente, uno straniero, qualcuno che veniva a prenderla, o qualcuno con cui magari restava a parlare un po’ di più. Un custode forse?»
«Uhm».
Non aveva tutta questa voglia di raccontare, la ragazza.
Il commissario le chiese il nome, Monica si chiamava.
«Se ti viene in mente un particolare di qualcosa o qualcuno, magari passi da me in Questura, c’è un ragazzo bravo con gli identikit, se non lo vuoi fare direttamente tu…» così dicendo allargò le braccia e ammiccò verso l’album dei ritratti di dame, o quello che erano.
Prima di tornare al commissariato, Fantechi fece un salto al bar sulla terrazza del museo, proprio sopra alla Loggia dei Lanzi. Lo spettacolo che si godeva da lì non aveva eguali: il Palazzo Vecchio e Piazza della Signoria erano a completo servizio di lussuriose fotocamere e di occhi golosi come i suoi.
Ordinò un aperitivo analcolico a una fata platinata che si muoveva tra i tavoli come uno sciatore tra i pali stretti.
She loves you riecheggiava nell’aria brunita che avvolgeva quello sprazzo di Rinascimento, classico tra i classici. Avrebbe potuto viverci lì, anzi avrebbe dovuto, pensò.
Tornò la cameriera bionda carina con il cocktail mentre il coro dei fab four illudeva il commissario Fantechi con lo She loves you, yeah yeah yeah, Lei ti ama, sì sì sì… Magari.
In commissariato si vide con Schiattarella, di ritorno dalle Cure, dove aveva torchiato il vicinato di Camilla ma davvero aveva raccolto poco più di niente. Schiattarella lo ragguagliò, però, sull’esito dei primi esami del medico legale sulla ragazza morta: il risultato formale ancora non era disponibile, ma come già sospettavano, Camilla era stata avvelenata.
Sulla scrivania stavano sparpagliate le foto della scena del delitto della sera prima, una cena per due finita in tragedia.
C’era solo da trovare il secondo, l’invitato, quello che aveva alterato la bottiglia di Castello di Pomino siringando giù il veleno attraverso il tappo.
«Quanto al veleno, non ci aiuta» chiosò il vice ispettore «se lo poteva procurare anche mio nipote delle medie. Si tratta di estratto di oleandro bianco, un infuso, una sorta di tisana fatta bollire un paio d’ore e capace di farti dormire sì, ma per sempre».
«Bisogna trovarlo ‘sto cristo».
(continua...)
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