23 aprile 2014

Due sulla strada

Lei ha i capelli corti della donna volitiva o della donna dai capelli troppo fini.
Lui ha ancora il casco in testa nonostante la conversazione sembra affondare radici in almeno venti precedenti minuti. Consciamente mantiene il casco per non farsi riconoscere anche se dovrebbe comprarne uno più anonimo, meno metallizzato e privo della stella a cinque punte rosso fuoco.
Siamo pur sempre sulla strada e passa chi torna dal lavoro o magari chi ci va, passa chi è diretto all'autostrada e chi all'ingrosso di moda più avanti, passa chi va in concessionaria e chi al parco coi figli e gli amici dei figli presi a nolo. Nell'inconfessato, invece, il casco in testa è l'ultimo e ridicolo baluardo per difendersi dalle stilettate di lei.
Perché lei è stanca, questo è.
Lei tiene il casco nella mano destra, giù lungo la gamba, e usa la sinistra per dissodare il terreno tra loro due, per vangarlo nell'attesa di uno spaglio di sementi nuove o di una pioggia che porta via.
E la mano di lei che va su e giù, con il dorso rivolto a terra, in un itinerario non così naturale, è l'unico frammento del quadro in movimento.
E glielo dice che è stanca, che basta essere quella che viene dopo, che vuole due giorni - due cazzosi giorni - per loro, e li vuole subito. Che poi siano a Parigi, a Praga, o anche pure a Venezia o nel deserto del Gobi, poco importa.
Non gli chiede la vita eterna, non gli chiede tutto l'amore che può e non gli chiede nemmeno di tirarsi via il casco dalla testa; gli chiede soltanto di soffiare una bolla di sapone grande abbastanza perché li possa contenere, giusto per un po'.
E il suo modulo di richiesta è quella mano che sale e che scende e divide come un vomere assetato di terra.
Forse, le dirà lui e Vaffanculo gli dirà lei.
E quando lei se ne andrà, lui resterà imbambolato sul ciglio della strada a cercare nel fiume del traffico la traccia d'un lontanto parente, di un collega o di un compaesano, così, tanto per alzare la mano e salutare una faccia nota.
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Si può scrivere anche senza eds: PAZZESCO !!!1!1!!!!1

22 aprile 2014

Di cosa parliamo quando parliamo d'amore in salita

Di più effimero ed esplosivo dell’amore di un’estate c’è solo l’amore di una salita.
Quando ti capita, in una delle corsette domenicali dove vai a sfrantumarti per la gioia dei tuoi muscoli, d’incrociare sulla tua strada un cristiano che soffre al tuo pari, come nulla scatta la scintilla.
Ti ritrovi ad ansimare di fianco a un tizio, fino ad allora sconosciuto, mentre t’inerpichi soffrendo l’inenarrabile su per un chilometro e mezzo di salita (sotto al chilometro non può essere vero amore!).
È lì che butti una frase come un’altra “Ma si sale ancora?” o “Dai, piano piano” oppure “ ’zzo pensavo che la salita era finita” (è sconsigliable usare correttamente il congiuntivo, non sai mai con chi te la corri) e si genera questa empatia tra moribondi che avevo sperimentato solo da militare.
È un ragazzone alto, lo intravedo con la coda dell’occhio, vestito più o meno di nero, di faccia non so non ci guardiamo, solo corriamo fianco a fianco, nello stesso metro quadro, uniti e solidali contro il mondo.
Vorrei raccontargli di quando ho imparato ad andare in bici, o di quella volta che ho visto Napoli da Castel Sant’Elmo al tramonto, vorrei chiedergli se si era alzato di notte per vedere Alì contro Frazier o se, per lo meno, era nato, e vorrei inondarlo di parole su quanto ho amato Il favoloso mondo di Amelie, vorrei mettergli in mano la mia vita, vorrei portarlo a conoscere i miei, a vedere l’erba del mio prato e a pigliare un mojito fatto con la mia menta. Vorrei abbracciarlo.
E poi vorrei che anche lo spilungone in nero mi dicesse di sé, e sento che anche lui non desidera altro che raccontarmi della gioia di quando ha preso quel pesce enorme e di come lo guardava suo babbo, e di quanto odiava il suo fratellone per le botte che gli dava, e mi vorrebbe spiegare com’è che ha lasciato gli studi e che comunque, alla fine dei salmi, è andata bene anche così. E di quella volta al mare con gli amici quando hanno combinato quel casino e sono sfuggiti ai carabinieri nascondendosi sotto a una barca. Mi vorrebbe abbracciare.
Poi arriva il ristoro “Ehi, c’è il tè!” mi fermo, sorseggio, ma lui tira dritto, forse mi aspetterà, penso, magari in cima al falsopiano, o prima di iniziare a scendere.
Macché, invece accelera e se ne va, ormai intruppato e complice in un nuovo gruppetto, capace che non mi manderà nemmeno una cartolina, come quella crista di Varese conosciuta a Castiglioncello un’estate di trenta cazzosi anni fa.

18 aprile 2014

Cien años de soledad

Non ho l'attitudine né la competenza per celebrare alcunché.
Tantomeno un personaggio che muore.
Mi limito a trascrivere quello che è per me, e non solo per me (ma non sono geloso), il più bell'incipit della storia della letteratura. Proprio la prima frase, nello specifico.

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.

Y como escribiò Gabo:
Muchos años después, frente al pelotón de fusilamiento, el coronel Aureliano Buendía había de recordar aquella tarde remota en que su padre lo llevó a conocer el hielo.

Non è una novità, non è nemmeno un apprezzamento originale, ma ci sono momenti in cui non serve per forza distinguersi, anzi è vivamente sconsigliato: lascia che il tuo cuore ami Cent'anni di solitudine, come il tuo palato un buon Chianti e la tua mano la pelle di lei.

14 aprile 2014

Neve dai pioppi

Sono fermo al rosso di un semaforo complicato.
A due metri da me, anche loro ad aspettare un verde, un ragazzo e una ragazza che corrono e un vecchio.
Il ragazzo indossa una t-shirt bianca e slargata con le fauci spalancate di uno squalo sul davanti, pantaloncini neri da cestista, non dovrebbe correre agghindato così eppure ci prova; la ragazza ha capelli chiari e lisci raccolti in una coda, porta un paio di fuseaux neri sopra al ginocchio e una canotta azzurra.
In effetti è un pomeriggio da canotta con il sole a scroscio e la neve che fiocca giù dai pioppi.
I due giovani corrono sul posto, zampettano come polli in gabbia, votati al neanche un minuto di non allenamento, ma è il vecchio che mi cattura.
Pelato, naso adunco, potrebbe fare il caratterista di Hollywood, uno di quelli che bucano la scena come la vecchia mente della banda dei rapinatori o come futuro suocero del protagonista carino.
Indossa un paio di pantaloni grigi eleganti di frescolana, appena usciti dalla stireria, diresti, e ai piedi mocassini neri. Sopra invece, una strana maglia, il pezzo spaiato di un pigiama.
Da dove sono non riesco a distinguere bene la fantasia, ma ricorda i pesci di Escher, incastrati in un stormo d'uccelli e in viaggio per chissà dove.
Il vecchio si guarda in giro, sventola il suo naso a timone e forse si sente perduto nella vaga porzione di mondo che occupa. Ha tutta l'aria del malato di Alzheimer sfuggito al controllo familiare e in rotta verso l'hic sunt leones.
Forse un cane al guinzaglio, ecco cosa gli servirebbe: potrebbe evocare scenari di una plausibile normalità che però, nel latitare del cane, latita anch'essa.
L'abbigliamento così stridente proietta il vecchio su una immaginifica tela surreale, pronto a dividersi al prossimo bivio: le gambe da una parte verso un probabile convegno di assicuratori, il torso dall'altra alla ricerca di un tubo catodico, una birra svaporita e un divano da sformare.
Il primo verde arriva per i pedoni, i due podisti riprendono la corsa, lui e lei gomito a gomito, diretti verso i giardini e finalmente liberi di sviluppare in distensione la loro potenza.
Si muove anche il vecchio e lo aspetto al varco, ma la partenza incerta, l'andatura sbilenca, e ogni altra e qualsivoglia spia di malessere e disagio io potessi attendermi, in realtà non si accende.
Un passo via l'altro, deciso, le braccia a ricomporre l'equilibrio dell'andatura nel fatidico contrappeso, lo sguardo vivo che scandaglia l'incrocio e poi punta il marciapiede quale prossima e imminente meta.
All'improvviso, ai miei occhi, è l'uomo più normale del mondo, solo per il suo incedere determinato da ex soldato, riacquisisce anche un'insperata dignità nella mise e m'infonde una cristallina pace.
Non c'è più bisogno che mi preoccupi per lui, che venga pure il verde.
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Eds La balena non è un pesce (mi era rimasto un colpo in canna):

  1. Album di famiglia in un interno – bianco come il bagno nel mese dei lucci
  2. Lamento di una giovane morta
  3. Il soffio della vita
  4. Austinu
  5. Caramelle
  6. Una mano di bianco
  7. Chi s’è mai sognato di mangiare una rondine?
  8. L'agosto del pesce volante e del pettirosso timido
  9. Missisippi
  10. La lista
  11. Diffidenza
  12. L'incanutito e la salata immensità
  13. L'occhio del branzino deve essere bianco
  14. EDS in piccolo
  15. Minnie
  16. La favola del pesciolino bianco e del principe pescatore
  17. Le diottrie del sig. Paolo
  18. La solitudine del sabato
  19. Il pesce contacaratteri

11 aprile 2014

Alobici di tutto il mondo uniamoci

Non ce l’ho il lobo, manco l’idea. E voi?
All’inizio mi pesava, ma d’altra parte somigliavo a me pa’.
I miei figli no, son lobomuniti e di France lo sappiamo fin dall’ecografia, quando chiedemmo al dottore che controllasse.
Dolcemetà vive questo mio segno distintivo come una menomazione grave ma, devo dire, mi fa anche gioco, perché alla fine nasconde le altre.
Il fatto è che noi alobici abbiamo una setta segreta di cui non dovremmo parlare (1a regola della Setta Alobica: Mai parlare della Setta Alobica), ci riuniamo e, tra le altre cose, ci stiamo preparando alla conquista del mondo.
Gente lobica avvisata mezzo salvata.
Bill Clinton? Alobico, e l’avevamo messo in una posizione strategica. Alberto Tomba è uno dei nostri e avete visto che sfracelli! Mick Jagger, ma che ve lo dico a fa’, è alobicissimo.
Eh sì, anche Johnny Depp è della setta, che no?
No, non siamo tutti maniaci sessuali, eventuali collegamenti riscontrabili tra i fenomeni non hanno valenza scientifica.
I Pigmei, i Pigmei son dei nostri ma ancora non lo sanno, sono alobici dormienti.

P.s. si offre un link omaggio in un nuovo post a chi indovina il portatore sano dell'orecchio alobico in foto.

A poison il link lo metto adesso, lei è come Binda e viene pagata per non gareggiare.

9 aprile 2014

L'incanutito e la salata immensità

Erano ottantaquattro giorni che andavo in bianco e non vedevo il buco di culo di un pesce manco a pagarlo.
La sfiga regnava sovrana e persino Manolito, il pischello a cui avevo dato le prime dritte per pescare, s'era cavato dalle palle aggregandosi a una barca in fortuna e togliendosi delle belle soddisfazioni. Bastardo.
Il ragazzo per sdebitarsi dello stage sulla mia barca mi fece dono di un avanzo di sardine, le avrei usate come esche nelle acque calde della Corrente del Golfo: sardine fortunate, ebbe a dirmi.
Non ci crederete ma con quelle stupide sarde, che dio o chi per lui le abbia in gloria, presi un fottuto marlin da un quintale e mezzo che mi portò a spasso per tre giorni filati dove cavolo gli pareva a lui, senza che io potessi fare alcunché per impedirlo, salvo maledire il creato.
Ma questa è stata una passeggiata di salute confrontata al ritorno quando ci attaccarono i pescecani, che il diavolo o chi per lui se li porti.
Avrei desiderato impugnare la mazza di Joe Di Maggio per difendere la mia preda, ma di fatto ho combattuto a mani nude senza una sola speranza di primeggiare. E a furia di smozzichi solo la lisca mi hanno lasciato.
Almeno quella, almeno quella, sì, affinché gli altri cazzoni giù al porto non pensassero che mi ero inventato tutto di sana pianta.
Era lungo così, dissi loro, e non dovetti nemmeno allargare le braccia.
A questo ripensavo, poco prima di crollare nel sonno e mettermi a sognar di leoni.

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N.B. Nessun animale da ediesse è stato maltrattato durante la stesura di questo pezzo.

4 aprile 2014

Chi s’è mai sognato di mangiare una rondine?

Se c’era una cosa che mi faceva schifo era pescare.
Io ci andavo solo perché c’era Davide.
A pescare ci sono attività rivestite di sopportabilità, come stare lì con la canna in mano e lo sguardo fisso sul sughero. Ma la fase di ricerca lombrichi, o anche solo la gestione dei bachi da sego o la slamatura dei pesci, quelle stanno una tacca sotto ai crimini contro l’umanità, quanto a simpatia.
Davide giocava a calcio, a subbuteo, saltava in alto, costruiva carretti, riparava bici, giocava a tappini e si ravviava i lunghi capelli chiari dietro le orecchie, tutto da professionista.
Andavamo al lago del Bardi, poco più d’una pozza recintata da filo spinato e in teoria non accessibile, ma il Bardi nessuno l’aveva mai visto e fiorivano dubbi sulla sua esistenza.
Girava voce che nel lago vivesse un’enorme carpa, e qualcuno dei ragazzi era pronto a giurare sulla mamma di averla vista bighellonare lungo la riva; per i più era solo una leggenda, un animale mitologico al pari del Bardi.
Per abboccare, abboccavano sempre e solo dei persici. Non so se l’avete mai visto un persico, certo non dal pesciaiolo, il persico è immangiabile: ha le lische dentro alle lische. E non è consigliabile avventurarsi in imprese di sfilettatura o di cucina con un persico lacustre tra le mani. Il persico sta all’acqua come la rondine all’aria.
Chi s’è mai sognato di mangiare una rondine? Eppure la rondine è fascinosa, elegante. Così il persico, a guardarlo: il colore verdastro, i riflessi azzurri, le striature grigio perla e le pinne voltate al rosso, starebbe bene in un acquario, quello sì, certo non dovrebbe stazionare nel melmoso lago del Bardi, né in una padella con dell'olio.
Per quanto Davide vestisse estivo, con gambe e braccia scoperte, la sua pelle color bianco del latte era refrattaria al sole, portava in giro quell’aria vagamente da malato che lo rendeva irresistibile.
Era l’unico di noi che ci faceva pure il bagno nel lago.
Tirai su un persico mentre Davide era in acqua, ma lo chiamai perché il pesce s’era ingozzato l’amo un bel po’ e non ero capace di slamarlo senza eviscerarlo.
Venne sbuffando, ma gli piaceva il ruolo di abile tuttofare che gli riconoscevamo.
Non lo so che mi prese, o lo so benissimo.
Io reggevo la canna e lui slamava il persico per rendergli una dignità e una vita, eravamo vicinissimi e con uno scatto della testa posai le mie labbra sulle sue.
     «Ehi, ma che cazzo fai? Cristodiddìo ma sei impazzito?»
Davide strappò il pesce con forza dalla lenza, lo sbatté a terra e poi sputò, si passò il dorso della mano sulla bocca e poi sputò di nuovo. E ancora.
    «Cosa sei, un frocio?»
Seguitò inveendo e sputando mentre riponeva le sue cose, si rivestì e se ne andò saltando il filo spinato.
A me tremavano le mani, ma ero ferito più dagli sputi che dalle parole. Presi il persico da terra e con tutta la grazia che potevo lo feci scivolare in acqua. Il pesce rimase lì, lievemente inclinato a pelo d’acqua, senza segnali evidenti di vita se non il passivo luccichìo screziato di un raggio di sole riflesso dalle sue squame.
Restai ancora un po’ lì, accoccolato, nella speranza di vederlo muovere, ma niente. E nemmeno la carpa gigante si degnò di passare da quelle parti.
E se gli eventi avessero preso un'altra deriva? Se solo Davide non avesse sputato a terra un numero irriverente di volte, o se io avessi saputo slamare un pesce da solo, chissà, il mio futuro avrebbe potuto essere diverso.
O forse, più prosaicamente, è il presente in cui sto dentro, il mio futuro diverso.

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EDS ><))))°> La balena non è un pesce by TuttiNoiSappiamoChi:
Album di famiglia in un interno – bianco come il bagno nel mese dei lucci
Lamento di una giovane morta
Il soffio della vita
Austinu
Caramelle
Una mano di bianco
L'agosto del pesce volante e del pettirosso timido
Missisippi
La lista
Diffidenza
L'occhio del branzino dev'essere bianco


2 aprile 2014

Cose che stazionano in posti

Pur in assenza di derive maniacali, vige un certo ordine a casa nostra, per lo meno rispetto ai miei parametri e alle case di recenti amici - che non leggono il blog! - e che abbiamo avuto occasione di visionare.
Dolcemetà vi direbbe che c'è un casino dell'ottanta, a prescindere.
In ogni modo le cose (tendenzialmente direi, se non cominciassi davvero a odiare questa parola) stanno al loro posto e se non ci stanno, nel giro di un giorno o due, ci vengono ricondotte, di riffa o di raffa.
Poi capita che, in modalità e tempi non prevedibili, qualcosa sfugga alle maglie della sicurezza.
Succede che un tappo, uno straccio, una molla, una vite, o comunque un oggetto non bene identificato e privo di fissa e riconosciuta dimora si trovi abbandonato a se stesso in un luogo della casa e, per non indagabili motivi, ci rimanga per molto tempo. E nessuno che senta il bisogno di ricomporre l'ordine costituito cavandolo dalle palle.
In questi giorni abbiamo un tappo di plastica bianco che staziona sul top della cucina, viene spostato a destra e a manca, nei momenti di pulizia e di preparazione dei pasti, ma resta in zona e vive il suo momento di gloria.
Emblematico, qualche anno fa, Il Caso dei Calzini Neri di cui parlarono anche le cronache regionali: un paio di pedalini, neri appunto, restò per mesi sul termosifone accanto alla porta d'ingresso.
Nessuno aveva voglia di spostare i calzini dell'altro(*).

(*) (erano suoi di lei ella)
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