17 aprile 2013

Il Liʃca - (2)

L'aʃʃociaʒione ʃenʒa Diʃtanʒa, una roba che ʃolo a dirla, io, riʃchio l’annodamento della lingua e la ʃubluʃʃaʒione delle corde vocali, cavolo! Per me ʃono ʃempre ʃtati “gli ʃtrambi”.
E allora via ʃulla cinquecento della mamma, io dagli ʃtrambi e lei a proʃeguire per chiʃʃà quali argenterie da luʃtrare o ceʃʃi da pulire, beata lei! Io ero coʃtretto a ʃocialiʒʒare con una decina di mentecatti tipo me e anche di più, in uno ʃtanʒone dove campeggiavano un calcino, un ping pong e tre tavolini rotondi da giocatori di carte. Manco uno che era capace di reggere delle carte in mano e di riconoʃcere una doppia coppia o qualcuno in grado di colpire la pallina del calciobalilla con la mediana. Non per vantarmi, ma ero di gran lunga il più ʃveglio lì dentro e, ʃe capite coʃa voglio dire, renderʃene conto non è che ti apriva le porte della felicità.
Il giovedì era un giorno ʃpeciale. Verʃo le tre arrivava un pullmino giallo, già ʃcuolabuʃ del comune, che ci caricava tutti in un turbinio di eccitaʒione e di urla per portarci a ʒonʒo.
E durante i viaggi ti piʃciavi addoʃʃo dalle riʃate perché era il momento delle barʒellette. Nella ʃettimana precedente imploravo mio babbo, quando mi capitava di vederlo, per farmi raccontare una barʒa nuova. E mio babbo non falliva mai, aveva ʃempre l'ultimo grido, la barʒelletta che avrebbe fatto letteralmente ʃpanciare i ragaʒʒi della ʃenʒa Diʃtanʒa.
Quando toccava a me, modeʃtia a parte, calava il ʃilenʒio. Viʃpi o dementi, furbetti o appena coʃcienti, tutti i ragaʒʒi ʃi aʃʃerragliavano in un ʃilenʒio carico e gonfio di atteʃa per la battuta finale. Da vero re del palcoʃcenico, mi facevo un po' attendere ma poi partivo e li laʃciavo ʃtecchiti. Non ʃo, ʃpeʃʃo dubito pure che le capivano le barʒe che raccontavo, ma baʃtava che alla fine uno partiva con la riʃata e ʃi ʃcatenava una tempeʃta d'ilarità fresca e contagioʃa, da me a loro, dalla ʃignorina Clara, che ci accompagnava, fino all'autiʃta.
E poi c'era il momento di Pippo che, finite le barʒe nuove, pigliava poʃʃeʃʃo del microfono e attaccava con la ʃua ʃempre uguale barʒelletta del cavallo in treno. Era una performanʃ per la quale potevi pure pagare il biglietto.
“C'è questo tizio che va a Milano in treno, sale e trova nel vagone un cavallo che legge il giornale. Non ho mai visto un cavallo in treno fa il tizio, e il cavallo: per forza ho perso l'autobus!”
Ma, viaggio a parte, era alla Vecchia Pagnana che c'era del buono per tutti. Le prime volte con la ʃignorina Clara e il branco di ʃciroccati ʃi paʃʃava in raʃʃegna quaʃi ordinata tutta la fattoria incontrando gabbie e recinti di conigli, caprette, galline e galli di ogni raʒʒa e colore, gli ʃtruʒʒi, i pavoni e perʃino un cerbiatto. ʃi percorreva una ʃtradina bianca tra campi e prati in leggera diʃceʃa fino all'arrivo, lungo un fiumiciattolo, alle ʃcuderie dei cavalli.
Pericoli pareva non ce n’erano, neʃʃuno che temeva che gli allagavamo il pollaio o che gli davamo fuoco allo ʃtruʒʒo, perciò ci laʃciavano abbaʃtanʒa liberi nei noʃtri ʃpoʃtamenti e, mentre molti ʃi trattenevano carote in mano a ʃfamare i conigli o a fare bu bu allo ʃtruʒʒo, io mi ʃcapicollavo giù per la diʃceʃa, come meglio potevo cercando di non ʃfracellarmi un ginocchio per arrivare prima poʃʃibile alle ʃcuderie.
C'erano tre cavalli, due maʃchi Miʃter No e ʒagor, e una puledra giovane: Conchita. Era la mia favorita, nera come l'ebano e freʃca e liʃcia e buona e, l'avete capito, me ne ʃono innamorato ʃubito.
Poteva valere la pena ʃopportare i ragaʒʒi nelle loro diʃaʃtroʃe preʃtaʒioni racchetta in mano o ʃmaʒʒando carte per quattro pomeriggi a ʃettimana ʃe poi, al giovedì, tra barʒe e fattoria ci ʃi ricaricava più che con l'Ovomaltina.
Quando ho ʃmeʃʃo di andare all'aʃʃociaʒione, verʃo quindici anni, ho continuato ad andare alla fattoria. Conoʃcevo Maruʃca dai tempi in cui ci andavo con gli ʃtrambi, era una ragaʒʒa polacca che lavorava lì e che mi aveva preʃo a benvolere perché durante le mie viʃite la ʃgravavo di un bel po' di fatica aʃʃolvendo a compiti ʃolitamente ʃuoi.
La prima volta che montai Conchita, contro tutte le raccomandaʒioni di mia mamma, lo feci corrompendo Maruʃca, un po' colla mia liʃca e un po' andando in giro ʒoppiconi più che potevo.
Fu Maruʃca a raccomandarmi di tenere i piedi ben dentro le ʃtaffe, reggere ʃtrette le redini e aʃʃorbire con il culo il movimento dell'animale.
Maruʃca mi faceva montare Conchita di naʃcoʃto al ʃignor Bordoni, fattore capo di tutta la baracca. Finì che lo venne a ʃapere anche lui il giorno che caddi come un cretino mentre ʃtavo facendo a piccolo trotto il giro della vigna baʃʃa.
Non mi ricordo come andò, mi riʃvegliai ʃu una panca vicino alle ʃcuderie ʃchiaffeggiato dal ʃignor Bordoni e coccolato da Maruʃca. Pare che non ero morto, avevo preʃo una botta al fianco deʃtro e anche alla ʃpalla, ma il peggio doveva ancora venire.
Il ʃignor Bordoni rimbrottò a muʃo duro Maruʃca che un altro po' le fa rimpiangere la Varʃavia, quella del ghetto, ma ʃoprattutto mi ʃquadrò ʃenʒ'appello e m'informò che la ʃera ʃteʃʃa avrebbe avviʃato mia mamma. Non ʃarebbe ʃtato lui, diʃʃe, a pigliarʃi vent'anni per un povero mentecatto bavoʃo che voleva ammaʒʒarʃi.
Lo implorai, come non avevo implorato mai neʃʃuno prima di allora. Cercai di ʃpiegare che ʃe mia mamma ʃapeva la coʃa mi avrebbe ucciʃo, ma queʃto ʃe mi andava bene. ʃe invece mi andava male mi avrebbe rinchiuʃo in caʃa almeno per un paio d'anni mandandomi fuori ʃolo a portare la ʃpaʒʒatura, mi avrebbe coperto da ʃettembre a maggio con triplo ʃtrato lanoʃo di maglia, più cicliʃta a collo alto, più cardigan peruviano. Mi avrebbe probabilmente avvoltolato nel domopack prima di mettermi a nanna e, con molta facilità, mi avrebbe fatto il bagno nel lyʃoform per gli anni a venire.
L'ineffabile ʃignor Bordoni neppure mi guardò, continuò a ʃpaʒʒolarʃi gli ʃtivali dalla mota raccattata in vigna e, quando io ebbi finito la ʃupplica, ʃbuffò un po' alla maniera di Miʃter No e ʒagor e ʃi allontanò ʃenʒa manco ʃalutare. Prima di ʃparire dietro a un capannone alʒò il braccio per ravviarʃi il riporto.
Per la prima volta, da quando andavo alla Vecchia Pagnana, venni via ʃcordandomi di ʃalutare Conchita.
Tornai a caʃa di paʃʃo ʃvelto. Il dolore all'anca quaʃi quaʃi mi reʃtituiva una ʃconoʃciuta ʃimmetria, procedevo incredibilmente dritto. Roba da darʃi delle martellate ʃu quel fianco per il reʃto dei miei giorni.
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Il Liʃca - capitolo 1
Il Liʃca - capitolo 2 
Capitolo 3 il 19 aprile

5 commenti:

  1. Che bello. Faccio un po' fatica ma ne vale la pena.

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  2. Preferisci che ti faccio(*) avere l'audiolibro letto da Nichi Vendola?
    (*) aut. min. concessa

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  3. Bello quasi più del primo, Hombre. Te sei un vero genio. E anche un po' strambo...:D

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  4. Guarda la beffa finale dello sciancato rimesso dritto dalla caduta mi pare così triste che mi viene da piangere. A parte l'affetto per le bonelliane letture, mi piace quel che scrivi e come lo scrivi.

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Ma dici a me? Ma dici a me? Ma dici a me? Ehi con chi stai parlando? Dici a me? Non ci sono che io qui...

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