«Ma è una metafora?»
«No».
«Uhm…»
«O forse sì, non è importante».
L’uomo grasso col panciotto e il gessato si gratta il pizzo come ogni volta che deve prendere una decisione difficile, guarda il copione sbertucciato sulla scrivania, e ne rilegge il titolo, quel titolo assurdo.
«Ma in definitiva la storia qual è?»
Per tutta risposta l’altro tipo lì, un giovanotto scarmigliato tra il biondo e il rossiccio che indossa un maglione di cotone a v blu infarcito di pelucchi, alza le sopracciglia e le spalle in un movimento sincrono e rivelatore di un vago menefreghismo e di un’ineluttabilità tutta giovanile.
«Cioè, dove si va a parare, non si capisce leggendo. Magari c’è qualcosa da rendere con le riprese che non è scritto qui. Perché il pubblico lo vuol sapere dove si va a parare, se non lo si informa a modo lo si spiazza, non capisce. È gente semplice il pubblico, gente avida di sapere dove si va a parare».
L’uomo col panciotto sfoglia alcune pagine, rilegge dei passi sottovoce quasi a voler capire in quel momento quello che in una settimana intera gli è sempre sfuggito.
«Succedono delle cose, sta lì la storia».
Il punto però non è quello, lo sa il produttore e lo sa lo sbarbato aspirante Cronenberg. È stato più facile altre volte rifiutare un copione perché il movente di un omicidio era vacuo, perché un personaggio non era credibile o perché non c’erano abbastanza tette, ma oggi l’uomo incontra una spessa difficoltà ad affrontare il punto, teme di passare per ignorante e incompetente molto più di quanto tema rifiutare un’opera che potrebbe diventare un successo al botteghino o in qualche festival avanguardista.
«Sì, succedono delle cose, questo è chiaro, ma ecco è proprio necessario che tutti abbiano in testa questi… questi cosi? »
«Caschi».
«Sì, questi caschi, ecco, questi caschi da moto in testa».
Sopracciglia e spalle, nessun altro segno da parte del biondino.
«Fammi capire bene. C’è questa coppia, lui e lei, senza nome, hanno un nome? Non mi pare. Non ce l’hanno un nome».
Intanto sfoglia avanti e indietro a casaccio, cercando ti tenere aperta una pagina che non sia la prima con su quel titolo.
«Lui lavora in ufficio, vita normale, tra computer fotocopiatrici e scartoffie, un capo, il collega stronzo e la collega figa, altri colleghi sullo sfondo… tutta gente con in testa i cosi», fa un gesto con la mano attorno alla testa.
«Caschi».
«Caschi sì. Lei lavora al centro Arredotessile, fa la commessa e vende materassi e cuscini ai clienti che vengono lì coi cosi in testa, caschi sì ho capito, si sdraiano provano i cuscini di piuma e i memory foam sempre coi cosi in testa. Finché un cliente s’invaghisce di lei e tra un cuscino e un materasso inizia una relazione con la tipa senza nome, la nostra lei diciamo. E scopano…»
«Normale».
«Sì, normale, in magazzino sui materassi incellophanati, scopano».
Alza la testa e guarda negli occhi il biondino. In risposta sopracciglia e spalle.
«Con in testa quei cosi».
«Caschi».
«Caschi sì».
«Normale».
«Me li vedo. Normale. Poi cosa succede? Vediamo… ah, muore la nonna. La vediamo nel letto d’ospedale, col coso in testa e un tubo per l’ossigeno, dottori e infermiere tutti regolarmente col coso in testa. Poi il funerale, i parenti, il prete, lui e lei, anche l’amante, tutti al cimitero col coso in testa. E le foto dei morti che s’intravedono sulle lapidi? Tutte col coso integrale calato in testa».
«Giusto».
«Poi c’è la scena di lui nello spogliatoio della palestra, con gli amici sono sotto la doccia nudi, si lavano e si spugnano pure i caschi lì. Poi fuori dalle docce mentre si sparano l’aria dei fon sui cosi lui racconta la barzelletta delle due mucche, una barzelletta finemente inglese alla quale non si ride, semmai si sorride, e cosa succede? Sì, che due amici sorridono e altri due no».
«A due non è piaciuta».
«Ma hanno tutti i cosi, i caschi in testa».
«Normale».
«Quindi non si capisce chi sorride e chi no. Bene, può essere una buona cosa, ma non si capisce neanche adesso dove si vuole andare a parare».
Sopracciglia e spalle.
«E poi lei la scippano, le portano via la borsa e la fanno cadere per terra, ma tanto ha il casco in testa. Due giovinastri in sella a uno scooter la scippano».
«Va così».
«E i giovinastri filano via sullo scooter zigzagando tra i passanti, passanti con i loro bei cosi in testa si capisce, scappano via con la borsa di lei, una lei ormai definitivamente senza nome e, ho capito bene, senza avere in testa quei cosi».
«I caschi».
«I caschi sì».
«Non ce li hanno, no. Normale».
«E questa cosa non ci porta da nessuna parte e non è una metafora del cazzo. E la storia non c’è, ci sono solo i cosi in testa lì, salvo per i due scippatori sul motorino».
Sopracciglia e spalle.
«Ma sì, si può fare, magari cambiamo il titolo però».
E restano ancora un po' lì, senza nemmeno un caffè da sorbire.
eh si è proprio una bella metafora, oramai questo ci tocca a noi poveracci, girare perennemente col casco in testa.
RispondiElimina(titolo audace) ;)
La metafora è che editori e produttori non capiscono un beneamato.
RispondiEliminaLa parola chiave è Jannacci.
RispondiEliminaQuesto mi è piaciuto un sacco invece, siamo ai livelli che ti riconosco; inventiva, humour, capacità di tenerti attaccato alla riga, finale visionariamente azzeccatissimo. Se ci fanno un film lo guarderò col coso.. si, il casco in testa
RispondiEliminaho una domanda.
RispondiEliminaTu hai iniziato a scrivere questa cosa sapendo già come l'avresti conclusa?
O parti con una frase dietro l'altra e poi vai avanti a cazzo?
È una cosa che avevo in testa da un po', ma non dettagliata. Poi è venuta giù così... gli scippatori c'erano da prima, il mancato caffè da sorbire no ;)
EliminaIo l'avrei prodotto il film, grandi attori famosi, tranne i due scippatori.
RispondiEliminaperfetto, è quello che avrebbe voluto il biondino.
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