6 febbraio 2012

Il campino dei miracoli

Un soffio di tempo fa nella storia dell’uomo e una vita nella storia mia, all’inizio degli anni settanta, eravamo avanti. E le cose andavano via in maniera diversa.
A scuola si andava a piedi e da soli. Il tempo pieno non esisteva se non nei nostri peggiori incubi, i centri estivi neanche. Nessun controllo a vista dei genitori sui figli. Non c’erano mamme a chiedere meno compiti per i figli. Nessuno ci portava dagli psicologi e la privacy non era ancora stata normata. E se finivi in punizione a scuola, non era che l’anticipo di quello che ti saresti beccato a casa.
Avevamo di corredo enzimi per digerire il vino, stomaci di decenni pronti per la caffeina e saliva curativa per le ginocchia sbucciate.
Per noi c’era una spessa e succosa fetta di libertà, dalle due di pomeriggio fino all’ora di cena.
Tutto ciò che serviva era un luogo dove trovarsi, che fosse la piazza, l’aia, la rotonda del cimitero, sotto gli alberi o, nel nostro caso, il campino.
Il campino era una sorta di facebook ante-litteram.
Al campino si incontravano amici, ci si sfidava in giochi come corsa, palleggi o cerbottane, e fatalmente senza mouse. Ognuno marcava i suoi record. Gli amici portavano amici che magari diventavano anche tuoi. Raccontavi le tue esperienze, a voce, senza doverle scrivere in bacheca. Tutti avevano idee per come passare il pomeriggio e potevi condividerle, contestarle o dire che ti piacevano.
Al campino annunciavi se c’era una festa o se invitavi gli amici per una merenda e tutto senza creare un evento.
Il campino era il nostro social network, senza bisogno del network. Per questo eravamo avanti.
Eravamo gioiosi o arrabbiati, stralunati o attenti, ammiccanti o perplessi, imbarazzati o delusi, in lacrime o assonnati. O forse tutte queste cose, quando capitava, ma non c'era bisogno di faccine per esprimerlo. E si capiva lo stesso, eravamo avanti.
Non c’erano pagliacci a spiegarci i giochi o a gonfiare palloncini a guisa di spade o animali. Eppure, anche da soli, eravamo avanti e con sempre qualcosa da fare.
E correvamo. Correvamo in bici, dietro a un pallone o in mille giochi diversi. Correvamo per andare al campino e per tornare a casa. Non conoscevamo la noia e comunicavamo solo parlandoci, uno di fronte all’altro. Non avevamo cellulari e non eravamo rintracciabili. E nessuno sembrava sentisse il bisogno di rintracciarci, del resto. A ogni modo, bastava venire al campino: noi eravamo lì.

15 commenti:

  1. bello, io non c'ero. da noi lo chiamavamo il campetto però.

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  2. Il campino per me era un mega prato dietro casa dei miei.
    Ora, quando torno a trovarli, al posto di quel prato ci sono un tot di villette a schiera.
    Uffi...

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  3. Già, campetto anche per me, che non solo c'ero, ma ero quella più piccolina di tutti che però correva più forte e batteva sempre anche i grandi. Mi allenavo - così dicevo - per le Olimpiadi. Tu pensa come era più facile sognare, a quell'età...

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  4. Per me il campetto/campino era la scuola. Nel senso che tutti i giochi da te descritti si faceva tra i banchi delle scuole elementari. Lì ho imparato a crescere e rapportarmi con coloro che ora rappresentano la criminalità del mio paese.
    Poi per le scuole medie son stato mandato nella grande (?) città, Cagliari, e lì ho imparato a rapportarmi con la futura classe dirigenti (tutti figli di papà).
    C'era anche la strada, certo, però una scuola elementare come la mia, la sconsiglio anche a Totò Riina.

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  5. Niente campi, campini, campetti: io son cittadina e qui si giocava in strada. La stessa strada dove vado a comprare il pane per interrompere la mattinata di lavoro. Non ci sono più bambini che giocano qui, però. Solo macchine parcheggiate male.

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  6. la mia era la stradina, ma credo valga lo stesso. :)

    (grazie)

    ps: stavolta non ho riso. mi sono un po' commossa...

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  7. sì, nemmeno il mio campino esiste più. è recintato adesso, c'è una colonica ristrutturata a villa. ma se sbrici tra i rami dell'alta siepe di lauro vedi l'azzurro della piscina che ha preso il posto della fascia destra, proprio là da dove partivano i cross quando si giocava a "testa e rovescio".

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  8. Bravo Hombre, applauso!
    Mi verrebbe da dire "bei tempi" se non fosse una frase da "anziani". Massì,lo dico lo stesso: Bei tempi...

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  9. Il mio campetto è rimasto, io lo vedo ancora quando passo. Sono i ragazzi che non ci sono più. Adesso devono raccontare la loro non-vita su facebook e si devono telefonare o messaggiare, senza mai decidere niente, tanto si chiamano dopo, quando arrivano lì. E poi lì magari non ci vanno neppure.
    Adesso basta scrivere che c'eri, nessuno può dire il contrario, tanto erano tutti a casa a leggere la non-vita degli altri.

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  10. Questo post è troppo bello. Dolcementenostalgico.
    Non lo commento..
    Come dici?
    L'ho fatto?
    Eh!

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  11. Bello bello!!!

    Grazie mille per il commento, CIAO!!!

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  12. Stupende considerazioni.
    Vivendo io in città, la mia piazzetta erano i due cortili interni dello stabile popolare. Partitelle a pallone, nascondino, sardina, mago libero, scambio di figurine (ebbene sì) sui gradini, lancio della merenda dalla finestra, e ci si nascondeva fin sotto le auto parcheggiate. Oggigiorno guai se un bambino strilla o gioca in cortile... potrebbe disturbare il riposo del cagnolino del terzo piano.
    In fondo, se siamo la società che siamo diventati, è anche perché ormai non c'è più contatto reale come allora, oltre al fatto che o dici "mi piace" o stai zitto. Vietato dissentire.
    O dire "Tu non giochi più con noi" come accadeva di dire agli stronzetti. Togliendogli l'amicizia.

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Ma dici a me? Ma dici a me? Ma dici a me? Ehi con chi stai parlando? Dici a me? Non ci sono che io qui...

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