31 luglio 2013

Io non lo so piegare un accappatoio

Sì già lo so che non lo so piegare un accappatoio e non ho neanche cercato mai d'imparare (semicit.).
Ci provo che non ci provo? Tra tennissi, calcetti, e docce d'igienica standard oltre al ficcarlo in borsa, stenderlo e cercarlo c'è pure - ahimè - piegarlo. Piegarlo!
Che sul letto son buoni tutti (io no), ma dategli una forma razionalmente risparmiosa in termini di spazio tenendolo su, senza appoggiarlo su una qualche superficie e alla fine chiudetelo pure con la cintura a mo' di pacchetto regalo.
Bello e impossibile.
E ce l'ho pure di microfibra per dire, non è che mi sono fossilizzato con la spugna, ma se non lo ripieghi a garbo sempre una palla ti viene fuori.
Si dice in giro "come una camicia", già, facile, ma non le piego le camicie, le tengo alle grucce.
Ad ogni modo, ce l'ho fatta fino ad ora con le mie palle d'accappatoio posso tirare avanti un altro po'!
Del resto, chi sono io per giudicare uno che non sa piegare un accappatoio?

P.s. L'immagine l'ho trovata dopo, se imparo faccio sapere.

26 luglio 2013

Permette signora - (7)

Dai Battilani ci vanno il brigadiere Lepore e il carabiniere Palmieri, con l’intento di occuparsi in primo luogo delle auto di famiglia, vi avrebbero cercato capelli, resti di corde o magari scaglie di pino, il maresciallo li aveva istruiti a dovere.
Spataro e Squizzi, invece, se ne vanno al Bar La Piazza, ufficialmente per parlare un po’ di calcio e magari guardarsi un po’ di partita.
Alla finale del mondiale di Spagna mancano un paio d’ore e in strada e in paese si respira un’aria gonfia. Gente in giro ancora ce n’è, ma si muovono in modo strano. L’attesa rende le camminate sincopate e le frasi smozzicate. Tutto finirà nello stesso imbuto: la partita contro la Germania delle venti.
Oggi tutto si riconduce a Madrid, tutto si compone, si sdogana e si compie a Madrid e tutti saranno lì, davanti alle tivù, aspettando un gol di Rossi.
«Possiamo dare un’occhiata al retro del bar? »
Il mandato di perquisizione non serve, basta la voce del maresciallo Spataro per attivare tutti i permessi.
«Certo, sì, maresciallo».
«Cosa cerchiamo, maresciallo?» chiede Squizzi.
«Niente di che, in realtà penso che il colpevole canterà, non ha alternative. Certo, se si riuscisse a trovare un rasoio o una bella confezione di crema da barba, non è che si buttano via».
È Squizzi che recupera dal fondo di un armadietto una confezione aperta di lamarasoio Bic, li conta e sono nove. E anche la mancanza di un elemento può divenire prova a carico.

Quando Lepore e Palmieri arrivano al bar, alla televisione impazza il collegamento con Madrid, manca un’ora ed è orgia di bandiere e di tifosi.
I due si riuniscono al Maresciallo Spataro e a Squizzi sedendosi a un tavolo del bar.
«Dunque l’auto di Pietro è pulita ma, colpo di scena, quella di Simone ha bisogno di un buon carrozziere» fa Lepore con un risolino amaro.
«Fammi indovinare, ha delle fitte sul tetto» butta là Spataro.
«Porca zozza» fa Palmieri, strabuzza gli occhi e guarda Lepore, il quale allarga le braccia:
«Marescialli si nasce, mica per nulla».
«Maresciallo, ma perché secondo lei, la tipa l’ha rasata sotto?» anche Squizzi ha le sue curiosità.
«Chi lo sa? Magari gli piace così, ce n’è di gente malata in giro, oppure è uno spregio, se ne sentono di tutti i colori ormai».
Poi arriva Simone per l’ordinazione.
«Che prendete?» chiede.
«Te» fa Spataro.
«Limone o pesca?»
«No, prendiamo proprio te. Te, Simone».
Il ragazzo realizza, incassa e barcolla mentre assume la consistenza e il colore di uno straccio. Palmieri gli allarga una sedia e lo fa accomodare.
I carabinieri adesso sono in pace con il mondo, si permettono pure un filo di compassione per il ragazzo che ha la testa poggiata su un braccio e s’è mezzo steso sul tavolino.
«Ma come?» farfuglia.
«Come, ce lo devi dire te. E anche perché, anche se un’idea ce la siamo fatta».
Il ragazzo si piglia la testa tra le mani e manda fuori simmetria la scucchiaiata di capelli predisposta dai tricologi di Cetrin, se la ritrova in mano e, a quel punto, la tira via e la scaraventa in un cestino a due metri da lì. La chioma artificiale resta appollaiata sul bordo, come un macabro scalpo.
«Le hai chiesto che fuggisse con te, vero? Solo che lei forse aveva altri progetti».
«Fuggire? Ma che fuggire! Non c’è voluta venire a letto con me, e basta».
«Cazzo, Simone, ma l’hai ammazzata per questo? Sai quante ragazze ci stanno là fuori?»
Dicendo così, butta un occhio all’esterno, sul paese ovattato e ridotto a landa desertica come ogni paese italiano in quel giorno e in quell’ora.
Magari non stasera, pensa Spataro, ma non lo dice.
«È che mi ha chiamato pelato».
Niente fuga mancata, allora, cazzo. Non ci si può più fidare nemmeno delle canzonette!
«Vuoi che andiamo dopo la partita?».
Simone li guarda, con gli occhi acquosi di chi non è lì, ma non apre bocca.
Allora lo portano via, a malincuore, nel movimento immobile di una serata mundial che va a cominciare.
Diretti alla caserma costeggiano anche il cimitero.
C’è un tizio in tuta che si appresta a ritinteggiare il muro per coprire la scritta Italia-Brasile e tutto il resto.
«Accosta, Squizzi» fa il maresciallo e poi si rivolge gridando all’uomo in tuta:
«Scusi, ma non sarà meglio aspettare almeno domani prima di cancellare questa roba? Che niente niente portasse sfiga!»
L’uomo si stringe nelle spalle. L’Alfetta blu si allontana e lui resta lì, con il pennello in mano e una decisione non facile da prendere.
Occhieggiando il pino, il maresciallo Spataro rivede per un attimo Gloria, appesa al vento. Rivede quella bambola, canticchia la sua melodia e forse capisce. Gli è balenato in mente un verso grazie al quale, alle canzonette, potrà concedere altro e incondizionato credito.
          (Da stasera la mia vita / nelle mani di un ragazzo no / non la lascerò più)
Il ragazzo era già lì, dall’inizio, sarebbe stato tutto più semplice, pensa il maresciallo Spataro, se solo avesse fischiettato il motivo giusto da subito.
«E comunque, Squizzi, se stasera si vince il mondiale, me li taglio i baffi».


FINE

24 luglio 2013

Permette signora - (6)

La domenica mattina dell’11 luglio, verso mezzogiorno, il medico legale raggiunge il maresciallo in caserma.
«Dottor Crisostomo, ma non avevamo fissato in mattinata? Che è questa l’ora di arrivare?»
«Maresciallo, sono dieci a mezzogiorno, la mattinata non è finita».
«Ho capito, ma io stavo aspettando lei».
«È domenica! Dobbiamo alzarci alle sette anche la domenica? Oltretutto ieri ho lavorato tutta la notte. E c’era la messa stamattina».
«Cioè, noi indaghiamo su un omicidio e lei mi va a messa?»
«Che male c’è? Magari qualcuno da lassù ci dà una mano».
«Io ho l’abitudine di cercarla in fondo al mio braccio, la mano che deve aiutarmi».
«Bella, vuole l’applauso?»
«No, mi bastano gli esiti di quello che le ho chiesto. Ce li ha?»
«Diamine!»
Il dottore che non si era ancora seduto, finalmente si lascia cadere su una seggiola e posa una ventiquattrore sulla scrivania del maresciallo. Poi inizia a estrarne dei fogli.
«Senza dubbio è stata depilata utilizzando un rasoio a mano, niente di elettrico per capirsi. Come possiamo definirlo… il barbiere, direi che si è dimostrato piuttosto inesperto lasciando diversi piccoli tagli in zona pubica. Probabile l’utilizzo di un rasoio usa e getta di plastica. Dalla lunghezza del pelo… lo sa, a proposito, che i peli, le unghie e i capelli continuano a crescere anche dopo la morte?»
«L’uccello no?»
«Anche quello, in realtà, può succedere».
«E anche questa discussione, mi sembra che si stia allungando. La vogliamo chiudere o far morire?»
«Volevo solo aiutarla a capire, maresciallo».
«Comunque sì, anzi no, non lo sapevo».
«Dalla lunghezza del pelo, dicevo, opterei per un monolama, un attrezzo da poco, di quelli che trovi al supermercato in confezioni da dieci».
«Sulla schiuma, cosa mi dice?»
«Che sì, è stata usata, non si è trattato di una rasatura a secco, se questo intende».

22 luglio 2013

Permette signora - (5)

Per cena, Mirella, la moglie del maresciallo Spataro ha preparato una zuppiera di pan molle, una sorta di ribollita estiva ma fredda, sempre originata dall’idea di riutilizzo del pane avanzato, condita con cetrioli, insalata, ravanelli e cipolle fresche. Una prelibatezza, semplice e tentatrice. Spataro se ne spara tre piatti colmi e la notte va a finire che non sogna bene.
Sarà la dose industriale di pane inzuppato o la cipolla che ha irragionevolmente introdotto nelle sue cavità gastriche, fatto sta che gli viene in sogno il carabiniere Girolamo Squizzi, è nudo, ma indossa la lucerna, il cappello dell’alta uniforme, si sta spingendo come un forsennato su un’altalena legata a un pino, sull’albero, a cavalcioni del ramo a cui è legata la corda, c’è Bruno Lauzi che sta segando lo stesso ramo. Nemmeno a farlo apposta, Lauzi, sta fischiettando “Permette Signora”.
Si sveglia impastato di cipolla e molla un rutto al cetriolo.
«Cazzo di cetrioli, tanto lo so che non li digerisco».
«Beppe, hai detto qualcosa?»
«No, dormi dormi, è che non ho digerito, mi faccio un alka seltzer, magari».
«Saranno stati i cetrioli» fa la moglie tra uno sbadiglio e l’altro.
«Già, ma te continui a metterceli».
Ne hanno discusso un milione di volte della digeribilità del cetriolo, ma non ne vengono a capo.
Tira giù le gambe dal letto e attende un eventuale giramento di testa, il giramento non arriva e allora si alza.
C’è una Signora che chiede giustizia e c’è da dimenticare la visione di Squizzi nudo sull’altalena.
Bruno Lauzi, invece, lo sa perché si è introdotto nella sua attività onirica.
A cena, ripensando alla canzone che gli frullava in testa, scritta da Lauzi e cantata da Piero Focaccia, gli erano tornate in mente le ultime strofe
(Permette signora / mi guarda da un'ora / vuol dir che stasera / si è accorta di me
Lo so sono audace / ma il rischio mi piace / mi faccia felice / e fuggisca con me)
con quel verso “fuggisca con me”.
Si ricordava bene di quando Lauzi, intervistato sull’improbabile voce verbale citata nel testo, spiegò senza darsi eccessivo cruccio, che lo sapeva sì che il verbo giusto sarebbe stato “fugga” ma che la metrica aveva richiesto una sillaba ulteriore e lui aveva deciso di accontentarla, in barba all’italiano.
Va in bagno e appronta pennello e sapone, s’imbianca il viso di schiuma e resta lì a guardarsi allo specchio.
          (con il marito il fidanzato e l’uomo sposato)
Sono i tre vertici di un triangolo di colpevolezza possibile.
Se il delitto è passionale, e la passera rasata ne è una spia fin troppo chiara, è evidente che un movente sessuale è da cercare. Tra chi Gloria la trombava o tra chi avrebbe magari voluto.
Il marito ha il movente, la gelosia, ma non ha il jet per fare Como Firenze e ritorno in poche ore e, ad ogni modo, dall’albergo non l’hanno visto uscire.
Il fidanzato della Maria non ha nemmeno un movente vero, ci faceva i suoi comodi con Gloria, perché avrebbe dovuto ucciderla. Forse lei lo ricattava? Improbabile. E nessuna traccia di ricatto nelle canzonette che induca a ulteriori riflessioni da fare.
Resta il Battilani, il terzo sfogo della Signora, ma se c’è un cristo che ha l’aria di non essere capace nemmeno di concepirla una roba così, figuriamoci a compierla, è proprio lui.
Con questi elementi e questi indiziati il cerchio non si chiude. Il verso non sposa il suo ritmo e zoppica. È una questione di metrica, direbbe Bruno Lauzi, e comincia a pensarla così pure Spataro.
Quando capisce che, affinché la verità non fugga via, serve soltanto una sillaba in più, solo una misera sillaba in più, sorride alla sua immagine riflessa e, finalmente, inizia a radersi.
A chi serve una sillaba in più per completare il verso e a chi un sospettato in più per chiudere il cerchio. Sempre una questione di metrica rimane.
Due manate d’Aqua Velva e via a nanna. In cinque minuti Spataro s’addormenta come un bimbo in culla e non ha il piacere di ascoltare le proteste di sua moglie Mirella, svegliata dalle oscillazioni del letto e nauseata dal forte odore di dopobarba.
«Pure per venire a letto ti dai questa porcheria! Madonnina che schifezza!»

19 luglio 2013

Permette signora - (4)

Spataro e Lepore si siedono a un tavolino di quelli fuori e arraffano una copia della Gazzetta dove si esalta la prova degli Azzurri che, al Camp Nou di Barcellona, si sono sbarazzati della Polonia con una doppietta del solito Pablito Rossi e si giocheranno la finale con la Germania. Ordinano due caffè a Simone, il Battilani junior, un ragazzotto sui 25 anni con una scucchiaiata di capelli dal colore indefinito e un’evidente psoriasi alle mani.
«Permette?» fa Simone per guadagnarsi uno spazio tra le pagine della rosa per posare le tazzine.
          (Permette signora…)
«Simone, vero?» chiede il maresciallo.
«Sì, Simone».
«Gli dici a tuo babbo, per favore, se ha cinque minuti per noi?»
«Lo chiamo».
Il maresciallo Spataro amava sminestrare le questioni a caldo, non era dell’idea di far decantare gli avvenimenti o di star tanto in ufficio a riflettere, a tracciare schemi o a buttare giù appunti.
Lavorava in strada e riorganizzava le idee a casa, davanti al giradischi Thorens, mettendo su un 45 giri dietro l’altro.
Già i due giorni per sotterrare la Signora gli erano sembrati eterni, anche se utili per controllare alibi e spostamenti dei maggiori indiziati: i tre che godevano delle grazie di Gloria.
Il giorno 8 luglio, la Signora, alle ventidue aveva staccato e alle sette di mattina stava appesa a un pino, morta però da almeno cinque ore.
Lo stesso Lepore si era occupato di verificare alcune situazioni. Il marito, indiziato numero uno stava in una pensione sul lago di Como e, a meno che non disponesse di un jet personale o di una macchina del tempo, era già escluso dal possibile omicidio, almeno come esecutore materiale.
Il fidanzato della Maria, Wilde, aveva trascorso la notte dalla Maria, anche se era assai poco probabile che ne trascorresse altre, vista la reazione della fidanzata alle domande che gli furono rivolte riguardo alla sua presunta liason con Gloria.
Wilde ne uscì bene da un punto di vista dell’indagine, ma con le ossa frantumate da un punto di vista del suo storico fidanzamento con la Maria.
Quello che proprio non ce l’aveva uno straccio di alibi era Pietro Battilani. Rientrato a casa che sua moglie già dormiva, era rimasto in cucina a guardarsi un po’ di tivù e nessuno lo aveva visto, nemmeno suo figlio Simone che era rincasato più tardi ancora.
Quando Pietro Battilani si siede al tavolo con i due carabinieri è teso e vistosamente addolorato.
«Dunque le voleva bene a quella figliola?»
«Le volevo bene sì, era la barista perfetta».
«Già, parrebbe sì» il maresciallo lo guarda fisso «senza tanti giri di parole, è a conoscenza che sappiamo della sua relazione con la morta?»
Usa la parola morta di proposito, per dare una scossa, quando ancora nessuno riesce ad abbinare il termine alla vitale Gloria.
«Sì, sono stato avvisato, ma non parlerei di relazione, ecco…»
«Come preferisce, parliamo di sesso? Da quanto se la scopava?»
Il maresciallo butta lì ancora tre o quattro domande le cui risposte valgono zero, servono solo per scrutare lo sguardo e le pieghe del viso del Battilani ma, dopo un po’, perde interesse. Spataro ha preso a spiare i movimenti del figlio Simone, dietro, che sta cercando di tenere a bada tutti i clienti. Ha una faccia strana quel figliolo, una mimica devastata e inespressiva che il maresciallo cerca di capire da cosa derivi, senza però cavarci molto. Gli occhi, forse.
Aspetta che Pietro finisca di parlare.
«… perché io sono un uomo sposato».
«Senta, Battilani, ma suo figlio che ha fatto a quelle mani?»
«Oddio, Simone, ne ha passate tante il mio ragazzo».
Qui Battilani fa una pausa, lunga, va a pescare le parole in una cesta di ricordi amari, le sceglie con cura, affinché gli procurino meno dolore possibile.
«Simone ha cominciato a perdere i capelli già a quindici anni, senza un motivo medico o psicologico, almeno che noi sapessimo. A scuola è diventato un macello, con lui che si vergognava e con i compagni, beh, lasciamo stare i compagni, se li può immaginare maresciallo… e non ha perso solo i capelli».
Ecco il perché della mimica particolare di Simone, niente sopracciglia.
«E poi è stata una spirale che l’ha inghiottito. Da militare è caduto in depressione, non l’abbiamo visto per mesi, non veniva nemmeno in licenza. Al congedo è tornato, per forza, e aveva perso ogni singolo pelo del corpo, ogni singolo pelo, s’immagina?»
No, Spataro, questo fa davvero fatica a immaginarselo.
«Terribile» dice Lepore.
«Quindi gli son venute le macchie sulle mani, la gastrite e poi chissà cos’altro arriverà. Non s’è fatto mancare nulla. Solo nell’ultimo anno sono riuscito a tirarlo dentro al bar, a darmi mano, e qui è rifiorito. Anche grazie a Cetrin, devo dire».
«Cetrin?» la parola qualcosa gli dice, al maresciallo, forse una medicina? Forse un mago da tivù privata?
«Cetrin, quelli dei capelli?» chiede Lepore.
Per questo gli piaceva Lepore, sapeva stare al suo posto, con rispetto ed educazione ma, quando c’era da subentrare, si faceva trovare pronto. Un panchinaro perfetto, quello che tutti gli allenatori vorrebbero. Per un attimo pensa a Giampiero Marini, ci sarebbe stato bisogno di lui nella finale del Mundial, si sarebbe fatto trovare pronto?
«Cetrin sì, proprio loro, sarà pur sempre un cazzo di parrucchino, ma almeno lo rende presentabile».
Dopo aver liberato il Battilani si trattengono altri dieci minuti, leggono le dichiarazioni di Bearzot e di Zoff, che è l’unico che parla tra i calciatori. Apprendono che il presidente Pertini avrebbe assistito alla partita e si dispiacciono per Antognoni e i cinque punti di sutura sul dorso del piede che l’avrebbero relegato in tribuna per la finale, probabilmente in infradito.

17 luglio 2013

Permette signora - (3)

Se il cimitero è una sorta di attrattiva turistica, il decolleté di Gloria si sarebbe dovuto trovare sulle guide del Touring. Una visita fra le rotondità delle sue tette, magari calandosi fin giù in quel canyon languido, era il sogno di tutti. Generosamente, Gloria, elargiva visioni della sua pelle in cambio di sorrisi e sguardi porcini. Non se ne curava e tirava avanti il lavoro ch’era una bellezza, per la gioia dei titolari, Pietro e Simone Battilani, padre e figlio. La famiglia Battilani era da sempre alla guida dell’ex Bar Sport, ex Bar Pietro, ex Bar chissà cos’altro e adesso Bar La Piazza.
Gloria ha già ricevuto le onoranze funebri di tutta Ponte al Drago quando, due giorni dopo, con scientifica certezza, il medico legale, dottor Crisostomo, informa il maresciallo che i suoi sospetti sono fondati. La Signora era già morta da almeno cinque ore al momento del ritrovamento e risulta strangolata, non impiccata.
«Da un uomo? » chiede Spataro.
«Diciamo da mani umane, maresciallo, certo non da una corda, certo non da quella corda. A quella corda ce l’hanno legata e poi l’hanno tirata su. Francamente, una messinscena pietosa».
Il maresciallo Spataro s’alliscia il baffo mentre Lepore lo mette al corrente sulla vita di Gloria, alias la Signora, alias l’appesa del cimitero, alias la rizzacazzi strangolata.
Quello che è stato chiaro fin da subito è che nessuno sarebbe riuscito ad appendersi a un ramo così in alto, senza una scala o una gru. E le scagliette scortecciate dal pino dimostravano lo sfregamento della corda sul ramo, e il maresciallo le teneva ancora in tasca.
«Ha presente, marescia’, la canzone Boccadirosa?»
«Certo, che fai, sfotti?»
«Non mi permetto. Quella canzone che lei lo faceva per passione, ecco, anche per la Signora era così, si dice».
          (metteva l’amore metteva l’amore la chiamavano Bocca di Rosa metteva l’amore sopra ogni cosa)
«Ma il marito che dice? Cornuto e contento?»
«Cornuto di sicuro. Sul contento non c’è certezza, che vuole, è sempre in giro, fa il rappresentante per la Brill, prodotti per pulire casa. Torna a casa il venerdì sera, molto probabile che fosse ignaro, più che contento, e comunque, no vabbè…».
«Di’, di’, non ti trattenere Lepore».
«E comunque da solo non ce la poteva fare, marescia’, ce l’ha presente la Gloria?».
«Francamente, lì appesa, non è che m’ha fatto un grande effetto, ciondoloni a quel modo. Semmai a Girolamo, la fica spelata mi sa che non l’aveva mai vista».
«Per quello nemmeno io».
«Già, un po’ di pelo ci vuole, te lo dice un esperto».
«Era una donna che l’avrebbero voluta tutti, la Signora» riflette Lepore.
«Dunque, il marito rappresentante, bene, lui se la scopava il fine settimana, e poi? Poi, chi inzuppava il biscottino?»
«Poi c’era Wilde, il fidanzato storico della Maria dell’emporio».
«Wilde eh? Il fidanzato della Maria, il fidanzato…».
          (il marito, il fidanzato)
«Altri?»
«Poi, ovvio, c’era il Battilani, Pietro, il padrone del bar».
«Perché ovvio?»
«Che vuole, già starci accanto cinque minuti c’era da prendere fuoco, s’immagina giornate intere gomito a gomito con quella lì. Ovvio, per quello».
«Lepore, io e te, stiamo un sacco di tempo a contatto di gomito, mi devo preoccupare?»
«Finché mi resta un po’ di gnegnero direi di no».
«Uhm, ottimo. E il Battilani è un uomo sposato?»
«Eh sì, sposato con tutti i crismi e con un figlio, Simone, l’altro che sta al bar».
          (con il marito, il fidanzato e l’uomo sposato che non la lascia mai… permette, Signora)
«Cristosanto!»
«È sposato, che ci posso fare?»
«Sì, non dicevo per quello, senti, ma il bar, ha già riaperto?»
«Sì, stamattina, dice che anche la Signora avrebbe voluto così, in fondo».
«Allora andiamo a pigliarci un caffettino. E chissà che non riusciamo a sbattere dentro qualcuno».
(venga a prendere il caffè da noi, Ucciardone cella 26)
L’aria delle canzonette continuava magicamente a sospingerlo e il maresciallo Spataro non osava opporsi, anzi, issava la vela e si lasciava trasportare.
«Andiamo a piedi?»
«Ma che sei matto? Acchiappa l’Alfetta e non fare discorsi a cretino. Mi rado e arrivo».
La sbarbata pomeridiana è un piccolo rito che mette il maresciallo Spataro di buon umore e al quale non rinuncia mai. Si rade con cura collo e guance, delimita i baffi con precisione e poi con due manate d’Aqua Velva s’incendia il viso.
In tempo di guerra se la bevevano l’Aqua Velva, suo padre se l’era bevuta alla ricerca disperata di stordimento.

15 luglio 2013

Permette signora - (2)


Il Maresciallo Giuseppe Spataro, quarant’anni, si porta in giro novanta chili di corpulenza ben distribuita in quasi due metri d’altezza. Sfoggia un vistoso paio di baffi anni settanta, un po’ fuori tempo e un po’ da finocchio. Non è tipo da stare dietro alle mode, il baffo se l’è lasciato crescere quando andava e ha dimenticato di tirarlo via quando i Village People l’hanno connotato di gaiezza.
È da sempre in lotta con il suo organismo irsuto, ha peli in posti dove altri non hanno nemmeno i pori, ne ha tappetini sulle spalle e sulla schiena, ne ha ciuffi sulle dita, ne ha spighe dentro le orecchie e nel naso. Si rade almeno due volte al giorno, baffi a parte.
Incute timore a guardarlo, è autorevole e destinato a farsi intendere. Comanderebbe la caserma di Ponte al Drago pure se fosse l’ultima recluta, il fatto che ne sia il capo ufficiale è, a tutti gli effetti, un dettaglio.
Sormonta quel popò di fisico una testa in proporzione piccola, ma alla quale è restituita imponenza e dignità dal copricapo fiammato che Spataro non toglie mai, almeno finché mantiene una posizione verticale. Le mani si presentano come una sorta di racchette che è fortemente indicato non dover incocciare mai, né di dritto né di rovescio. Le strette del maresciallo Spataro sono un rischio serio per la funzionalità di falangi, falangine e falangette del salutato.
È pigro e preferisce astenersi dall’esercitare attività non legate alla sopravvivenza diretta. Potendo, utilizzerebbe la volante pure per andare a pisciare. Nel paese è un’istituzione. Non è tipo da ricercare il consenso a tutti i costi, anzi, coltiva volutamente un atteggiarsi burbero dal quale, traspare, suo malgrado, un animo definibile gentile, anche se non in sua presenza.
Una voce baritonale completa la sua figura possente. Il maresciallo Spataro non fa rispettare la legge, tutto sommato è la legge. Una sorta di sceriffo alla John Wayne in un villaggio del West del Chianti, con i peli come speroni e l’Alfetta blu sotto il culo, al posto del cavallo.
La sua passione sono le canzonette, quelle datate, di quando era giovane. I ritmi moderni della disco music hanno il potere di metterlo a disagio e gli provocano un insistente prurito alle mani in un processo di fastidiosa somatizzazione.
Le canzonette lo aiutano nelle sue battaglie contro il crimine, contro la peluria diffusa e contro la sua immagine di buono dentro.
Le canzonette lo guidano, di questo ha l’assoluta certezza. Ai versi delle canzoni che gli risuonano in testa, ha spesso attribuito miracolose svolte nelle indagini. E, anche se lo sa bene che non è materia di divulgazione scientifica, il pensiero di averle lì, a disposizione, lo conforta, gli infonde fiducia e, almeno indirettamente, lo aiuta.
Perché sapere ne sa a pacchi, di canzonette, e di tutte conosce titolo, interprete, autori, testo e melodia.

13 luglio 2013

Permette signora - (1/7)

Sarà capitato anche a voi
di avere una musica in testa,
sentire una specie di orchestra
suonare suonare suonare suonare…


(Zum Zum Zum – A. Amurri B. Canfora)





Il cimitero monumentale di Ponte al Drago è una meta simil turistica, se non fosse per la naturale aria di morte e il vago odore di fiori marci sarebbe un bel posto dove passarci del tempo. Difficile che un visitatore estemporaneo ne resti deluso. Belle statue, ricche tombe, vialetti e siepi mantenuti con rigore e un’architettura imponente e dignitosa.
Dietro al cimitero c’è un parcheggio aggiuntivo per l’accozzaglia di auto che s’aggrumano qui nei giorni attorno al due novembre. Nel resto dell’anno questo parcheggio, uno spiazzo misto di erba e ghiaia, punteggiato da una fila di pini, rimane deserto.
Sul muro di cinta del cimitero che s’affaccia sullo spiazzo c’è una frase disassata e sghemba, vergata da qualche giorno con uno spray azzurro. Italia-Brasile 3 a 2, c’è scritto, e sotto: Rossi, Rossi, Rossi. La sintesi estrema di un grido di gioia che ha frustato l’Italia, ma che adesso mal s’intona con l’aria greve della scena.
C’è un discreto numero di persone per essere le sette di mattina. Di là dal nastro steso dal brigadiere Sandro Lepore, si sta componendo una piccola folla muta e attonita. Mosche non ne volano.
Il maresciallo Giuseppe Spataro e il carabiniere scelto Girolamo Squizzi sono al centro del parcheggio deserto, nei pressi di uno dei pini, gli occhi rivolti a un’eterea figura appesa.
È una donna minuta dai capelli chiari, indossa un vestito estivo bianco e penzola delicatamente a un paio di metri d’altezza. Ha una corda in nylon arancione che le stringe la gola.
Il vento del mattino la culla, quasi rispettoso di una vita che non è più, e la figura di donna, piegata in un angolo innaturale all’altezza del collo, in un macabro vortice lento, gira su se stessa.
          (tu mi fai girar / tu mi fai girar / come fossi una bambola)
Dietro le colline si spande un chiarore in avanscoperta e annuncia, anche per oggi, l’arrivo del sole sul binario est.
«E quindi è la barista? La Gloria?» è il vocione del maresciallo Spataro che gratta il silenzio.
Squizzi fa di sì con il capo, non ha voglia né di parlare né di stare lì sotto. Arrivando, nella penombra dell’aurora, ha pure pestato una merda di cane ma, checché se ne dica, la giornata non si apre sotto i migliori auspici.
Gloria la barista era una rizzacazzi, tutti d’accordo, ma non per questo, anzi, soprattutto non per questo, pensava Spataro, meritava di finire appesa a un pino dietro un cimitero.
«Sgabelli, sedie, scale… trovato nulla?»
Squizzi fa di no con il capo, ma una parola non la caccia fuori.
Sotto la donna, dal ghiaino, il maresciallo pilucca delle scagliette di corteccia di pino, le raccoglie in una mano, le pizzica con le dita, sono grattugiate di fresco dal ramo, hanno un lato rossastro. Tracce di gomme si notano nella ghiaia, del resto è normale, pensa Spataro, in un parcheggio.
«S’è impiccata una al parcheggio del cimitero» con queste parole l’aveva svegliato un’ora prima Lepore.
Gloria, detta la Signora, la procace barista del bar di piazza, defunta, poco da dire. Ma che si fosse impiccata, da sola, era già più dubbio.
Dondolava da un ramo alto tre o quattro metri e tra lei e il suolo ce n’era un paio. A meno che non fosse arrivata lì a cavallo, c’era da chiedersi come aveva potuto architettare tutto da sola.
Il tronco del pino biforcava circa a due metri da terra, ma era impensabile che Gloria, alta un metro e mezzo poco più, potesse averne usufruito per arrampicarsi sulla pianta.
          (poi mi butti giù / poi mi butti giù /come fossi una bambola)
L’idea del cavallo gli fa pensare a Lady Godiva anche perché, se c’è qualcosa di lampante nel quadro horror di quel mattino, è che la Signora non indossa le mutande. E là sotto, dove nasce e muore il mondo, è inesorabilmente rasata.
Eppure la scena sembra avvolta da un alone delicato, non c’è sangue e non c’è quasi sofferenza nel quieto e abbandonato dondolio di quel corpo.
«Squizzi che fai? Guardi?»
Girolamo Squizzi, carabiniere scelto, da Tor Vergata, abbassa gli occhi e avvampa come il cielo a levante.
«È vietato farsi le pippe su una morta, vedi di ricordartelo!»

4 luglio 2013

L'ospedale delle formiche

Chi non ha mai fatto l'ospedale delle formiche scagli il primo chicco di grano.
No davvero, io mi ci divertivo e dolcemetà pure, nella vita sua.
'Sti (*) formiconi neri, quando erano liberi da altre attività s'intende, li potevi ricoverare ed eran perfetti.
Pazienti, manco per idea, a dirla tutta, cercavano di scappare da ogni parte e allora, per rendere magari più credibile la loro degenza coatta, si era costretti a stroncare loro qualche gambina (dolcemetà nega questa pratica ma solo perché teme ritorsioni degli animalisti, dei Cinesi, e degli animalisti cinesi).
Così, con qualche arto acciaccato, riuscivamo a trattenerle per un po' di tempo nel letto a foglia d'edera preparato per loro con tutto l'amore, anche se poi se la svignavano lo stesso, zoppicando e senza nemmeno firmare le dimissioni.
Stamani France partendo per i centri estivi era visibilmente eccitato e contento e al nostro indagare ci ha spiegato che oggi, con il caro amico Guido, avevano in programma la realizzazione di un ospedale per formiche e se n'è uscito portandosi via il tappo del latte da utilizzare come barella.
Ah, piume delle nostre piume!

(*) Domanda per cruscofili: tipo ma se io, come in questo caso, la lettera che dovrei scrivere in maiuscolo la elido (Q) e metto solo la seconda parte della parola, ha senso che ammaiuscoli la S, oppure no?

2 luglio 2013

Cinque

...il tuo numero è cinque.

Ci mettevano in fila dal più basso al più alto, in una i maschi e nell'altra le femmine, e poi ci accoppiavano. Io stavo proprio attorno alla metà, quando ancora i percentili eran brutte parole.
E poi ci abbinavano pure ai regoli, quei legnetti che ti aiutano a sbrogliare le prime matasse matematiche.
Ero il numero cinque, impersonavo il regolo giallo. Ma soprattutto corrispondevo alla Veronica, nella fila delle femmine.
La Veronica era la bambina che avrei voluto sposare con il senno di allora e la mia e la sua altezza mediana erano quanto di più garbato il destino poteva inventarsi per tenerci vicini.
La questione si rivelava di preziosa utilità specie nelle uscite. Gite al museo o passeggiate a raccoglier foglie che fossero.
Tutti in fila per due, allineati e coperti, e rigorosamente per la mano l'uno dell'altra.
L'uscita per la mano di Veronica è stato il primo momento in cui ho preso coscienza della mia contrarietà al fatto che non si potesse frenare o arrestare il tempo.
Spesso anche nei lavori in classe capitava che ci dovessero abbinare per attività di coppia e quale soluzione più facile che utilizzare l'abbinamento da regoli?
Tutto filava liscio, oliato e incardinato in solidi binari.
Nessuno si sarebbe potuto imaginare che il fetente di Massimino, proprio il giorno in cui era in programma di andare a piedi in non so bene quale diamine di fattoria dei dintorni, risultasse drammaticamente assente.
Era uno di quelli più bassi di me, Massimino, proprio il numero uno, l'insulso regolo bianco da un centimetro, quando la maestra ci mise in fila non ci volle Galileo Galilei per capire che stava accadendo qualcosa di grave.
Io fui incatenato a un'altra bambina che nemmeno mi ricordo chi fosse, sinceramente, e la Veronica si ritrovò mano nella mano con Fabio, il regolo di regola al numero sei ma oggi, in eccezione, al cinque al posto mio.
La sentii ridere tutto il tempo alle barzellette su Pierino che il buon Fabio sciorinava una via l'altra, e ogni sorriso di lei mi trapassava il cuore come una freccia cheyenne che non ho ancora avuto il coraggio e la forza di tirare via.
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