24 aprile 2013

Caffè alla Norma

Sì, ma un vi spaventate che unnè un caffè colle melanzane, è un’antra cosa. Guasi meglio.
C’era queste casette in fila, tirate su a avanzatempo dai babbi muratori e dai parenti volenterosi, erano buone sì per tornarci ma mica finite. In molte stanze un c’era mobili, lampadari per carità, e fuori mancava le cancellate, le reti a dividere, i giardini. L’ultima mano di tinta l’era da dare, chissà quando e se, e tutto aveva assunto quell’aria indecisa di provvisorietà definitiva, se vu intendete icchè voglio dire.
Dopo mangiato ci si trovava da questo o da quello, poco importava a casa di chi, era un girare e toccava a tutti, e poco importava chi c’era o non c’era. Chi unn’era a lavorare a quell’ora, di certo veniva.
Da casa dell’Itala, giù a quella dei Lumini e degli Orsini, poi i Nuti, i Ceccarelli e noi, quindi a seguire il Fallera, Trinchella e la Norma con il figlio, quello zibo e barbuto.
Bastava scavalcare un muretto o due, infilarsi in una siepe che ancora unn'era nemmanco un cespuglio, per transumare di proprietà in proprietà seguendo l’aroma del caffè di chi ospitava quel giorno.
E poi seduti attorno alla tavola, qualcuno in piedi se magari c’aveva da scappare per tornare a lavoro, ma tutti, da noi dodicenni ai sessantenni a pigliarsi un caffè di quelli boni.
Lo riconoscevi ad occhi chiusi se l’aveva fatto l’Itala, o la Tosca del Ceccarelli o la mi’ mamma. Tutti di moka s’andava, eppure ogni famiglia aveva un suo gusto unico, che un dipendeva mica dalla marca, era più figlio di un’atmosfera, di una cucina screziata di sole o di una terrazza in cotto dell’Impruneta, di un servito di tazze a fiori col labbro fine, piuttosto che di uno giallo anticato a bordo grosso.
Il sapore di quel caffè, le chiacchiere, le battute sempliciotte, sempre le stesse  e sempre gradite, i sorrisi, i complimenti alla tovaglia nuova, l’ultima barzelletta sconcia di Benito, il venticello geloso che s’infilava dalle portefinestre e il rumore lontanissimo delle preoccupazioni, comprimevano il succo stesso della vita in dieci intensi minuti.
«L’è passato».
«O indò l’è andato?»
Risate.
Il caffè che passa, la zuccheriera che fa il giro della tavola, la Giovanna con i suoi tre cucchiaini, l'Itala che lo piglia amaro e la Piera che vuole il primo perché è più leggero.
E poi c’era la Norma, il più bono era il suo. Un c’era dubbi. Il figliolo zibo lo versava nelle tazze e un parlava mai, mentre la Norma, per la centomilionesima volta, spiegava il suo trucchetto mostrandoci uno stuzzicadenti.
«Quando vu avete pigiato la polvere nel cosino, vu pigliate uno stecchino e vu fate dei buchini così» e faceva il gesto «di modo che quando passa l’acqua a bollore s’insapora di più e il caffè vien meglio».
E si sentiva schiccherare i cucchiaini, la televisione era spenta, e il telefono, dimenticato di là e fisso, a mille miglia da noi, nell’ombra fredda dell’andito.
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Il testo partecipa all'EDS ipogeusia da un'idea de La Donna Camèl come anche:
Sarde a baccaficu - Bastardi affucati - Dario
La prima volta che ho mangiato i piselli davvero - Singlemama
Lettera alla donna che ami sulla felicità e il ragù - cielo
Lu vinu - Lillina
Per un piatto di risi e bisi - Melusina
Mia nonna era google - Bianca
Antichi sapori - Pendolante

22 aprile 2013

Ma Pippo Pippo non lo sa... o lo sa?

Dal post Tutta colpa vostra di Pippo Civati.

Care e-lettrici e cari e-lettori,
il Pd ha deciso: è tutta colpa vostra. Dei vostri tweet e dei vostri commenti. Siete il «popolo della rete», quello che fa sbagliare (!) i parlamentari con le sue indicazioni. Non ci interessa sapere se abbiate una vita o un lavoro (o non l’abbiate). Ci interessa solo poter dire che i vostri tweet (e anche gli sms) sono eversivi.
...
Peccato che i sondaggi – come quello di oggi – avessero indicato che soltanto una percentuale al di sotto del 10% degli elettori del Pd fosse d’accordo per uno schema delle larghe intese e con il Presidente scelto da Berlusconi in una rosa di nomi da noi proposta (da cui è uscito Marini).

No, è tutta colpa dei social network, dell’inadeguatezza (Bindi dixit) dei nuovi parlamentari, che non hanno idee, no, loro guardano solo i palmari e si fanno dare la linea da generici elettori scatenati.
Ora, se c’è qualcosa di palmare, è la falsità di queste posizioni e l’incredibile scarica barile (punto it) che il Pd sta facendo verso i suoi stessi elettori. Lo stesso faranno tra qualche ora per il governo Pd-Pdl: diranno che quelli che non sono d’accordo stanno sulla rete e non vogliono il bene del Paese.
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Quella che non si vede è una via d'uscita in un partito in cui i dimissionari ancora parlano e, pervicacemente ma con inossidabile coerenza, ancora sbagliano dichiarazioni, in un partito in cui si stagliano lunghe lugubri e vecchie ombre là in fondo, e in cui i giovani, di età o di ribalta, paiono già lanciati su binari sostanzialmente divergenti.
Civati, Orfini, Renzi, Barca... tanto per fare dei nomi, quali sono i punti in comune? Ce ne sono? C'è una qualche misera garanzia che l'anima del partito possa ricompattarsi attorno a un nome unico o a un paniere d'idee condiviso?
Francamente, da qui, da uno del popolo della rete, sembra proprio di no.

19 aprile 2013

Il Liʃca - (3)

Erano paʃʃate le nove, ma non mi ero fatto illuʃioni. La telefonata arrivò e io mi feci inghiottire dal divano in un gorgo ʃpaʒio tempo da cui probabilmente ʃarei riemerʃo con un grado di libertà pari a quello di un diʃʃidente cineʃe.
- Pronto, sì? - la mamma.
- Sì, buonasera, parlo con la signora Pampaloni, la mamma di Marco? - il Bordoni.
Non lo ʃentivo il Bordoni, non che ho mai avuto dei ʃuperpoteri, ma potevo immaginarle le ʃue parole.
          (Parlo con la mamma dello sciroccato?)
-    Sì, sono io, sono la mamma di Marco. È successo qualcosa?
E già qui mia mamma mi guarda ʃtorto, abbaʃʃa il ʃopracciglio deʃtro e allarga le narici, interrogativa e quaʃi incaʒʒata.
- Non, si preoccupi, le volevo solo dire una cosa di oggi pomeriggio...
          (Lo sciroccato era qui oggi pomeriggio)
- Oggi pomeriggio? Marco ne ha combinata qualcuna?
- No, no, però oggi pomeriggio a un certo punto mi chiama la Marusca dalla vigna, è una ragazza che lavora qui...
          (Sa quel deficiente di suo figlio s'è fracassato per bene cadendo da cavallo... a un certo punto mi ha chiamato la Marusca)
- Ah sì, quella ragazza che c'è da voi, quella polacca se non sbaglio. La ringrazi da parte mia perché quando Marco veniva lì con l'associazione lei l'ha tanto aiutato e il mio Marchino s'era quasi innamorato di lei. E di quella cavalla, la Chiquita...
Dagli inferi profondi del divano, in un lampo di commiʃeraʒione e rabbia, sbuffo fuori qualche parola.
- Conchita, mamma, Conchita... non è una banana.
- Ah, sì, Conchita mi dice Marco, mi scusi sa ma non sono mica brava coi cavalli, hanno tutti questi nomi strani, un po'... un po' da... cavalli. Una volta ci portò a far vedere anche una foto Marco, è una bella cavalla, complimenti, peccato che Marco è un po' così e non la può montare...
- Così come?
          (Così sciroccato?)
- Così… – mamma butta un occhio sull’intreccio divano-inferi-me – così, insomma l'avrà visto anche lei.  E' delicato, non può fare le cose degli altri ragazzi... quindi cos'ha combinato?
          (Gliel'ho detto, ha battuto una botta clamorosa. S'è distratto e il piede, quello un po' zoppino, gli è uscito dalla staffa e poi chissà dove gli è rimasto impigliato, in un tralcio, in una vite, in un fil di ferro)
- Niente, mi chiama la Marusca dalla vigna: “signor Bordoni, venga”. E io vado giù, alla vigna insomma...
- E allora?
          (Fatto sta che è andato in terra ed è svenuto. Signora, che diamine, ci deve stare attenta, non lo mandi fuori da solo, è anche così mingherlino, magari non aveva su nemmeno la maglia di lana...)
- Allora, la Marusca mi dice che dal prossimo mese va in Polonia dai suoi figlioli, che due soldi da parte li ha messi e che è anche l'ora di tornare a casa.
La mamma è ʃconcertata, lo vedo e lo ʃo. È matematico... mi guarda la camicia aperta e cerca di capire ʃe ho la maglia della ʃalute ʃotto. Tira giù anche l'altro ʃopracciglio.
- E Marco? - fa mia madre.
          (Marco, lo sciroccato ritardato zoppo testa d'uovo, lo deve tenere a casa con la porta sprangata da tre mandate e con le sbarre alle finestre, signora, dovrebbe averlo capito... lei rischia una bella denuncia per omissione di controllo su figlio svitato)
- Marco, niente, c’è che avevo una mezza idea che potesse venire lui a darmi una mano con i cavalli dal prossimo mese. Ne abbiamo tre, sa? Sono impegnativi, sono da tenere puliti, sono da curare e i ragazzi della Senza Distanza ormai sono anni che non si vedono più. Ci darebbe proprio una bella mano.
- Ma chi, Marchino mio?
          (Sì lo sciroccato, Madonna che botta che ha battuto!)
- Certo, è bravo, non ci farebbe rimpiangere la Marusca.
- Oh.
          (Anzi, la sa una cosa? Gli metta una paio di pigiami di flanella, gli accenda la coperta, lo butti a letto e gli dica di non farsi più vedere da queste parti.)
- Anzi, la sa una cosa? Gli dica che venga su domani, che così comincia a impratichirsi...
- Va bene, grazie signor Bordoni, glielo dico.
Ecco, ʃi ʃalutano, riattaccano. La mamma viene verʃo di me, ha il broncino e gli occhi gonfi. ʃe mi va bene, mi dà due ʃchiaffi, penʃo, ma ʃe mi va male è facile che, ʃe non c'è più, rifonda l'Aʃʃociaʒione ʃenʒa Diʃtanʒa e mi ci manda a ʃvernare.
- Amore - mi fa, abbracciandomi e sollevandomi dall’inferno come farebbe un volo di angeli.
- Uh?
- Il signor Bordoni dice che ti vuole da lui a fare lo stalliere, sei contento?
- Uh, eh? Ah, ʃì, eh beh. Certo che ʃono contento, mamma!
- Bravo Marchino, bravo, lo sapevo che ti faceva bene stare con quella Chiquita, Pepita, come si chiama, la cavallina insomma.
- Già, mamma, ʃì, ma non mi frignare ʃulla camicia.
Dormire poco o nulla, la mattina preʃto mi fiondo alla fattoria e vado a caccia del vecchio Bordoni. Lo becco che ʃta dando di forcone tra balle e fieno nella ʃtalla, è di ʃpalle, ma di certo ʃa che ʃono lì, proprio dietro di lui.
Per un tempo effettivo di meʒʒo minuto, percepito da me di meʒʒo ʃecolo, me ne reʃto ʒitto in atteʃa che ʃi volti o ʃpifferi qualcoʃa lui. Ma poi parto.
- Ecco, io la volevo ringraʒiare, ʃignor Bordoni, per tutto. Per il lavoro qui, ʃe è vero. E ʃoprattutto per non aver detto nulla a mia mamma della caduta.
- Che caduta?
Qui ʃi volta e gli ʃcappa da ridere, prima piano, in ʃilenʒio, poi invece ride forte, ʃi piega in due, ʃuʃʃulta quaʃi, manco ʃe gli avevo raccontato la barʒelletta del cavallo in treno.
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Il Liʃca - capitolo 1
Il Liʃca - capitolo 2
Il Liʃca - capitolo 3

18 aprile 2013

Il problema non è Marini

Caro (*) Bersani, il problema non è Marini, francamente.
E anche la gogna mediatica a cui hai fatto sottoporre quest'uomo ce l'hai sulla coscienza tu.
Il problema risiede nel con chi hai concordato questa candidatura, chi hai abbracciato in Parlamento e cosa hai contrattato in cambio, per venderti così.
Il problema non è Marini, che sarebbe un Capo dello Stato possibile, più che dignitoso, forse non il migliore, ma accettabile a senz'altro super partes più di altri. Ammettendo anche, che dall'inciucio fosse venuto fuori il nome di un Sandro Pertini redivivo, non sarebbe stata una buona cosa per i modi con cui hai portato avanti questa scelta in aperto spregio al tuo elettorato e a molti (troppi) dei tuoi parlamentari.
Se, per assurdo, il nome di Marini fosse uscito dalle quirinarie del M5s sarebbe andato bene, lo capisci questo?
Hai rincorso Grillo per mesi, strusciando e inginocchiandoti al cospetto anche di persone il cui valore è tutto da dimostrare, quando nessuno te lo chiedeva. Sei andato a prenderti dei sonori schiaffoni, peraltro dichiarati e prevedibili, mollati dal buon Grillo e quando questi, nell'unico momento di apertura vera, ti offre lo spiraglio per una carezza (e che carezza, Rodotà mica Casaleggio!) tu ti volti dall'altra parte?
Tutto ciò va oltre la mia possibilità di comprendere e, temo, oltre quella di molti.
E su twitter che ci stai a fare? L'hai preso per fare il figo l'account? E il tuo staff che fa? Non lavora? Non si abbassa a dedicare mezz'ora per tirarti giù una rassegna di tweet della serata di ieri prima che tu ti possa imbarcare su una rotta fatale e senza ritorno?
Leggilo il tuitter, o comunque ascolta gli umori della gente, bastava aprire la porta del teatro Capranica se ti trovi meglio con il metodo tradizionale.
Civati, la Serracchiani, Serra... ti sembrano voci che puoi permetterti d'ignorare così?
Avresti evitato almeno questa figura di.
Sì, perché, mi sa, che non son finite.

(*) Bene o male mi sei costato due eurini più di tutti gli altri.

(nella foto Franco Marini in "Una pallottola spuntata")

17 aprile 2013

Il Liʃca - (2)

L'aʃʃociaʒione ʃenʒa Diʃtanʒa, una roba che ʃolo a dirla, io, riʃchio l’annodamento della lingua e la ʃubluʃʃaʒione delle corde vocali, cavolo! Per me ʃono ʃempre ʃtati “gli ʃtrambi”.
E allora via ʃulla cinquecento della mamma, io dagli ʃtrambi e lei a proʃeguire per chiʃʃà quali argenterie da luʃtrare o ceʃʃi da pulire, beata lei! Io ero coʃtretto a ʃocialiʒʒare con una decina di mentecatti tipo me e anche di più, in uno ʃtanʒone dove campeggiavano un calcino, un ping pong e tre tavolini rotondi da giocatori di carte. Manco uno che era capace di reggere delle carte in mano e di riconoʃcere una doppia coppia o qualcuno in grado di colpire la pallina del calciobalilla con la mediana. Non per vantarmi, ma ero di gran lunga il più ʃveglio lì dentro e, ʃe capite coʃa voglio dire, renderʃene conto non è che ti apriva le porte della felicità.
Il giovedì era un giorno ʃpeciale. Verʃo le tre arrivava un pullmino giallo, già ʃcuolabuʃ del comune, che ci caricava tutti in un turbinio di eccitaʒione e di urla per portarci a ʒonʒo.
E durante i viaggi ti piʃciavi addoʃʃo dalle riʃate perché era il momento delle barʒellette. Nella ʃettimana precedente imploravo mio babbo, quando mi capitava di vederlo, per farmi raccontare una barʒa nuova. E mio babbo non falliva mai, aveva ʃempre l'ultimo grido, la barʒelletta che avrebbe fatto letteralmente ʃpanciare i ragaʒʒi della ʃenʒa Diʃtanʒa.
Quando toccava a me, modeʃtia a parte, calava il ʃilenʒio. Viʃpi o dementi, furbetti o appena coʃcienti, tutti i ragaʒʒi ʃi aʃʃerragliavano in un ʃilenʒio carico e gonfio di atteʃa per la battuta finale. Da vero re del palcoʃcenico, mi facevo un po' attendere ma poi partivo e li laʃciavo ʃtecchiti. Non ʃo, ʃpeʃʃo dubito pure che le capivano le barʒe che raccontavo, ma baʃtava che alla fine uno partiva con la riʃata e ʃi ʃcatenava una tempeʃta d'ilarità fresca e contagioʃa, da me a loro, dalla ʃignorina Clara, che ci accompagnava, fino all'autiʃta.
E poi c'era il momento di Pippo che, finite le barʒe nuove, pigliava poʃʃeʃʃo del microfono e attaccava con la ʃua ʃempre uguale barʒelletta del cavallo in treno. Era una performanʃ per la quale potevi pure pagare il biglietto.
“C'è questo tizio che va a Milano in treno, sale e trova nel vagone un cavallo che legge il giornale. Non ho mai visto un cavallo in treno fa il tizio, e il cavallo: per forza ho perso l'autobus!”
Ma, viaggio a parte, era alla Vecchia Pagnana che c'era del buono per tutti. Le prime volte con la ʃignorina Clara e il branco di ʃciroccati ʃi paʃʃava in raʃʃegna quaʃi ordinata tutta la fattoria incontrando gabbie e recinti di conigli, caprette, galline e galli di ogni raʒʒa e colore, gli ʃtruʒʒi, i pavoni e perʃino un cerbiatto. ʃi percorreva una ʃtradina bianca tra campi e prati in leggera diʃceʃa fino all'arrivo, lungo un fiumiciattolo, alle ʃcuderie dei cavalli.
Pericoli pareva non ce n’erano, neʃʃuno che temeva che gli allagavamo il pollaio o che gli davamo fuoco allo ʃtruʒʒo, perciò ci laʃciavano abbaʃtanʒa liberi nei noʃtri ʃpoʃtamenti e, mentre molti ʃi trattenevano carote in mano a ʃfamare i conigli o a fare bu bu allo ʃtruʒʒo, io mi ʃcapicollavo giù per la diʃceʃa, come meglio potevo cercando di non ʃfracellarmi un ginocchio per arrivare prima poʃʃibile alle ʃcuderie.
C'erano tre cavalli, due maʃchi Miʃter No e ʒagor, e una puledra giovane: Conchita. Era la mia favorita, nera come l'ebano e freʃca e liʃcia e buona e, l'avete capito, me ne ʃono innamorato ʃubito.
Poteva valere la pena ʃopportare i ragaʒʒi nelle loro diʃaʃtroʃe preʃtaʒioni racchetta in mano o ʃmaʒʒando carte per quattro pomeriggi a ʃettimana ʃe poi, al giovedì, tra barʒe e fattoria ci ʃi ricaricava più che con l'Ovomaltina.
Quando ho ʃmeʃʃo di andare all'aʃʃociaʒione, verʃo quindici anni, ho continuato ad andare alla fattoria. Conoʃcevo Maruʃca dai tempi in cui ci andavo con gli ʃtrambi, era una ragaʒʒa polacca che lavorava lì e che mi aveva preʃo a benvolere perché durante le mie viʃite la ʃgravavo di un bel po' di fatica aʃʃolvendo a compiti ʃolitamente ʃuoi.
La prima volta che montai Conchita, contro tutte le raccomandaʒioni di mia mamma, lo feci corrompendo Maruʃca, un po' colla mia liʃca e un po' andando in giro ʒoppiconi più che potevo.
Fu Maruʃca a raccomandarmi di tenere i piedi ben dentro le ʃtaffe, reggere ʃtrette le redini e aʃʃorbire con il culo il movimento dell'animale.
Maruʃca mi faceva montare Conchita di naʃcoʃto al ʃignor Bordoni, fattore capo di tutta la baracca. Finì che lo venne a ʃapere anche lui il giorno che caddi come un cretino mentre ʃtavo facendo a piccolo trotto il giro della vigna baʃʃa.
Non mi ricordo come andò, mi riʃvegliai ʃu una panca vicino alle ʃcuderie ʃchiaffeggiato dal ʃignor Bordoni e coccolato da Maruʃca. Pare che non ero morto, avevo preʃo una botta al fianco deʃtro e anche alla ʃpalla, ma il peggio doveva ancora venire.
Il ʃignor Bordoni rimbrottò a muʃo duro Maruʃca che un altro po' le fa rimpiangere la Varʃavia, quella del ghetto, ma ʃoprattutto mi ʃquadrò ʃenʒ'appello e m'informò che la ʃera ʃteʃʃa avrebbe avviʃato mia mamma. Non ʃarebbe ʃtato lui, diʃʃe, a pigliarʃi vent'anni per un povero mentecatto bavoʃo che voleva ammaʒʒarʃi.
Lo implorai, come non avevo implorato mai neʃʃuno prima di allora. Cercai di ʃpiegare che ʃe mia mamma ʃapeva la coʃa mi avrebbe ucciʃo, ma queʃto ʃe mi andava bene. ʃe invece mi andava male mi avrebbe rinchiuʃo in caʃa almeno per un paio d'anni mandandomi fuori ʃolo a portare la ʃpaʒʒatura, mi avrebbe coperto da ʃettembre a maggio con triplo ʃtrato lanoʃo di maglia, più cicliʃta a collo alto, più cardigan peruviano. Mi avrebbe probabilmente avvoltolato nel domopack prima di mettermi a nanna e, con molta facilità, mi avrebbe fatto il bagno nel lyʃoform per gli anni a venire.
L'ineffabile ʃignor Bordoni neppure mi guardò, continuò a ʃpaʒʒolarʃi gli ʃtivali dalla mota raccattata in vigna e, quando io ebbi finito la ʃupplica, ʃbuffò un po' alla maniera di Miʃter No e ʒagor e ʃi allontanò ʃenʒa manco ʃalutare. Prima di ʃparire dietro a un capannone alʒò il braccio per ravviarʃi il riporto.
Per la prima volta, da quando andavo alla Vecchia Pagnana, venni via ʃcordandomi di ʃalutare Conchita.
Tornai a caʃa di paʃʃo ʃvelto. Il dolore all'anca quaʃi quaʃi mi reʃtituiva una ʃconoʃciuta ʃimmetria, procedevo incredibilmente dritto. Roba da darʃi delle martellate ʃu quel fianco per il reʃto dei miei giorni.
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Il Liʃca - capitolo 1
Il Liʃca - capitolo 2 
Capitolo 3 il 19 aprile

15 aprile 2013

Il Liʃca - (1)


Io ʃpero che il congiuntivo muore. Di per ʃé non mi ha fatto nulla, non ce l’ho con il congiuntivo, ce l’ho con tutti quelli che ʃtanno lì, pronti a ʃaltarti addoʃʃo quando ne ʃbagli uno e a ʃoʃtenere che ʃai l’italiano ʃolo ʃe conoʃci il congiuntivo. Cavolate.
Ecco queʃta è una coʃa che mi va che ʃapete di me, ʃe volete conoʃcermi meglio.
Anche ʃe forʃe prima avrei dovuto avviʃarvi che ho un difetto di pronuncia, la liʃca, per queʃto avete viʃto e vedrete delle lettere ʃtrane in queʃto teʃto, beh ʃono le mie “eʃʃe” e ci tengo che le leggete e le pronunciate nella voʃtra teʃta come le direi io, queʃto ci avvicinerà un po’, io e voi, anche ʃe non è detto che è una buona coʃa.
E tenete preʃente che anche con le ʒeta non è che ci vado proprio a noʒʒe.
Non ʃono nemmeno bravo a ʃcrivere, no, ma tra le coʃe che mi piace fare – che non ʃono molte - è una di quelle che mi viene più naturale, perciò ʃcrivo. O imbratto carte, ʃe preferite.

Mi chiamo Marco Pampaloni, un nome ʃpeciale a cui voglio un gran bene, un po' perché è il mio ma ʃoprattutto perché non ha eʃʃe, non ha ʒeta e quando lo pronuncio, perché capita ʃpeʃʃo che ti chiedono come ti chiami, lo pronuncio bene come ʃe ʃono normale.  Già, perché a queʃto punto è meglio che vi dico pure che non ʃono normale.
A detta di molte perʃone che mi è capitato d'incontrare nella vita ʃono un tipo ʃtrano e una fetta di ragione ce l'avranno, ʃe conʃideriamo l’elenco di epiteti che mi ʃono ʃtati rivolti e che ho diligentemente raccolto. Difatti ho un quadernetto dove colleʒiono i vocaboli con i quali mi ʃono ʃentito chiamare negli anni, direttamente o per ʃentito dire. Quindi ʃono mentecatto, ʃvitato, handicappato, ritardato, mongoloide, ʃono idiota e pure ʃuonato e tipo ʃtrano. Ma ʃono anche ʃtupido eʃʃere, meʒʒo grullo, teʃta d’uovo e ʃono diverʃamente abile, deficiente e varie verʃioni di faccia di che potete immaginare anche ʃenʒa che ve le ʃcrivo.
Quello che preferiʃco è “attardato”, come mi chiamò un bulletto un giorno in buʃ. Non mi è piaciuto ʃubito queʃto “attardato”, ma piano piano mi ci ʃono affeʒionato, da quando anche per Maria ʃono diventato il ʃuo cucciolo attardato.
E poi, attardato, a parte che non ha eʃʃe e non ha ʒeta, dà proprio l'idea che poi comunque arrivo, perché arrivo.
Neʃʃuno ad ogni modo mi conoʃce come Marco Pampaloni, per tutti gli amici ʃono “il Liʃca” e mi va bene coʃì. Per i meno amici ʃono una delle robe del quadernetto.
In buʃ tornando da ʃcuola ero quello che toccava il ʃedere alle ragaʒʒe. Lo facevo perché erano i miei compagni a ʃpingermi. Loro ʃe la ʃghignaʒʒavano in fondo al buʃ e a me dava una ʃcoʃʃa ʃentirli ridere, più di quanto mi piaceva davvero taʃtare quei culi. Ma queʃto non vi autoriʒʒa a penʃare che non mi piacciono le ragaʒʒe.
Non ʃono buono a camminare veloce, correre neanche a parlarne, vado via ʃtorto come un giunco, allora ʃì che ʃembro ʃtrano. A camminare normale invece ʃono un aʃʃo, faccio i chilometri veri. Non guido l’auto, tantomeno il motorino, anche ʃe una volta ne ho avuto uno finché non ʃono finito contro un ʃemaforo e mi è ʃtato inibito per ʃempre. Vado poco anche in bici, ma per pedalare pedalo. A piedi non ho rivali, un paʃʃo via l’altro, mi dovreʃti guardare proprio al rallentatore per accorgerti che appena appena ʒoppico, ma non ʃi vede a occhio nudo.
La coʃa peggiore che mi ritrovo è queʃta teʃta ad uovo. Oblunga, va ʃu verʃo l’alto come se ha un appuntamento con un cappello nella ʃtratoʃfera. Non ho ancora compiuto 23 anni, ma non ho più nemmeno un capello, ʃe non nelle immediate vicinanʒe delle orecchie. E la coʃa è ancora più evidente, voglio dire la teʃta ad uovo.

Ero piccolo la prima volta che mi portarono alla fattoria della Vecchia Pagnana.
Mio padre, Dino Pampaloni, lavorava duro in un ingroʃʃo di giocattoli dall'altra parte della città, era ʃpeʃʃo al magaʒʒino, altrimenti era in viaggio nel tragitto caʃa-lavoro o lavoro-caʃa. Mia madre, Roʃita, anche lei ʃi dava da fare ʃfaccendando e ʃtirando a caʃa d'altri. Fatto ʃta che il pomeriggio, a ʃcuola chiuʃa, ero un peʃo, e a caʃa da ʃolo, un ritardato come me non ʃi poteva laʃciare. Non tanto perché avrebbe potuto farʃi male o berʃi un ettolitro di varichina, no, ʃemplicemente perché chiʃʃà coʃa avrebbero detto i vicini. A toglierci le caʃtagne dal fuoco la provvidenʒa ci inviò l'Associazione Senza Distanza. Fondata una ventina d'anni prima da un manipolo di genitori baciati dalla ʃorte e deʃtinatari eʃcluʃivi di figli con problemi, aveva preʃo vita propria ʃopravvivendo agli antichi fondatori e continuando a raccattare, o accogliere ʃe preferite, queʃta ʃorta di feccia umana coʃtituita da figli di ʃcarto incapaci di paʃʃare un pomeriggio da ʃoli in caʃa ʃenʒa incendiarla.
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Il Liʃca - capitolo 1 di 3.
Capitolo 2 il 17 aprile.
Capitolo 3 il 19 aprile.

9 aprile 2013

Sette per otto cinquantasei

Ogni volta che nel mondo un bambino, o chi per esso, viene interrogato su questa tabellina si apre un varco spazio temporale che assume una consistenza quasi solida, tridimensionale, e copre la distanza dalla domanda posta  alla risposta data.
Poi, gli attimi di vuoto evolvono in un processo chimico e si condensano in pure particelle tangibili di tempo perduto (nella foto Marcel Proust è À la recherche del cinquantasei).
Sette per otto, con anche il suo speculare, è la tabellina più tosta e meno memorizzabile che possa esistere. I cinquantotto, i quarantasei, i cinquantadue si sprecano nell’universo delle risposte sbagliate.
Un gruppo di ricercatori del MIT (*) firma uno studio sulla deriva ipotetica e migliore che avrebbe preso il mondo se al sette per otto fosse stato sempre risposto a tempo zero.
Con il tempo risparmiato avreste potuto prendere quel treno, portare Sara ogni giorno al mare, imparare a giocare a Bridge, salvare il vostro Tamagotchi, baciare quella tipa alla fermata della metro.
Con un po’ di tempo in più il padre di Kim Jong-un avrebbe avuto modo d’infilarsi il profilattico. I Clash avrebbero fatto un altro disco e Kubrick un altro film, Armstrong e Aldrin avrebbero proseguito fino alle Lune di Giove.
E Bach invece della solita Toccata e fuga avrebbe magari composto una Toccata e resto altri dieci minuti magari mi prendo un caffettino.
La soluzione è insegnare ai nostri cuccioli, assieme al loro nome, anche il sette per otto, fin da piccoli.
          - Come ti chiami? - Pietro.
          - Sette per otto? - Cinquantasei.
E via andare: più facile a farsi che a dirsi.

 (*) Massachusetts Institute of TempoPerduto

3 aprile 2013

Peppino di Capri mi leggi?

Mia mamma, che poveretta la memoria è il problema suo, quand'era ne su' cenci mi raccontava spesso dei fasti raggiunti dalla casa del popolo del paese mio. Pure se lei, a dirla tutta, frequentava, la chiesa e quindi l’Acli e alla casa del popolo ci andava con gli occhiali da sole e la pezzuola in capo in stile Jaqueline. Fatto sta che alla sala da ballo della casa del popolo, divenuta poi Dancing e dopo ancora Disco Antella, negli anni sessanta/settanta, periodo di massimo fulgore, son passati fior di personaggi. Due su tutti: Mina e Lucio Dalla. Ma non un Lucio Dalla di cartone come ingenuamente credevo io, no no quello vero. E così pure la tigre, anche se capisco possa sembrare inverosimile.
Andò che quando a cantare alla casa del popolo venne il buon vecchio Peppino di Capri - o chi per lui perché mia mamma ha sempre fatto un po’ di confusione coi nomi pure quando stava bene - il suo cachet fosse di 1.200.000 lire. Fu uno dei primi a essere invitato, tanto che la casa del popolo non era stata nemmeno completata e il buon Peppino di Capri, o chi per lui magari era Gagliardi o Bongusto chissà, pensò bene di tenersi le 200.000 lire e di lasciare alla casa del popolo il milione, grazie al quale poi, si riuscì a portare a termine l’edificazione del circolo ricreativo. Insomma niente, stamani andando in ufficio ho visto che Peppino fa ancora delle tournée e passerà da Firenze nei prossimi mesi, chissà magari ci lascia qualcosa per stendere un pezzo di tramvia.
Comunque ci tenevo a dire grazie a Peppino, o a chi per lui.

1 aprile 2013

Accanto al piattino

Non c’era da fare a cazzotti per infilarsi nel gruppo chierichetti alla chiesa di Ponte al Drago negli anni settanta. Gira che ti rigira eravamo sempre i soliti quattro o cinque sfigati, alla ricerca di una collocazione degna, in quel limbo temporale indefinito che andava dalla Prima Comunione alla Cresima.
Le nostre anime docili gravitavano ancora in orbita chiesa anche se, per il dopo Cresima, era consigliabile sparire dalla congregazione clericale ed elitaria a supporto di don Corrado e rifugiarsi in un più sano e anonimo laicismo.
- Massi te sei di borsa… - fa il Carelli, capo chierichetto per anzianità di servizio.
- Col cazzo, io la borsa l’ho fatta domenica scorsa, io faccio il piattino!
Massi, capello a spazzola faccia da duro, non era uno che ci potevi parlare, era il più grosso e il più stronzo, era lui il capo in pectore. Almeno di se stesso e almeno quando gli andava di venire a messa. E certo trovarsi in sacrestia non fungeva da deterrente al suo eloquio piegato al turpe.
- Va bene, allora, la borsa la fa Ciccio che è arrivato tardi.
La borsa, non ci piaceva, c’era poco da fare. Era per tradizione una menata. Tiriamo via buttarsi tra i parrocchiani alla disperata ricerca di acchiappare tutti gli spicciolini, ma farsi meleggiare dagli amici che, con la fantasia in folle, facevano sempre il gesto ma mai accompagnavano una misera centolire nella borsa, non era certo il primo dei nostri pensieri.
Si sapeva sì di altre parrocchie in cui essere di borsa pareva un privilegio raro. Mentecatti! Qui eravamo a Ponte al Drago, e la borsa faceva schifo quant’è vero iddio.
Ciccio era il mio rivale più duro, quel giorno, per il compito cui tutti noi aspiravamo. A meno di colpi di scena, il Carelli si sarebbe arrogato le prime e le seconde e a me sarebbe toccato accanto al piattino.
- Allora te fai accanto al piattino – mi dice - io le prime, le seconde e il campanello.
Il campanello della genuflessione, altro compito ingrato, doveva suonare nell’istante preciso in cui doveva suonare. Non c’era un suggeritore ufficiale e spesso il pericolo aveva la forma della distrazione, se ti perdevi “Egli offrendosi liberamente” eri bello che fregato. E la domenica dopo, se avevi la faccia di venire, eri di borsa e fine.
Anche essere di piattino ti dava la possibilità di presentarti in un certo modo davanti ai tuoi compagni di classe, braccio destro operativo di don Corrado pronto ad accalappiare le ostie che, malauguratamente fallita la bocca del comunicando, si arrendevano alla forza di gravità cercando la via del suolo.
Però, non avrei voluto essere Massi quando, l’anno prima, un’ostia consacrata, di rimpallo tra le dita del prete e la bocca di una vecchia cadde a terra senza che lui con il suo adorato piattino potesse recuperarla. Don Corrado non perse la calma, raccolse l’ostia, la riportò all’altare, forse la ripose da qualche parte o forse la mangiò lui stesso, terminò la messa e dopo, in sacrestia, ci fece un liscio e busso collettivo che avrei preso più volentieri una scomunica. Chiaramente, a Massi, la cosa gli scivolò di dosso come acqua di doccia.
Quindi il piattino era un concentrato di responsabilità. Non succedeva mai niente, quasi mai niente, ma se succedeva erano cavoli. Meglio evitare.
Poco da dire sulle prime e le seconde. Una serie di mansioni che a svolgerle non era certo necessario un astrofisico. Un aiutino al prete per favorirlo con una sciacquata di dita prima e con una bevuta di vinsanto poi. E una bella ripiegata al tovagliolino di pizzo. Fatte.
Ma accanto al piattino, ragazzi, era una vera bomba, ti permetteva di startene di fianco al prete che comunicava i fedeli, in un’ostentata simmetria, a contrappeso del chierichetto di piattino dall’altro lato.
Era ganzo perché te ne stavi lì, bello e statuario, anche se non eri affatto bello e statuario. Imponente e sicuro, anche se non eri affatto imponente e sicuro. Te ne stavi lì, senza obblighi di sorta, tranquillo e beato, tassello insostituibile di un armonico quadretto. Lì, le braccia conserte, in una posa importante e degna, anche se non eri affatto importante e degno. Te ne stavi lì, a seguire lo snocciolarsi dei parrocchiani linguacciuti e non t'importava un fico secco della borsa che ti aspettava la settimana successiva, non t’importava delle ostie, dell'acqua, del vino e del campanello. E non t'importava un garbato accidente neppure di don Corrado e delle sue eterne omelie. Non t'importava di niente. O quasi.
Eccoci, il coro attacca l’ultimo canto della Comunione, il gruppo dei ragazzi finalmente si accoda alla fila, ci sono tutti i tuoi compagni e le tue compagne di classe. E c’è anche lei.
E tu sei lì con l’atteggiamento dignitoso di chi sta accanto al piattino. Di chi sa di essere accanto al piattino. Inchiodato da un abisso allo stomaco nella tua veste bianca e nera, in attesa degli attimi fatali in cui darai il meglio di te, stampato in un sorriso a volte anche un po’ ebete.
Puoi vederla adesso, quando mancano ancora dieci o dodici persone da comunicare prima che sia il suo turno. È in quest’istante che accanto al piattino sprigiona tutto il suo valore e ti regala un'esplosione di adrenalina e un palpitare intenso. E sono incroci di sguardi, ammiccamenti puri e rimbalzi di pensieri che mai saranno espressi nella vita.
Lei, con il vestito che non le vedi mai a scuola, che occhieggia incerta verso di te, con le braccia lungo i fianchi, quasi buffa con la sua bocca in mistica attesa, e tu lì: potente, incontrastato e radioso. E accanto al piattino.
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