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8 agosto 2012

Battuta di caccia

Se il cervo rappresenta la maestosità e il cinghiale la forza, il capriolo è il simbolo della grazia e della delicatezza. È l'animale più diffidente del bosco: l'udito il suo senso più sviluppato, poi l'olfatto, quindi la vista. Il capriolo appare all'improvviso, come un fantasma, e bisogna decidere nello spazio di un solo secondo se valga la pena di abbatterlo...
O di fotografarlo.
Nella prefazione de Il mistero di Mangiabarche (*) si parla del capriolo e la descrizione casca a fagiolo. Infatti, è da qualche sera che con France si va passeggiando in una riserva a 500 metri da casa, poco prima dell'ora di cena, solitamente a caccia di lepri e fagiani.
La nostra caccia è incruenta e i nostri proiettili sono gli avvistamenti. Lepre vista = lepre abbattuta.
I fagiani sono i più facili da beccare, poi vengono le lepri.
Una lepre corrisponde a due fagiani nel nostro manuale d'equivalenze delle prede. Lo scorso anno fu mitica una serata in cui abbattemmo ben 13 lepri.
Da quest'anno la caccia s'è fatta più grossa perché in giro hanno fatto la loro comparsa dei caprioli.
E un capriolo vale almeno 3 lepri, come si può dedurre anche dal romanzo di Carlotto.

Se il frastuono di un aereo lo lascia del tutto indifferente, il "crac" di un ramo spezzato lo mette immediatamente in allarme.

Noi ci appostiamo pazienti, al limitare del campo di grano, in attesa della nostra preda e quando possiamo sentire solo quella lisca di vento che arruffa le spighe, finalmente arriva, elegante e preciso preciso per lo spritz.

(*) 2,3 Carver.

14 maggio 2012

Error imprinting

Càpita che devo spostare il pupo perché s’è appisolato nel lettone o per depositarlo in bagno per l’ultima pipì. Insomma, se devo prenderlo in collo mentre dorme sodo, succede che mi chiedo, in una deriva paranoica ma nemmeno poi tanto, e se fosse un altro a tirarlo su, uno sconosciuto, lui sarebbe comunque così tranquillo?
C’è un momento, appena percettibile, quando lo alzo per caricarmelo addosso, in cui sento che sta in un limbo dal quale il suo inconscio e il suo sentire non hanno ancora preso posizione verso la mia invadente presenza.
Potrebbe urlare, picchiarmi, staccarmi le orecchie a morsi o scalciare, ma invece accade qualcosa, una piccola cosa della quale io non riesco a focalizzare né il nucleo né i confini, ma sento che accade, ne percepisco la vibrazione. È l’attimo in cui il suo sonar interno scandaglia le mie braccia, il mio corpo e la mia pelle e riconsegna al comando centrale una risposta.
Un esito per niente scontato, elaborato dai suoi ricettori olfattivi (forse), uditivi (forse), e tattili (forse).
Anche se quello che mi piace pensare è che la decisione di mollare gli ormeggi e abbandonarsi al mio abbraccio confortante e sicuro, la decisione di stringermi forte pur non aprendo gli occhi, altro non sia che il moto di un istinto, di un’identità genetica e di una comprensione che va oltre il babbo compagno di giochi e si avvicina con un’iperbole al riconoscimento della propria madre.
Ecco, è quello il momento che riesco a immaginare più vicino a sentirsi mamma.

1 febbraio 2012

All you need is boomerang

Il punto è che non riesco a mettermi in pari. In ufficio e a casa i fogli mi prendono di mira, mi circondano, mi assaltano e mi sommergono. E per quanto m'impegni a sminestrare le rogne che si portano appresso, altre ne arrivano. A frotte.
A tutto questo s'aggiungano un paio di caselle email (sempre ufficio e casa) perennemente zeppe di posta da smistare, archiviare, cancellare se va bene o, se va male, da lavorare, sempre con il fiato dell'Amministratore di Sistema sul collo. Alla fine son fogli anche quelli. E non penso di essere una mosca bianca, ma di avere un grado di sommersione da fogli nella media.
E non ce la si fa a stare al passo perché, per quanti fogli puoi far fuori, loro si riorganizzano e s'incrementano di numero, lunghezza e frequenza in un'inarrestabile progressione. Tutto quello di cui ho bisogno è il boomerang. Certo non un boomerang qualsiasi, no, bensì The Magic Boomerang.

Chi ha visto come me, nel Pleistocene, Tom, un ragazzino australiano lanciare il boomerang e risolvere tutti i suoi problemi fermando il tempo nel lasso da quando scaglia l'attrezzo ricurvo a quando gli ritorna tra le mani, non può non desiderarlo intensamente.
Tirerei il mio boomerang alto nel cielo, una parabola allungata nell'infinito e tutto sotto che si congela: persone, cose e flusso di fogli. Solo così potrei avere una chance per rimettermi in pari. D'altra parte il tempo, il vero tesoro di quest'era frenetica, è una risorsa preziosissima e impagabile.
Fatti i dovuti calcoli, non è che mi servirebbe spesso, no, basterebbe un giorno al mese, ecco. Un giorno al mese in cui tutti se ne stanno buoni, fermi immobili: mogli, figli, server, postini, capi, colleghi, celentani, ritepavoni... e io che approfitto per spuntare il To Do, archiviare i fogli, le mail e rimettermi in pari.

10 gennaio 2012

Pippo, un coniglio e la strega Nocciola

C'è un buco nella lingua, senza scomodare il piercing estremo.
Mi riferisco a una domanda che mi pose mio figlio grande tempo addietro, quando ancora se ne andava per licei.
- Ma se uso glielo al maschile, perché non esiste un lelo per il femminile?
Me la cavai con stridore di unghie su specchi, proprio come quando mi aveva chiesto lumi sulla questione irlandese.
Beh, è pacifico per tutti che gli=a lui e le=a lei, ma il lelo pare proprio che non sia stato varato.
Evidentemente Dante, o chi come lui ha avuto la possibilità di formare la nostra lingua, non l’ha ritenuto necessario, o non gli (a lui) è servito. Perciò adesso non c’è.
Io però non vedo cause ostative alla sua esistenza, anzi.


        - Rendi il libro a Giulio!
        - Ora glielo rendo.

        - Rendi il libro a Michela!
        - Ora lelo rendo.

È chiaro che se mi togliete il "lelo" non so più rispondere e va a finire che il libro me lo tengo, con buona pace di Michela.
C’è un buco nella lingua, prendiamone atto e colmiamolo. Ehi, della Crusca, muoversi. Linguisti anonimi, sveglia!

La cosa mi ricorda uno storico episodio di Topolino, in cui la Strega Nocciola era, come spesso accade, impegnata a convincere Pippo di essere davvero dotata di magici poteri.
Nocciola aveva, allo scopo, regalato a Pippo un cappello a cilindro, di quelli che usano i prestigiatori, che era stato stregato da lei stessa grazie al contenuto di una sorta di dizionario enciclopedico mondiale, tipo Treccani ma versione Disney. In soldoni, tutto ciò che era definito nell’enciclopedia scelta dalla strega Nocciola si sarebbe potuto estrarre dal cilindro in questione, al semplice pronunciare della parola.
Non c'era oggetto o animale che Pippo decidesse d'estrarre, pensato o suggerito dal pubblico, che non sbucasse fuori dal cappello magico. Pippo cominciava a riscuotere un discreto successo e tendeva a credere che Nocciola avesse davvero "i poteri".
Solo che, per un errore dei curatori, la versione di quell’opera linguistica colossale era stata pubblicata priva della parola coniglio, né si era voluto reintegrarla immaginando che nessuno avrebbe avuto la necessità di cercare il vocabolo sull’enciclopedia.
E così, dopo che tutti i desideri più assurdi degli spettatori erano stati esauditi da Pippo che estraeva dal cilindro l’oggettistica più svariata, ecco cadere il nostro eroe su una richiesta all’apparenza innocua: un classico coniglio.
Uno fetente del pubblico ha la malaugurata idea di chiedere un coniglio e, beh, potete immaginare la fine con Pippo che rincorre Nocciola per gonfiarla di botte (o almeno mi pare).

C'è da dire che lo Zingarelli spiana la questione riportando alla voce "glielo": forma pronominale composta dal pronome gli (come compl. di termine con i significati di a lui, a lei, a loro) e dal pronome personale maschile singolare lo. 
E potevo immaginarmelo, ma se fossi andato a controllare prima, mi sarebbe passata la voglia di scrivere.

25 dicembre 2011

La vita sognata

- Sì ma te... quali erano i tuoi sogni da bambino?
Ci ho dovuto pensare un po', ricordare di quando ci sdraiavamo sfiniti al campino dopo l'ennesima partita di calcio durata un pomeriggio intero e lì, recuperando un po' di fiato per tornare a casa, con gli occhi incastrati in una nuvola bianca sperduta, tiravamo fuori i nostri sogni dalle tasche. Quelli raggiungibili e quelli meno.
Volevo andare sulla Luna, cazzo, e ci volevo andare in giornata. Non c'era un bambino negli anni settanta che non voleva fare l'astronauta. Non c'era. E giustamente.
Volevo poi sposare la Veronica, ci potete scommettere che volevo sposarla. Non era un fidanzamento trentennale o una convivenza il mio obiettivo, volevo proprio portarla all'altare, punto e basta.
Sognavo poi di diventare uno sportivo professionista. Calciatore, sì, tennista o sciatore. Oppure atleta, sognavo di ripetere le gesta del Caballo, Alberto Juantorena, e di farlo alle Olimpiadi successive alle sue (Montreal '76).
Mi sarebbe piaciuto cantare, mettere su un complesso con quattro sfigati che suonavano per me visto che ero negato con gli strumenti, e io a fare la voce, il cantante solista. Ero però negato pure per quello.
Restando coi piedi più attaccati al terreno, volevo diventare un giornalista sportivo, un Paolo Rosi, un Adriano De Zan, un Guido Oddo.
E poi mi sarebbe piaciuto visitare l'Australia, ero rimasto affascinato dagli aborigeni e dai koala.
Guardandoci adesso, erano tutti sogni possibili. Certo, qualcuno più arduo, ma tutti possibili.
Oh, ne avessi beccato uno!

E tu, li hai acchiappati i tuoi sogni da bambino?

26 settembre 2011

Noi che facevamo l’amore in 500

Se a diciott’anni avevate sotto al culo una Golf, vi potete anche risparmiare di leggere il seguito.
La mia 500 era rossa, targata FI471252, colle foderine azzurre e il tettino nero apribile. Il tettino da cui abbiamo urlato la nostra gioia nel luglio dell’82.
Farci l’amore dentro era un'impresa.
Il primo requisito fondamentale erano i reclinabili visto che non tutti i modelli li montavano.
E poi? Poi serviva convinzione, slancio, acrobatismo, creatività, spirito di sacrificio, adattamento, ironia e anche sprezzo del pericolo, per la temuta leva del cambio sempre pronta a profanarti da dietro.
Inoltre, tasto dolente, serviva pure una ragazza.
A vederle oggi, quando ti sfrecciano accanto che c’è un raduno, pare impossibile perfino che ci s’entri seduti figuriamoci se ci si può immaginare quella 500 come teatro di performance erotiche.
Diciamolo, quando si pigliava a prestito la 127 del babbo era come fissare una camera all’Hilton.

22 settembre 2011

Tornando a casa

Lo vedo al semaforo, aspetta il rosso. La regolazione dell'incrocio è complicata e lui lo sa. I rossi sono lunghi. Ere geologiche. C'ha il naso da pagliaccio, rosso, in armonia con il colore del semaforo che è un po' il suo datore di lavoro. Porta un caschetto biondo di capelli e un sorriso sfrontato. Tira per aria una serie di birilli colorati e cammina. Sorride e cammina avanti e indietro, forse dice anche qualcosa, magari canticchia, ma non sono così vicino da sentirlo.
Ha la faccia di uno felice.
Gli automobilisti lo guardano, che altro devono fare? Certo non scendono dalla macchina per congratularsi né si mettono a sventolare gli accendini.
Il lavavetri dopo un po' ti fa girare pure i coglioni, al terzo giorno sei capace d'investirlo se si ripresenta colla spatola o se ti spugna i fanali, ma il giocoliere col red nose no, mette allegria, mi viene voglia di abbracciarlo.
Però io sto dalla parte del verde, maledetto semaforo. Rallento per vedere, mi suonano, tiro via. Sbircio dallo specchietto per capire se alla fine tira fuori un cappello, se raccoglie due euro.
O se qualcuno lo tira sotto.
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