Alzo la cornetta per sentire se il telefono è a posto. Un tu tu mi dice di sì. Controllo anche il volume della suoneria: è al massimo, ma Walter non chiama ancora. E sono le dieci e dieci. Potrei anche volermi andare a sdraiare a quest’ora, penso sia un mio diritto no? Di venerdì sera, poi. E questo cosa fa? Quando chiama? Evidentemente pensa che non c’ho niente da fare, questo pensa che stia qui a perder tempo in attesa della sua telefonata e della sua stramaledetta solfa bastarda. O pensa che io non abbia niente di meglio da fare il venerdì sera che scoprire il cavolo di posto dove andremo o non andremo a suonare domenica. Ma appena chiama lo sistemo!
Alle dieci e venti è veramente troppo. Walter non si è mai comportato così e niente gli dà il diritto di farlo. Niente. A meno che non abbia chiamato proprio in quell’attimo in cui ho alzato la cornetta per sentire se c’era linea. Può essere. Sto per riprendere su la cornetta per verificare la linea, ma m’immagino Walter di là che fa il numero… allora la lascio giù. E aspetto. Niente, nessuno squillo.
Non si saranno dimenticati di me? Capace che se non mi chiamano una volta e suonano senza il secondo clarino, vedono che non fa nessuna differenza e poi magari mi lasciano a casa per definizione.
Walter, Walter diobonino, fai questo cacchio di numero. Fai questo numero. Poi lo so… va a finire che perdo la pazienza e non mi so controllare e lo tratto male per davvero: gli fo un liscebbusso che se ne ricorda.
Mi affaccio alla porta, aprendo con cautela: una cassettiera in legno quasi rosso è spiaccicata sul muro di fronte e lascia a malapena lo spazio per passare su. O per passare giù. Richiudo.
Il telefono è sempre lì, come morto. Guardandolo adesso dubito perfino che possa suonare, mi sembra impossibile anche che abbia solo una volta suonato in vita sua, mi sembra tutto meno che un apparecchio teso ad emettere una qualche variante di un misero suono.
Sono le dieci e mezzo quando prendo su quel telefono inerte e compongo il numero di casa di Walter.
- Pronto?
- Walter, sono io.
- Oh, ciao Sergio, che si dice, che non si dice?
- No, niente, non ti ho sentito e siccome volevo parlarti…
- Dimmi dimmi, sto ancora cenando, sono stato mezz’ora a telefono con Tiberio…
Il nostro primo clarino!
- Chissà che gli ha preso, se n’è uscito con tutta una serie di menate sulle sagre, sullo squallore dei posti dove si suona, perfino sulle giacchette bordò, vallo a capire! Se aspirava a suonare con la Filarmonica di Berlino, poteva pensarci anche prima. Fatto sta, domenica siamo a Greve per la festa del Castagnaccio ma lui non viene, anzi non viene proprio più.
- No?
- No. Ma gliel’ho detto che ci importava il giusto e che avremmo suonato ugualmente bene con te primo clarino. Anzi primo secondo e ultimo. Se pensava che ci si mettesse a piangere…
Primo clarino?
- Sergio, ci sei? Che volevi, svelto perché devo finire di cenare.
- No, ti volevo chiedere… ma con quante macchine si va?
- Al solito dài, passi di qui, parcheggi e si va su con la mia, gli altri vengono col furgone.
- Bene, allora ciao.
- Ciao.
Vado per le scale e faccio una voce a quei ragazzi: è l’ora di portare su la cassettiera. Anche alla svelta, ché dopo una lucidatina allo strumento e via a nanna. Si prepara un gran fine settimana!
(fine)
Mannaggia alla fine tutti desideriamo essere i primi non importa dove come e quando, speriamo sia felice.
RispondiEliminaChe bella elucubratona! Potevi menarla avanti e indietro ancora ancora un po' e noi ti avremmo seguito.
RispondiEliminaIo ti avrei seguito!